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La feo, ch’era da pria vergin sì pura.
In quel momento, al ciel rivolta, ed a la
Dea sua tutrice: ah, disse: adunque vivo
Il rimprovero ognor vedrommi innanzi
Del lungo abbrobrio mio, de la mia pena?
Deh, se pietà di me ti move alcuna,
Tu, che di Giove sei figlia, e dal padre
La forza avesti d’oprar quante vuoi
Stupende, e non più intese meraviglie,
Fa ch’io non soffra, più vivendo, eterno
Quel disonore in cui mal cauta io caddi,
E che a me più di morte è duro ed aspro;
E fa, che meco la mia prole ancora,
Benchè del disonor, non de la colpa
Misera erede, e non punibil mai,
Si disperda, s’annulli, e si dilegui.
Dafne era pur ninfa fuggiasca anch’essa,
E d’Apollo al furor Giove la tolse:
Tolse Siringa ancor da Pan lascivo,
E Driope, e Loto, ed Oritia la bella,
Cangiando in meglio il lor destin perverso:
E Canopia sarà sola infelice,
Che viva sempre col suo obbrobrio in faccia,
Senza impetrar de l’error suo pietate?
In così dir (poiché di rado sono
Sordi i Numi al pregar di noi mortali)
In così dir, si vide il pargoletto,
Che al sen tenea, rimpicciolirsi a un tratto
Mettendo piume verdibrune e miste.
Le braccia in ali, e ’l labbro in sottil rostro
Cangiarsi, e un augellin tutto comporsi,
Che la lingua sciogliendo in dolci canti,
Lamentevoli sì, ma pur soavi