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E ’l porta a rinvergar ne la vicina
Pianta maschile il fruttuoso seme,
E l’innamora, e lo riscalda, e ’l move,
E di novella attività ’l riempie,
E con quel sal volatile l’accende,
L’inzolfa, l’informicola, l’impingua,
Sicchè poi atto a ben fruttar diventi
Quando ’l seminator lo butta, e copre
Nel nuzial suo talamo impinguato.
Stassene il maschio canape più ritto,
Più verde, più ramoso, e come toro
Ne la sua mandra imperatore e duce.
Questo maturo non può dirsi ancora,
Perchè molta abbondando il lui sostanza,
Ceder non può sì di leggieri a Febo,
Che lo flagella co’ suoi rai cocenti:
Ma poco andrà, che lo vedrem languente.
L’ultimo alfin segno verace e fido,
Con cui par che natura si trastulli,
E giuochi come fa, pascendo ogni ora
Con nuovi parti gl’intelletti umani,
Sarà quando vedrai che lascia il nido
Il canapino beccafico, dopo
Allevata di figli una nidiata
Atta a volar, non che a mover le gorghe,
E a canticchiar nel mezzo a quegli arbusti,
Ch’ora usignuol, or capinero il credi,
Or cannerino, o augello altro soave.
Quando adunque sarà, che i primi figli
Non più nidiaci, ma sien franchi al volo,
La canape, dì pur, matura è anch’essa.
Natura gran maestra, un tale istinto
Diè a quest’augel d’ivi nidificarsi