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(Di Lamio figlia, Eponimo in Atene)
Sopra quante donzelle Atene avea,
La più onesta e leggiadra, e la più bella,
Non nel bel volto sol, non ne’ begli occhj,
Ma ne la chioma d’oro, che facea,
Non che le stelle, il sol parer men belli,
Allor che sciolta per l’eburneo collo,
E per gli omeri, e ’l candido alabastro
De l’acerbetto sen, l’aure battea.
Vaga d’offrire un dì frutta più rare,
E più mature spiche a la sua Dea,
E sopra ogni altra ninfa aver ghirlanda,
Fuori d’Atene, sconsigliata, e sola,
Di bel mattin, ne la stagion più calda,
Succinta uscì, di campo in campo tratta
Dal superbo desir che l’invasava:
(Vano desire, che la fe’ men saggia,
Quant’era più de l’altre onesta e bella)
Tal che senza por mente al suo periglio,
Tutta a raccoglier frutta e spiche intenta,
Allontanossi, o lusingossi almeno
D’allontanarsi da ogni vista umana.
Quando (ahi meschina! E che ti dice il core?)
Quando un pastore, anzi un ladron selvaggio
Sotto mentite spoglie di pastore,
Importuno, sacrilego, lascivo,
Con tutta in se di traditor l’immago,
Benchè d’amor con la follia dipinta,
Fuor d’un agguato, tutto a l’improvviso
Sboccando, ardito la donzella assalse
Che a tutt’altro ’l pensier tenea rivolto;
Nè l’assalì per spaventarla solo,
Ma volle ancor, per saziarsi appieno,