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In conpagnia de lo spavento il danno.
Giovinetta, donzella, inerme e sola,
In solinghe contrade, in man d’un mostro,
Colta sì d’improvviso, e che far puote?
Ahi, che l’assalto d’ogni senso, e d’ogni
Spirto privolla, nè ’l gridar le valse,
Nè ’l pregar, nè la forza giovenile,
Nè ’l correr disperata a braccia aperte.
Ei la raggiunse, ed arrestolla a un punto,
E de le sciolte chiome un fastel fatto,
E annodato a la man barbara e cruda,
(Che ben far lo poteo, tanto eran sciolte)
La trasse a piè ritroso ove più volle
In folto, ombroso loco, e semiviva,
Ed ahi, sdrajolla al suo voler supina,
Esca del suo desir furente e vile;
Poi lasciolla satollo, e sen fuggìo,
Seco portando il suo brutal trionfo,
E in mar d’angosce lei lasciando immersa
Senza quel fior che in donna ogni altro avanza
Di candidezza, di beltà, e di pregio.
Infelice Canopia, e come ’l passo
Al tempio de la Dea rivolgerai,
Carca d’un frutto così amaro e greve,
In cui colpa non have altri, che ’l caso?
Raminga allora, vergognosa e afflitta,
Errando andò per campi e per foreste,
Del suo dolore e de la sua sfortuna
Seco portando il testimonio occulto,
Che ognor crescendo, ognor si discopria,
Fin che la prole già matura fatta,
Dopo ’l lungo girar di nove lune,
Del grembo uscì con dolor doppio, e madre