Il canapajo/VI
Questo testo è completo. |
Del tempo e modo di tagliare la Canape, capparla, e tirarla per metterla in fastelli, e macerarla: dè Canevazzi per cavarne la semente
◄ | V | VII | ► |
Dopo la terza rugiadosa aurora
Del lieto mese, cui diè nome Augusto,
Rinasce il dì de l’aspettata tanto
Campal battaglia, che col nudo ferro
Il canapino esercito distrugge,
Atterra e spianta, e de’ recisi tronchi
Tutta la già verde pianura ingombra.
Dopo la terza rugiadosa aurora
Che i campi umetta, ed ogni piaga allegra
Con quel suo nutritivo aereo latte,
Tu, che sei reggitor de la famiglia,
E del tetto e de’ campi eguale hai cura,
Esci pur di buon’ora, e teco tutta
La domestica tua brigata vegna,
Di falci armata a cominciar la guerra.
Tu, che sei duce, tu fia ’l primo a porre
La falce al piè del primo arbusto, e gli altri
In ordinanza tal ti sieguan presto,
Che a tutti ove suo ferro usar rimagna.
E uno, e due, e quanti afferrar puoi
Col pugno, e sottometter al tuo braccio,
Recidi pur fin dal più basso piede,
E quanto puoi, vicino a la radice;
E sappi, che la canape nel piede,
Piucchè altrove del corpo, have il suo pondo.
Non lellar già, nè t’appilotta punto,
Ma curvo giù ti piega quanto sei,
E quanto puoi, sempre tagliando in giuso
I giallicci virgulti, e insiem maturi:
Che i verdi per ancora alquanti giorni,
Come maschj, an di vita il privilegio,
Se privilegio si può dir la strage
Veder su gli occhj de’ fratelli suoi,
Nè poter l’ira poi sfuggir medesma.
Chino tanto però non ti vogl’io,
Che in su non alzi qualche volta ’l ciglio,
E non adocchj qual virgulto porti
Il cimier verde, e sia carco di seme.
Tal passaporto ha questo, e tal patente,
Che dei fargli un inchino, e a mani basse
Oltrepassarlo: egli è siccome appunto
La fortunata candida cervetta
Di Cesar già, cui stava al collo scritto:
“Di Cesare son io: nessun mi tocchi.
Ma verrà ben, tempo verrà, che in tutto,
La livrea rispettabile deposta,
Cadrà del ferro tuo sotto ’l macello.
Pien che di questi tronchi ’l fianco avrai,
Piegali in terra su lo stesso campo,
Che t’avrai fatto raso: ivi deponli
A bracciata a bracciata, e ben distinti,
L’uno vicin, ma non a l’altro appresso,
Con la vetta visibile al difuori,
Sicchè componga una catasta, a fascio
A fascio incrocicchiata ivi giacente,
Come la greggia appunto, che cammina
Divisa in turma, e nulla si confonde;
Onde metter in greggia, i nostri padri
Dissero, e ’l dice ancor l’età corrente.
Per quanto puoi, far dei che non sien grosse
Queste bracciate, perché il sol da l’alto
Possa (in tre giorni almen) quando è cocente,
Inaridirle tutte al pari: e questo
Più facil ti sarà, se tratto tratto,
Ogni mattina, ciò che a terra guarda,
Farai con le tue man’ che guardi ’l sole.
Faccia l’opra medesma ogni compagno,
Che già invitasti alla guerriera impresa,
E sul tuo campo stesso s’affatica.
Piucc’altro, cerca ch’allegria mantegna
Vivace ogni operajo, e canti e rida,
Perchè così più dolce gli riesca
L’opra, nè il longo dì noja gli apporti.
Così anche là fra le guerriere squadre
Di Cesare si suona a la battaglia,
Co’ timballi, co’ pifferi, e uboè,
Per allettar gli spirti al gran cimento.
Abbattuta così, così prostesa
In terra la tua canape del tutto,
E dal cocente sole arida fatta,
Nuovo lavoro a ripigliar t’accingi.
Dove già cominciasti ’l primo taglio,
Ivi ti porta, e così ogni altro al suo
Posto primier de la primaria fila.
Ivi rialza pur da terra i fasci
L’un dopo l’altro, e in rialzarli, scuoti
La vetta lor, sicchè l’aride frasche
Spogli, e non abbia più capellatura.
Poi dritto in piedi ogni tuo fascio pianta,
Che l’un d’appoggio a l’altro serva, e in tanto
Fanne tu pira in quel medesmo campo,
In vetta aguzza, come ne l’Egitto
Le piramidi già soleano alzarsi.
Non più che sei bracciate alzinsi in ogni
Pira, e queste a la cima, ed a l’intorno
Tutte in un corpo ben legar tu dei
Con alcun canapin sottile arbusto
De’ più tenaci, sì che non si franga;
Onde l’impeto alzandosi del vento,
Non atterri la guglia, o pur se pioggia
Cada, ’l midollo intorno non penetri,
Ma giusta ’l declinar de le scoperte
Verghe, giù corra presto, e col fermarsi,
Non tinga a nero la corteccia verde.
Il campo è raso, e chi sta in piedi ancora
Può ben goder de la ruina altrui
Per qualche dì, ma non per lungo tempo.
“La vita il fine, e ’l dì loda la sera;
Nè tardo è mai quel male che s’attende;
Sebben lontan piucchè l’ultima Tule,
Ogni vento lo porta, e pare apposta
Nato, sebben foss’anche un zeffiretto:
Che il tempo è galantuomo a chi l’aspetta.
Vicina è già l’ora opportuna, e presto
Cadranno i sì orgogliosi canavacci:
Verrà, verrà l’ora prescritta, e anch’essi,
Dopo che avranno a l’autunnal verdone
Col seme lor buon pascolo imbandito,
Cadran recisi pel medesmo ferro.
Così in piè ritti i padiglioni tutti,
O se ’l vuoi dir, le accatastate pire,
Pensi ’l rettor del rustico squadrone
Al bottin de le spoglie, onde vestiti
I cadaveri son de’ tronchi arbusti.
Porti ogni squadra i fasci suoi nel campo
Nuovamente, e gli appoggi a cavalcioni,
O d’una scala, o d’un bancon, che quattro
Abbia piedi, e bicorni abbia i due capi.
Posi ’l pedale d’ogni fascio in terra,
E la vetta alta sia, comoda, e pronta
A la man di chi stassi ivi a capparlo
Così piegato pel più sottil verso,
Come fa chi scorrendo per la vigna
Va i granelli migliori piluccando
Del già maturo grappolo pendente.
Questo è ’l tempo che ’l buon cultor distingua,
E scevri i brievi dai più lunghi arbusti,
Per la vetta ciascuno a se traendo,
(Perchè non tutte ad un’egual misura
Suol natura produr l’erbe e le piante)
Così le brievi con le brievi accoppia,
E le più alte con le gigantesche,
Tra ’l più e tra ’l men, con le sue man’ marita,
E tutte dal vilucchio ripurgando,
O da qualunque forestier viluppo
Ch’arido intorno intorno s’attortigli,
Componendo ne va manate piene,
Quanto con una man può brancicarne
Unite, e strette a l’uno, e a l’altro estremo,
Con uno stelo de la stirpe stessa,
Che canavella in nostra lingua è detto.
Così facendo il buon cultore esperto
Ben ravvisa, distingue, e in un ributta
Gli arbusti, che, meschini, in piè moriro,
O per natura inferma, o per mancanza
D’umore, o per qualunque altro difetto,
Pria che la falce al piè gli minacciasse.
Questi, al color diverso, abbruciaticcio,
E nulla verde, anzi tirante al nero,
Anno il lor vitupero in fronte scritto,
Come in fronte ai Giudei l’ira di Dio.
E pur vagliono anch’essi, e pur corrotti
Dal macerar, son di filaccia pieni,
E a qualche uso ben sa l’arte adattarli.
Sovviemmi, (nè gran tempo è) ch’io mi vidi
Pallido, e tinto del color di morte,
Quando importuno ardor febril m’assalse,
E per più giorni inaridì mia vena.
Io, fra me dissi allor, sono una pianta,
Cui manca, o troppo abbonda il vital suco,
E però fuora d’equilibrio stando
In me ciò che componmi, io già m’accosto
A non poter regger mia vita in fiore,
E già la Parca sta col ferro in mano
Per recider la misera orditura:
E pur poc’anzi fui del numer uno,
Com’era questo popol canapino,
A ordir più fila, e a tesser tele eletto
Là dove le Pierie inclite suore
Stanno al lavoro, e a le bell’opre intente.
Or a l’uso primier più non sentendo
Atta la mia sostanza, inutil stommi,
Giacente in mezzo a tormentose piume,
O su piedi non miei, languido e tristo,
Ma non inutil già, sebben mal vivo.
In tanta angoscia, e in sì misero stato,
Elessi il ben de la più cheta vita,
Soli, per mio ristoro, usando gli occhj,
E con la mente seco meditando
Le meraviglie che produr può l’arte
Su i muri, su le tele, e sopra i fogli,
Che in un volume ho qui, quai rare gemme,
A mio ristoro, e de la Patria a onore,
E per memoria a l’avvenir, raccolti.
Benedetta la man, che guidò i segni
Del ferro, e benedetti chi li tinse;
E fu la tua (centese Apelle) a cui
Se un occhio torto fabbricò natura,
Retto però costrusse l’intelletto.
“Quali cose tralascio, e quai ridico,
Da dotta man su queste carte incise?
Carte non son già queste, che avvivasti,
“Ma dive dal ciel scese in terra, e Divi;
“Ch’io veggio i moti, ed odo le favelle.
O carte degne d’esser chiuse in cedro,
E d’oro, e d’ostro, e non di minio adorne,
Piucchè già quelle di colui che l’arte,
Ed il rimedio c’insegnò d’amore:
Carte di chiaro nome, e d’alte idee
Vivaci scaturigini, e di studj,
Che ’l gran figlio di Cento eterno fate:
Nere tal volta sì, ma che in quel nero
Il ver fate più vero e rilucente,
Segnando, qual carattere, o sigillo,
“La macchia del pittor celebre tanto.
Io così per trastullo, e per quell’ozio
Fuggir, che a gli egri è sì penoso, e grave,
Volgea tai carte, ed util facea ’l tempo,
Come util vien la canape già infetta
A qualch’opra, sebben non signorile.
Quando ’l vigor di pria, ch’era smarrito,
Alfin poi rivestimmi, ed io risorsi,
Grazie, Odoardo, a te, che con quell’arte,
La qual sa torre a morte i corpi frali,
Me drizzando con l’opra, e col consiglio,
(Del mio malor troncata la radice)
A più matura vita riserbasti.
Perdona s’io di te canto in un rozzo
Stile, e in opra di rustico argomento:
Divina è l’arte, in cui maestro sei,
E lingua piucchè umana a te conviensi,
Non la mia, ch’è mortale, e al fin s’accosta:
Però serbala pur: se vuoi, che ’l puoi,
Serbala, e in altro stil più sciolto ed alto,
“Una volta dirò, che un angiol, credo,
Medico per me fatto, è sceso in terra.
Ma ritornando a la smarrita via:
A questa mercenaria opra d’espurgo,
O di cappar la canape, è antico uso
Di convocar donne operaie, e serve,
Più sollecite assai, non che più attente
Ne lo star ivi ritte a la fatica
Per tutto un dì, tirando a se le vette,
E componendo i fasci e le manate.
Un certo amore è quello che le inclina,
Che nasce là da la conocchia, a cui
Fur destinate fin dal nascimento.
Perciò le vedi, che tornando a sera
Al lor, quantunque misero abituro,
Oltre ’l denar diurno, o sia per uso,
O per misuso, un fascio ancora, o due
Portansi seco del lavor già fatto,
E ’l villan, che al suo simile s’accorda,
(Soffralo in pace il suo padron, cui tolta
E’ per metà questa mercè) nol vieta;
Anzi ’l consente; e quindi è poi, che tante
Femminelle veggiam di picciol foco,
Abbondar di garzuolo, e di filato,
Non che di stecchi, ed aver sempre al fianco
La sua fedel conocchia col pennecchio,
Tra per mercede, e tra per gherminella.
Ma pria vedransi l’acque andar ritrose
Da la foce a la fonte, e il sol fermarsi
Nel suo diurno, ed immutabil corso,
Che mutarsi a quest’organo il registro.
Scelta così, così purgata tutta
La canape già tronca, e in un legata
A fascio a fascio, abbiasi pronto allora
Falcion tagliente, che su duro tronco,
O su la panca, ove cappasti i fasci,
D’un colpo sol le barbe ne recida,
Come inutili tutte, e in un miscuglio
Rimangon su quel campo, che le accoglie,
Come pattume, a far cenere, o fime;
E poi che tronche sien codeste vette,
Temp’è di ricomporre il lavorìo
Per cominciar l’atteso frutto a trarne.
Quelle manate, che fin’ora in pugno
Strigner potevi, tempo è d’impinguarle,
Sicchè di trenta al più legate, e strette
Se ne componga un ben polputo fascio,
Con arte tal, che le manate corte
S’inventrin dentro, e fuor rimangan sole
Le più eminenti, e facciasi eguaglianza,
La qual, perché non si disciolga, ai capi
Cinger forte convien di vinci, o rovi,
Che vagliano a durar tenacemente
Per tutto ’l tempo, che in maceratojo,
Quai malfattori, rimarran sepolti.
Se vorrai, fanne pur novella pira,
Ma al piè sia cinta da le tronche vette,
O dal pattume derelitto, in modo
Che, se pioggia dal ciel cade, non bagni,
E non inzuppi d’acqua, o pur di loto
Il pedal, dove il tiglio è più robusto.
Io non so dir qual l’allegrezza sia
Allor de gli operaj, qual sia la festa,
In veder sì vicina al fin ridotta
La tanto lunga travagliosa tela,
Fuor di timor, che la flagelli ’l cielo,
Che ’l vento la sconvolga, o ch’altro danno,
Di tanti che n’abbonda nostra terra,
A lei, per noi pur gastigar, succeda.
Tempo è allor di tripudio, e se al banchetto
Siede il prode cultor con gli operaj,
Se l’erbolattea torta si divide,
E se si cionca con al collo il fiasco,
Ben è ragion. Anch’io verrò, ch’è giusto
Qualche soave al faticar ristauro.
Or che più resta a dir? Ancor rimane
Da desolar de’ canavacci ’l campo.
Questo maschio virgulto ingigantito
E’ dedicato al tepido Settembre,
Quando già tiene il sol la Libra in mano.
Allor taglialo pur, ch’è già maturo,
E per lui giunta è ormai l’ora di morte,
Che già con quel suo sì bizzarro orgoglio,
Per se non la credea sì da vicino.
Ma non lo scuoter, anzi serba illesa,
Ogni sua vetta, ed ogni ramuscello,
Troncandoli così, che decollato
E senza capo il busto ne rimanga.
Questo, asciutto che sia, ben ponlo in fasci,
E dopo macerati i primi arbusti,
Al destin serbal del maceratojo.
Il seme poi ne le sue frondi ancora,
Ponlo in massa così, che già si sgusci,
E a forza di percosse, un coreggiato
Batta, e ’l ribatta sì, che fuor ne sbalzi
Da la già secca lolla, ov’era chiuso,
A rinovar la sua progenie antica,
Serbandol fino a l’opportuno tempo,
Quando la Primavera ogni animale,
Ogni pianta, ogni fior scalda, e innamora.
Ma l’estremo pensier de’ canavacci
Non vo’ che la merenda mi ghermisca.
Al desco adunque, al desco, anzi a l’erbosa
Mensa, ch’è a piè d’un olmo apparecchiata,
Ciascun m’aspetti, ch’esser io vo’ ’l primo,
Con la mia fida Albatica per mano.
Ma che non può la fame? In fin ch’io detto
De’ canavacci, e del lor uso, ognuno
S’è assiso già, già le vivande ha in pezzi
Divise da trinciante, e trangugiate.
Dammi quel cacio qui, golosa Menica,
Ch’io n’assaggi un tantin, sicchè m’attizzi
La sete nel palato, e possa dopo
E una, e due, e tre ciottole ingozzarmi.
Tanto basta, e non più: e come punge
La lingua! o sì ch’avrà sapore il vino!
Colmami pur la tazza: versa, versa,
E bagnami la man, che non è danno:
Goda la cute ancor del mio ristauro.
In sanità vo’ ber del padre mio,
Che ben sel merta il venerando vecchio.
Su dunque: a te con questo vin che morde
L’ugola, e in un balen sdrucciola al core,
A te salute, a l’età tua concorde,
Io priego, o sempre amato genitore.
Tu m’invitasti al suon de le tue corde,
Ch’io canticchiassi, ed io seguii ’l tenore:
Ora fa, che negli anni anco t’imiti,
E tardi col becchino a trovar liti.