Il canapajo/V
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Del nascimento della Canape: del sarchiarla, o roncarla: descrizione della pianta, e del modo di conoscere quando è matura
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Or mi si muove, Albatica, vaghezza
Di qui condurti meco a la cultura,
Perchè s’è ver ciò che dic’io, tu ’l veggia.
Giriamo il campo da la parte ombrosa,
(Per quanto fann’ombra in April le piante)
Che ’l sol co’ raggi suoi non ci percuota.
Vedi tu qui quella pianura verde
D’erbucce tutte ricamata eguali?
Non creder già che sien queste le fraghe
Del tuo bell’orto d’Antognan, per quanto
Simili al nascer sien canape e fraghe.
Tempo già fu, che un sempliciotto Inglese,
Di qua passando, i canapin’ germogli
Fraghe le giudicò sul maturarsi;
E posto il piè nel canapajo, andava
Curvo cercando di carpirne alcuna:
Se non che un rozzo villanel gli aperse
Gli occhj, e guidollo a veder lume un cieco;
Che in propria casa ogn’ignorante è dotto.
E non è bello quel tappeto verde
Tessuto a foglie? Or sappi, che a ridurlo
A questa sì pomposa appariscenza,
Molta conviene oprar arte ed ingegno.
Ma qui sediam, che ’l buon orezzo ’l chiede,
Nel solitario stradellaccio angusto,
A questo campo verdeggiante in faccia,
E ciò che di più dir sovviemmi, ascolta.
Finchè sta in suo covile il seme occulto
Sazio già di letame e di travaglio,
Guardi bene ’l cultor dal rostro adunco
De’ domestici augelli a custodirlo,
E degli altri animai dal duro piede.
Razzolan troppo i primi, e gli altri al pasto
Troppo son usi di granita biada,
O di tenera erbetta allor nascente.
Intanto, a vista, dopo brievi giorni,
(E ancor pria se ’l terren d’umido abbondi,
E piovereccia sia l’aria, o nebbiosa)
Sorger vedrai le pianticelle spesse,
Giusta la man di chi buttò già ’l seme;
E dopo le due foglie seminali,
Altre d’intorno alzarsi ne vedrai
Al picciol stelo, che va pur sorgendo.
Tutto è tenero ancora: e guai se un ugna
Di quadrupede armento, dal custode
Libero fatto, a calpestarlo arriva.
Troncansi i bei germogli, o seppelliti
Rimangon sì, che non più metton vetta,
E ’l cultor spera invan la sua ricolta.
Sorta così per quanto è lungo un dito
Questa verzura amena, pargoletta,
Non ti fidar, nè creder già che tutto
Canape sia ciò che da terra sbocca.
Fra le molli erbe ancora invidia regna.
Col vegetar del canapino seme,
Altri semi vorrian seco innalzarsi,
E farsi utili al mondo, allor che sono
Per natura atti solo al pasco, o al foco.
Centinodia, gramigna, vetriuola,
Mentastro, e cento e mille erbe selvagge,
Che radon terra terra per natura,
Vorrian su l’altrui dorso alzarsi al cielo,
E piucch’altri ’l vilucchio, che ben pare
Debil e fiacco per sottil suo stelo:
Quest’è, che con quel suo blando aggirarsi
Vicino, e intorno a la bambina pianta,
Macchina insidie, e affascinar la tenta.
Dolcemente da prima ei s’attorciglia
Sul gambo al nostro arbusto, e par d’amore
Il vincolo, e fu già d’odio, o d’inganno:
Ma col crescer de l’un, l’altro crescendo,
Talmente si rattornia e si rattorce,
Che la misera canape ancor molle,
E morbidetta, da quel nuovo peso
Giù tratta, piega il tenero suo collo,
E tutta si rattrappa e si deforma,
Sicchè muor soffocata innanzi tempo,
E null’altro riman, ch’arido tronco.
Or tu, che questo popol di nimici
Vedi ivi nato per tuo danno solo,
Da valoroso rustico campione,
Sterpar dovrailo tenerello ancora,
Nè aspettar poi, che ti sovrasti adulto.
Però un sarchiello a due taglienti penne,
D’inegual latitudine ai due capi,
Ben affilato, e maneggevol molto,
L’arme sarà miglior per la tua guerra.
Con quest’asta ferrata e bitagliente
Vanne per entro ’l campo, e nudo sia
Il tuo piè, che ’l virgulto non offenda:
Vanne, e col ferro a colpi lenti e corti
De l’orgogliosa erbetta il crin recidi,
E se l’angusto campo tel consente,
Penetra sino a la radice, e quante
Selvagge ne vedrai, tutte ne sarchia:
Poi lascia i tronchi avanzi, e i morti busti,
Qual la cadmea già serpentina prole ,
Sparsi sul campo, e non curar di loro:
Terra già furo, e terra torneranno.
La del tuo sarchiellin penna più larga
Sommova intorno al tuo diletto gambo
L’indurito terren, finchè respiri,
E al crescer de lo stelo apra la via.
Dove folte vedrai le pianticelle,
Se vuoi (com’è di buon cultor costume)
Che senza danno il ferro tuo s’adopri,
China te stesso, e con benigna mano
Sterpa l’erbe selvatiche, e ripurga
Così la terra, sicchè tutta sia
De la nascente canape in dominio,
Nè con con altri a partir abbia il tuo frutto.
Ti dorrà forse, che scrignuto e curvo
Convienti lungo tempo errar pel campo?
Ma in che vuoi tu incurvarti? In vegliar tutte
Le intere notti a lume di lucerna
Su i volumi d’Atene, o pur di Coo?
Te chiamò ’l cielo a coltivar la terra,
E tu per questo sei al mondo nato:
Però non ti doler: la buona voglia
Fa lieve ogni fatica: altri con teco
Verranno, che tu sol non basterai
A terren vasto: ma quei che conduci
Abbian piè nudo; e se pur donna alcuna
Vorrai (che rara a quest’opra conviene)
Fa che le gonnelline abbia succinte,
E poco inverso ’l piè penda il grembiule.
Dico le gonnelline: or pensa poi
Se rustica venisse l’andrienne ,
E fosse uso di villa il guardinfante.
O’ sì, che l’ancor tenera piantuccia,
Da quel continuo flagellar di vesti,
Strazio orrendo n’avria piucchè governo.
Meglio, credimi pur, meglio è bandire
Di qua tal sesso, che arrischiarlo al danno.
Questa rassegna poi che avrai tu fatta,
Cessa, e ad altro ti volgi per sol tanto,
Che l’arbuscel via più crescendo avanzi,
E di più foglie in pochi dì s’ammanti,
Ma tenerelle foglie, e giù pendenti,
Quasi appassite per rugiada molle,
Come suol veltro per la caccia nato,
Senza le forti fibre, che sostegno
Facciangli, aver il muscoloso orecchio.
Indi rivisitando la cultura,
Vedrai, se d’erbe forestiere alcuna
Radice abbia d’alzar la cresta orgoglio,
Nè temuto abbia il tuo sarchiar primiero,
O sia ’l roncar, che il popolan qui dice.
Se tutto di novella primavera,
Ma di strane sembianze, e non amiche,
Rifiorir vedi, e tu ripiglia ’l ferro,
E a rinnovar comincia la battaglia
Con maggior lena, sì che ne ripurghi
L’infetto campo; ma ti guarda sempre
Di non scalfir l’anche immaturo tiglio:
Nè una fiata sola in questo campo,
Ma due, ma più, più volte a l’arme stesse
Porrai la mano, ed allor più che nuovo
Sia ’l canapajo, e a tal seme non uso.
Tanto arroncherai tu, tanto farai,
Che la superbia umiliata al fine
Vedrai de l’erbe, e più non nasceranno;
O se qualche radice sì orgogliosa
Sarà, che rialzar osi una fronda,
Meschina languirà, nè più avrà forza;
Che intanto il canapino arbusto adulto,
Più timor non avrà del teso laccio,
E riderà, com’Ercol de’ Pigmei.
Grandicella così fatta la nostra
Canape, il tuo sarchiar più non le giova.
Lasciala pure che con la temperanza
De le stagioni alzi se stessa fino
A la statura sua, ch’è piucchè umana,
Quando la terra diale l’alimento,
Giusta ’l governo che fin or cantai:
O quando ’l flagellar d’impetuosa
Grandine non l’abbatta, o la depredi,
Dal che benigno sempre ’l ciel ti guardi;
Grandicella così (torno a ridire)
Fatta la tua piantuccia, e bambolina
Non più, ma fanciulletta ardimentosa,
Vedraila ad ogni vento andar piegando,
E ogni dì nuovi metter ornamenti,
Tanto che poi fatta più adulta, un giorno
Verrà, che di pigmea sarà colosso.
Dritto alzerassi, come canna, il fusto,
D’angoli quadri, ottusi, e vuoto affatto,
Nè avrà mai più d’un gambo ogni radice:
Che al ver già non attiensi, chi la crede
Feconda sì, che dal suo imo fondo
Più sorcoli tramandi, e s’imboschisca.
Ben parrà che ciò sia per la soverchia
Vicinanza talor de’ sorgoletti,
Ma non sarà: sarà perchè un granello
Di seme cadde a l’altro in vicinanza,
E però nacque ove cadeo per sorte,
O la marra ’l gittò quando colpillo.
Varrone, e ’l suo seguace Columella
Vuol che un piè quadro di terren sia solo
Da sei grani di canape investito;
Ma la madre maestra esperienza
Altri quattro n’aggiunge, e sen compiace,
E forse più; che legge non può darsi
A una libera man seminatrice.
Altrove rada, altrove spessa nasce,
Ma non così che folto macchion sembri,
Dove pulita, e dove ramoruta;
E quella che per l’ombra non arriva
A la misura consueta, stassi,
E così fa, qualunque sia, ’l suo frutto.
Così crescendo, avanzeransi ancora
I mesi, e da l’April verrassi a Luglio,
Anzi al mese Sestile, e allor dirassi:
Fin qua, e non più cresce la pianta verde,
E mette allora la sua ferma vetta,
Con tal pennacchio zazzeruto, e bello,
Che tu stesso dirai: questo è ’l suo fine.
Le foglie a guisa d’un’aperta mano
Vedrai che cresceran merlate ed aspre,
Nè sì frequenti, ma di tratto in tratto,
E per quanta è una spanna, almen discoste:
Ma piucchè s’alza il fusto, allor più belle,
Più fresche, e di color tra verde e bruno.
Così ancor verderognola è la scorza,
Che in fila divisibili si stende
Giù da la vetta fino a l’imo piede.
E’ l’odor nauseoso, anzi che grave,
Come di cosa che addormenta e alloppia:
Legnosa è la radice, e poche ha barbe:
Bianca, e di fibre contornata e cinta.
Questo è il ritratto ch’io so farti; aspetta
Che s’innalzi al suo fin la pianticella,
E allor vedrai se buon pittore io sono;
Anzi buon notomista al par del grande
Marcello, onor de’ bolognesi studj,
Che un dì sì ben notomizzò le piante.
Ma pittura peggior talvolta farti
Potrei, qualora il cielo in questi giorni,
Sotto gli occhj del sol chiaro e lucente,
Nimico si dimostra al verde orgoglio
De l’innocente pianticella, e manda
Tal velenosa adusta pioggia in giuso,
Che n’aduggia la vetta, e le sue chiome
Annerisce, e contamina ad un tratto;
Onde ’l tiglio già verde, e la cannuccia,
In quella parte che più al ciel fa mostra,
Trista diventa per quel rio melume,
“E mezza quasi par tra viva e morta.
O misero cultor, che ne dirai?
Tu, che aspettavi ’l maturar vicino,
Ne vedi, e palpi l’insanabil morbo!
Cresca pur, cresca la tua verde pianta,
(Se crescer può chi di veleno è tocco)
Che dimezzato il frutto alfin n’avrai,
Se pur tal merce alcun sia che mai cerchi,
E piuttosto non stia chiusa e negletta
Nel tuo fondaco, e alfin poi ti riduca
In duri spaghi a convertirla, o in funi,
Pel nero tiglio che la copre in vetta.
Ma lungi omai gl’infausti vaticinj.
Tu guarda se sia ’l tiglio ben maturo,
E non più cresca, e non più forza acquisti,
E ti prepara a la vicina messe.
Vanne al tuo tetto allegramente, e chiama
La famigliola tua come a consiglio.
La numera, se basta a tutta l’opra,
Giusta del canapajo la misura.
Non curar fanciulletti, e se v’ha alcuna
Donna, cui ’l ventre per pregnezza esuberi,
Non la contar, perchè non vale a l’uopo,
O se val, può valer con suo periglio,
“E il pentirsi da sezzo nulla giova.
Del resto, e giovinette e garzoncelli,
Quanti n’hai, tutti invita, e le taglienti
Falci prepara, già riposte un anno.
Lauta cena imbandisci, e sia più carco
Il desco, e se mai puoi, l’elena sia
Il raviuol, cibo festivo, usato
Allora sol, che lieto si convive.
Ciascuno i sonni suoi dorma contento,
E aspetti ’l dì che a faticar lo chiami
Sul pizzicar de l’alba messaggiera:
E chi del gallo il canto è a sentir primo,
Svegli ’l compagno, e si rialzi a un punto.
Or se cerchi saper quando maturo
De la canape sia l’arbusto e ’l tiglio,
Per così metter mano ai ferri tuoi
In tempo fruttuoso ed opportuno,
Senti ciò che per via d’esperienza
Insegnò la natura al vil bifolco,
E impara come anche ne’ rozzi petti
Quel saper regna, che sovente alberga
A forza di sudor nei saggi padri
Che incanutir’ nel Peripato, e furo
Discordi sempre, e in gran battaglia misti,
Sebben maestri di color che sanno:
E apprendi a venerar le carte antiche,
Da cui, sott’ombra di mentiti Numi,
E di sognate favole, fu data
A l’uom per ben saper arte, e dottrina.
Un vero adunque testimon se vuoi
De l’aspettata maturezza, volgi
Gli occhj a la pianta fin da l’imo al sommo:
Se d’auree macchie le vedrai la scorza
Vergata, come salamandra il ventre,
Segno è, che ’l vital sugo allor da l’ima
Radice va mancando, e più non nutre,
Come chi ’nvecchia, che sebben è in vita,
Pur è una vita, che a morir comincia,
E per questa atterrar basta ogni vento,
Se le rughe senili an fede al mondo.
Ma da ciò sol non rimarrai securo:
Nuovo e più chiaro testimon n’avrai
Di maturezza in questa gentil pianta,
Se scotendone alcuna, un polverìo
Alzarsi vedrai fuor di quella vetta,
Che per qualche momento intorno annebbi,
E ti sforzi a tener socchiusi gli occhj;
Nè in van già dissi che ne scuoti alcuna;
Che polverose non son tutte al pari.
La sola segaligna femminella,
Presta a perder il verde, e a macularsi,
Sterile a semenzir sempre la vidi;
Bensì a la vetta è cappelluta alquanto,
E doviziosa di fronzuto fiocco,
Ma tesoriera di semente alcuna
Non fu giammai: la femmina di fiori,
Piucchè di frutti è vaga, e ne va adorna.
Se vuoi vederli, piegale la fronte,
E certi fiorellini a lei vedrai
Far cerchio di color’ giallicci alquanto,
E fra più stami, come di fettucce
Involti, uscir di mezzo a un calicetto
Di foglie in guisa di crinita stella.
Poi che più soli an questa chioma aperta,
Il fior si slega, e maturando ognora,
Granisce, e si sfarina inaridito
Tanto, che ’l venticel con l’agitarlo,
O la man con lo scuoterlo, ne spande
Quella polve, fra se quasi dicendo:
Nulla ho più che aspettar: matura io sono.
O polve, o polve! quando in aria t’alzi
Pel vicinato, vuoi pur dir gran cose,
Se non mature, a maturar vicine!
Non creder però già, che inutil sia
Quel sorvolar d’atomi sì minuti:
Amor è quel ch’ogni granel ne porta,
E ’l porta a rinvergar ne la vicina
Pianta maschile il fruttuoso seme,
E l’innamora, e lo riscalda, e ’l move,
E di novella attività ’l riempie,
E con quel sal volatile l’accende,
L’inzolfa, l’informicola, l’impingua,
Sicchè poi atto a ben fruttar diventi
Quando ’l seminator lo butta, e copre
Nel nuzial suo talamo impinguato.
Stassene il maschio canape più ritto,
Più verde, più ramoso, e come toro
Ne la sua mandra imperatore e duce.
Questo maturo non può dirsi ancora,
Perchè molta abbondando il lui sostanza,
Ceder non può sì di leggieri a Febo,
Che lo flagella co’ suoi rai cocenti:
Ma poco andrà, che lo vedrem languente.
L’ultimo alfin segno verace e fido,
Con cui par che natura si trastulli,
E giuochi come fa, pascendo ogni ora
Con nuovi parti gl’intelletti umani,
Sarà quando vedrai che lascia il nido
Il canapino beccafico, dopo
Allevata di figli una nidiata
Atta a volar, non che a mover le gorghe,
E a canticchiar nel mezzo a quegli arbusti,
Ch’ora usignuol, or capinero il credi,
Or cannerino, o augello altro soave.
Quando adunque sarà, che i primi figli
Non più nidiaci, ma sien franchi al volo,
La canape, dì pur, matura è anch’essa.
Natura gran maestra, un tale istinto
Diè a quest’augel d’ivi nidificarsi
In tempo, che nessun turbi ’l suo parto,
Con sicurezza tal, di veder prima
Pennuti i figli, che villano ferro
Tronchi gli arbusti dov’è ’l picciol nido.
Ma natura non fu semplice, e bassa:
Da più alto principio origin’ ebbe,
E con più alto, incognito mistero,
Uscì di là, dov’uom giugner non vale.
Questa, non so ben dir, se industria, o cura,
Giova qui rammentar caso funesto,
Atto a scoprir ciò che da pria si fosse
La pianta ch’è de’ versi miei soggetto,
E l’augellin che dentro vi s’imbosca.
Donne, tenete il pianto, e non vi dolga
Sentir la deplorabile avventura,
A cui la sconsigliata libertade
Trasse una ninfa de gli antichi tempi:
Anzi da voi con ciò le figlie vostre
A ben guardare e a custodir s’impari,
Per non pentirvi poi fuor di stagione.
Vergini Muse, voi, che de l’argive
Memorie in mente ogni volume avete;
Ditemi voi di questo augel canoro,
E de la sua filaginosa madre,
Che a lui fa nido, la fatale istoria.
Fu già (se ’l greco relator non mente)
Fu già in Atene una leggiadra schiera
Di verginelle, ad offerir canestre
Di spiche piene, e di mature frutta
Nei dì solenni a la Cecropia Dea,
(Panatenei già colà detti) elette,
Onde perciò Canefore appellarsi.
Una d’esse, (meschina!) e fu Canopia,
(Di Lamio figlia, Eponimo in Atene)
Sopra quante donzelle Atene avea,
La più onesta e leggiadra, e la più bella,
Non nel bel volto sol, non ne’ begli occhj,
Ma ne la chioma d’oro, che facea,
Non che le stelle, il sol parer men belli,
Allor che sciolta per l’eburneo collo,
E per gli omeri, e ’l candido alabastro
De l’acerbetto sen, l’aure battea.
Vaga d’offrire un dì frutta più rare,
E più mature spiche a la sua Dea,
E sopra ogni altra ninfa aver ghirlanda,
Fuori d’Atene, sconsigliata, e sola,
Di bel mattin, ne la stagion più calda,
Succinta uscì, di campo in campo tratta
Dal superbo desir che l’invasava:
(Vano desire, che la fe’ men saggia,
Quant’era più de l’altre onesta e bella)
Tal che senza por mente al suo periglio,
Tutta a raccoglier frutta e spiche intenta,
Allontanossi, o lusingossi almeno
D’allontanarsi da ogni vista umana.
Quando (ahi meschina! E che ti dice il core?)
Quando un pastore, anzi un ladron selvaggio
Sotto mentite spoglie di pastore,
Importuno, sacrilego, lascivo,
Con tutta in se di traditor l’immago,
Benchè d’amor con la follia dipinta,
Fuor d’un agguato, tutto a l’improvviso
Sboccando, ardito la donzella assalse
Che a tutt’altro ’l pensier tenea rivolto;
Nè l’assalì per spaventarla solo,
Ma volle ancor, per saziarsi appieno,
In conpagnia de lo spavento il danno.
Giovinetta, donzella, inerme e sola,
In solinghe contrade, in man d’un mostro,
Colta sì d’improvviso, e che far puote?
Ahi, che l’assalto d’ogni senso, e d’ogni
Spirto privolla, nè ’l gridar le valse,
Nè ’l pregar, nè la forza giovenile,
Nè ’l correr disperata a braccia aperte.
Ei la raggiunse, ed arrestolla a un punto,
E de le sciolte chiome un fastel fatto,
E annodato a la man barbara e cruda,
(Che ben far lo poteo, tanto eran sciolte)
La trasse a piè ritroso ove più volle
In folto, ombroso loco, e semiviva,
Ed ahi, sdrajolla al suo voler supina,
Esca del suo desir furente e vile;
Poi lasciolla satollo, e sen fuggìo,
Seco portando il suo brutal trionfo,
E in mar d’angosce lei lasciando immersa
Senza quel fior che in donna ogni altro avanza
Di candidezza, di beltà, e di pregio.
Infelice Canopia, e come ’l passo
Al tempio de la Dea rivolgerai,
Carca d’un frutto così amaro e greve,
In cui colpa non have altri, che ’l caso?
Raminga allora, vergognosa e afflitta,
Errando andò per campi e per foreste,
Del suo dolore e de la sua sfortuna
Seco portando il testimonio occulto,
Che ognor crescendo, ognor si discopria,
Fin che la prole già matura fatta,
Dopo ’l lungo girar di nove lune,
Del grembo uscì con dolor doppio, e madre
La feo, ch’era da pria vergin sì pura.
In quel momento, al ciel rivolta, ed a la
Dea sua tutrice: ah, disse: adunque vivo
Il rimprovero ognor vedrommi innanzi
Del lungo abbrobrio mio, de la mia pena?
Deh, se pietà di me ti move alcuna,
Tu, che di Giove sei figlia, e dal padre
La forza avesti d’oprar quante vuoi
Stupende, e non più intese meraviglie,
Fa ch’io non soffra, più vivendo, eterno
Quel disonore in cui mal cauta io caddi,
E che a me più di morte è duro ed aspro;
E fa, che meco la mia prole ancora,
Benchè del disonor, non de la colpa
Misera erede, e non punibil mai,
Si disperda, s’annulli, e si dilegui.
Dafne era pur ninfa fuggiasca anch’essa,
E d’Apollo al furor Giove la tolse:
Tolse Siringa ancor da Pan lascivo,
E Driope, e Loto, ed Oritia la bella,
Cangiando in meglio il lor destin perverso:
E Canopia sarà sola infelice,
Che viva sempre col suo obbrobrio in faccia,
Senza impetrar de l’error suo pietate?
In così dir (poiché di rado sono
Sordi i Numi al pregar di noi mortali)
In così dir, si vide il pargoletto,
Che al sen tenea, rimpicciolirsi a un tratto
Mettendo piume verdibrune e miste.
Le braccia in ali, e ’l labbro in sottil rostro
Cangiarsi, e un augellin tutto comporsi,
Che la lingua sciogliendo in dolci canti,
Lamentevoli sì, ma pur soavi
Rapido saltellava, e sen fuggia,
Rapido ritornava sorvolando,
Rapido s’aggirava, ed incostante
Ritornava a la madre, nè sapea
Dove tornar, dove fuggir cantando,
Se a lei sul crin, sugli omeri, o sul seno,
O sul materno braccio non posava,
Senza saper qual sien le poppe, o ’l grembo,
Nè qual la bocca dai soavi baci,
Che nulla più de la primiera immago
Vedea, nè di sua madre ombra apparia:
Poiché Canopia in quel medesmo punto,
Da un obblio di se stessa sopraffatta,
Sentissi il piè fatto radice, e tutto
Vide (se a veder più valeano gli occhj)
Assottigliarsi il corpo in verde canna,
Le mani in foglie, e ’l crin converso in tiglio;
Nè più aver fronte, ma un cespuglio misto
Di frondi minutissime, e di fiori
Verdastri, e d’un odor grave e sonnifero
Spargersi tutta, e così viva starsi
In arborea sembianza, e sentir spesso
Vicino il figlio garrulo, e canoro
Farsi suo nido ov’essa pria gliel fece,
Essa canape fatta, ei canneruolo;
Essa del figlio consolando i lai,
Esso a la madre rammentando il fallo,
Che in sì varia natura trasformolli,
Fin che la falce a lei tronchi le piante,
E metta in fuga lui dal grembo amato,
Che al caldo Austro a narrar voli i suoi casi.