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In tempo, che nessun turbi ’l suo parto,
Con sicurezza tal, di veder prima
Pennuti i figli, che villano ferro
Tronchi gli arbusti dov’è ’l picciol nido.
Ma natura non fu semplice, e bassa:
Da più alto principio origin’ ebbe,
E con più alto, incognito mistero,
Uscì di là, dov’uom giugner non vale.
Questa, non so ben dir, se industria, o cura,
Giova qui rammentar caso funesto,
Atto a scoprir ciò che da pria si fosse
La pianta ch’è de’ versi miei soggetto,
E l’augellin che dentro vi s’imbosca.
Donne, tenete il pianto, e non vi dolga
Sentir la deplorabile avventura,
A cui la sconsigliata libertade
Trasse una ninfa de gli antichi tempi:
Anzi da voi con ciò le figlie vostre
A ben guardare e a custodir s’impari,
Per non pentirvi poi fuor di stagione.
Vergini Muse, voi, che de l’argive
Memorie in mente ogni volume avete;
Ditemi voi di questo augel canoro,
E de la sua filaginosa madre,
Che a lui fa nido, la fatale istoria.
Fu già (se ’l greco relator non mente)
Fu già in Atene una leggiadra schiera
Di verginelle, ad offerir canestre
Di spiche piene, e di mature frutta
Nei dì solenni a la Cecropia Dea,
(Panatenei già colà detti) elette,
Onde perciò Canefore appellarsi.
Una d’esse, (meschina!) e fu Canopia,