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Questa verzura amena, pargoletta,
Non ti fidar, nè creder già che tutto
Canape sia ciò che da terra sbocca.
Fra le molli erbe ancora invidia regna.
Col vegetar del canapino seme,
Altri semi vorrian seco innalzarsi,
E farsi utili al mondo, allor che sono
Per natura atti solo al pasco, o al foco.
Centinodia, gramigna, vetriuola,
Mentastro, e cento e mille erbe selvagge,
Che radon terra terra per natura,
Vorrian su l’altrui dorso alzarsi al cielo,
E piucch’altri ’l vilucchio, che ben pare
Debil e fiacco per sottil suo stelo:
Quest’è, che con quel suo blando aggirarsi
Vicino, e intorno a la bambina pianta,
Macchina insidie, e affascinar la tenta.
Dolcemente da prima ei s’attorciglia
Sul gambo al nostro arbusto, e par d’amore
Il vincolo, e fu già d’odio, o d’inganno:
Ma col crescer de l’un, l’altro crescendo,
Talmente si rattornia e si rattorce,
Che la misera canape ancor molle,
E morbidetta, da quel nuovo peso
Giù tratta, piega il tenero suo collo,
E tutta si rattrappa e si deforma,
Sicchè muor soffocata innanzi tempo,
E null’altro riman, ch’arido tronco.
Or tu, che questo popol di nimici
Vedi ivi nato per tuo danno solo,
Da valoroso rustico campione,
Sterpar dovrailo tenerello ancora,
Nè aspettar poi, che ti sovrasti adulto.