Il Governo Pontificio o la Quistione Romana/Capitolo 8

Capitolo 8

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CAPITOLO VIII


Gli Stranieri.


Comportatemi che, all’esordire il presente capitolo, io evochi rimembranze dell’età del l'oro.

Non fa più di uno o due secoli, lorchè le vecchie aristocrazie e le vecchie religioni reputavansi eterne; lorché i Papi innocentemente facevano la fortuna dei loro nipoti; lorchè l’ingenuità delle ortodosse nazioni rindorava tutti gli anni l’idolo pontificale; lorchè Europa era popolata da quattro o cinquemila persone, fatte per intendersi e rallegrarsi a vicenda, senza alcun pensiero delle classi inferiori, Roma era il paradiso degli stranieri, è questi la provvidenza di Roma.

Saltava in capo ad un gentiluomo francese di visitare Italia per baciare la pianella del Papa e qualche altra: curiosità locale? Ebbene, ei procuravasi uno o due anni d’ozio; poneva in una tasca tre commendatizie, 50,000 scudi nell’altra, e via, col corriere in posta.

In quell’epoca occorreva uno a due mesi per arrivare a Roma; non vi si andava perciò a stare una settimana. Lo scoppiettio della scuriada dei postiglioni annunciava alla grande Città l’arrivo di ospite illustre. Al rumore accorrevano domestici di piazza; e uno fra di essi si dava animo e corpo al [p. 75 modifica]suo servigio. Il quale lo approvigionava in ventiquattr’ore di palagio, masserizie, servi, cavalli e carrozze. Lo straniero rimutava panni a suo bell’agio, e faceva ricapitare le commendatizie. L’eletta società, appena chiariti i suoi titoli, ricevevalo a braccia spante. E dal momento che dicevangli: «Siete de’ nostri,» egli stimavasi come in sua casa. Ei trovavasi in tutti i crocchi; danzava, cenava, giuocava, amoreggiava; ne smenticava (bene il preannasate) di festeggiare a sua volta coloro, i quali fatto aveangli si onesta e lieta accoglienza. Dischiudeva quindi sue case alla scelta società, ed i sontuosi inverni di Roma ne ricevevano novello decoro.

Niuno straniero resisteva alla tentazione di riportar seco alcuna memoria di una città si maravigliosamente feconda. L’un d’essi sceglieva dipinti; l’altro preferiva marmi antichi; questi medaglie; quegli libri; ed il commercio di Roma facevane suo gran prò.

La state allontanava gli stranieri cosi come gli abitanti: ma eglino non si dilungavano di troppo. Napoli, Firenze o Venezia ospitavanli piacevolmente fino al ritorno della bella stagione del verno. Ed essi trovavano buone ragioni per reddirvi; avvegnachė Roma sia unica città al mondo, in cui non si vede mai tutto. Alcuni obbliavano a tal segno la loro patria, che vecchiaia e morte sorprendevanli tra Piazza del Popolo ed il Palazzo di Venezia. Coloro che ritornavano ai loro paesi natali nol facevano che quando le tasche [p. 76 modifica]erano vuote. Roma dava ad essi tenero addio, e piamente serbavane memoria e danaro.

La rivoluzione del 93 disordinò si piacevoli cose; ma fu come un uragano fra due bei giorni d’estate. Nè la romana aristocrazia, nè l’eletto drappello degli ospiti fedeli prese in sul serio quel rovesciamento bruiale di tutti i delicati piaceri. Con nobile rassegnazione portarono l’esilio del Papa, l’invasione francese e tante altre calamità, che presto e volentieri posero in non cale. L’anno 1815 diè di bianco sopra alcuni anni di storia schifosa. Furon rase tutte le scritte che rimemoravano la gloria o i beneficii di Francia. Si discusse fino se bene mettesse sopprimere la illuminazione delle strade, solamente perchè poneva in chiaro cose che si volevano intenebrate, ma soprattutto perchè ai nomi si collegava di Miollis e di Tournon. Anche oggi, nel 1859, il fiordaliso o giglio chiarisce le genti delle proprietà francesi. Un marmo nella chiesa di San Luigi dei Francesi promette discreta indulgenza a chi preghi pel re di Francia. Il monastero francese della Trinità dei Monti, il rispettabile monastero che ci ha venduto e ripreso il quadro di Daniele da Volterra, possiede i ritratti di tutti i re di Francia, da Feramondo fino a Carlo X. Bene si osserva Luigi XVII fra il XVI ed il XVIII omonimo nella storica galleria; ma indarno cercherete il ritratto di Napoleone o di Luigi Filippo, quasi fossero quelli di Nana-Sahib o di Marat. [p. 77 modifica] Una città cosi riverente al passato, cosi fedele alle buone rimembranze, è l’asilo naturale di tutti i re detronizzati. Gli è in Roma ch’essi vengono porre al bagno le contusioni, e medicare le ferite del loro orgoglio. Poi, tranquillamente vivono intorniati da servitori i quali sono ad essi rimasti fedeli. Una piccola corte, unita nella loro anticamera, gl’incorona; e addimandali «Maestà» o e gl’incensa nel gabinetto della tavoletta. I nobili romani e gli illustri stranieri vivono con essi in disuguale intimità, umiliandosi per esser rilevati e largheggiando di venerazione per un briciolo di famigliarità. Papa e cardinali prodigano quella osservanza che forse negherebbero ad essi assisi sul trono; e sempre per esser conseguenti! Breve: il re più ammaccato e pesto da ingrati sudditi non ha miglior partito a prendere, che ricoverare in Roma; con un tantino d’immaginazione e con molti scudi gli parrà ch’ei regni sopra popoli assenti.

I turbamenti che han chiuso il secolo XVIII ed inaugurato il XIX hanno sospinto in Roma intere colonie di teste già coronate. Le sopravvenute modificazioni nella società europea vi han pure addotto altri ospiti assai manco illustri, i quali non appartenevano nemmeno alla nobiltà del loro paese. Egli è fuori dubbio che la fortuna, l’educazione e l’ingegno hando da cinquant’anni acquistato diritti che erano riserbati alla nascita. E Roma ha veduto arrivar nelle sue [p. 78 modifica]mura stranieri, i quali non erano punto nati. Erano questi grandi artefici, scrittori di grido, diplomatici usciti dal popolo, commercianti saliti al grado di capitalisti; od anche più modestamente, uomini del mondo, che trovansi ovunque al loro posto conveniente, avvegnachè sanno vivere. L’eletta società li ha accolti non di primo acchito, ma dopo maturo esame. Ella li ha sottomessi a minuti sperimenti per assicurarsi che non arrecavano pericolose dottrine. Ella ha detto: «Se non possiamo essere più una famiglia, siamo una frammassoneria.»

Vi ho avvertito che i principi romani erano, se non privi d’orgoglio, almeno senza burbanza. Cotesta osservazione quadra a capello anche ai principi della Chiesa. Accolgon dessi benevoli lo straniero di molesta condizione, a patto però ch’ei parli e pensi siccome essi sopra due o tre questioni capitali, ch’ei veneri profondamente certi vecchiumi, che maledica di tutto cuore certe novità; o intendersi, o non entrare.

Sono su questo punto ostinatissimi. Eglino resistono al rango, alla fortuna ed anche alle più pressanti necessità della politica. Se Francia inviasse appo loro un ambasciatore che non se la intendesse, l’ambasciatore rimarrebbe alla porta dei saloni aristócratici. Se Orazio Vernet fosse nominato direttore dell’Accademia, nè il nome, ne i titoli gli dischiuderebbero alcune case, nelle quali era amichevolmente ricevuto innanzi [p. 79 modifica]al 1830. Chiedete perché? Perchè Orazio Vernet, dopo la rivoluzione di luglio, s’è fregato in pubblico le mani ammiccando.

Non crediate frattanto che sia mestieri praticar religione praticando cardinali, né andare a messa per essere invitati a danza. Ma indispensabil cosa è che l’uom trovi tutto buono in Roma; consideri il papato come arca noetica; i cardinali come santi; gli abusi come principii o degnità ( secondo il Vico ), ed a man baciata, applaudisca all'andare del governo anche allorchè questo non va. È anche buono di lodare le virtù del basso popolo, la ingenua fede e la totale incuria delle cose politiche, e versare a piene mani lo spregio sulla classe media, la detestabile borghesia, che farà la prossima rivoluzione.

Ho io sovente preso lingua con alcuno degli stranieri che abitano Roma, e che conoscono dove il diavolo ha la coda. Uno dei più cospicui e de’ più amabili ripeteami di spesso e in tutti i tuoni una istruzione che ho a mente, ma di cui non ho tratto profitto.

«Mio caro, dicevami, in due modi si può scrivere intorno a Roma: la scelta a voi. Se voi declamate contro il governo dei preti, contro gli abusi, contro i vizi, le ingiustizie, le pugnalate, le terre incolte, la cattiva aria, l’indecenza delle vie, gli scandali, le ipocrisie, le rapine, il lotto, il ghetto, e simili vituperii, coglierete non altro alloro che quello di aggiungere una parola di vantaggio alle [p. 80 modifica]miriadi già scritte e pubblicate da Lutero a noi. Contro i Papi il sacco è stato vuotato, e chi uccella al vanto di originalità non si deve mescere al coro dei gracchiatori. Rammentate dipoi che il governo di cotesto Stato, sebben buono e paterno in superlativo, non perdona giammai. Ed anco volesse, non avriane, facoltà, essendo obbligato a difendere il suo principio, che è sacro. Non chiudetevi le porte di Roma: voi sarete lieto di riedervi, e noi di accogliervi. Se vi garba sostener tesi nuova ed originale, e mercar gloria non senza profitto, osate alto gridare che tutto è vago, divino! anche ciòche è male nella stadera dell’Elba, la cui prima tacca, come dice un valentuomo, sta sul mille. Lodate sbardellatamente un ordine di cose che per tenzonar di venti non crolla da diciotto secoli e mezzo, di buona misura. Dimostrate che tutto dura costì, e che la reticella delle pontificie istituzioni è conserta a fili di logica potente. Osteggiate da uom sennato alle velleità di riforma che vi spingeranno a dimandar questo o quel mutamento. Pensate che non puossi impunemente attentare alle costituzioni avite, e che pietra fuor di sesto può far crollare tutto l’edificio. Ohimè! Voi ignorate, poveretto! che forse quel tale abuso che vi sembra il finimondo, è necessario alla esistenza di Roma. Bene e male commisti danno più durevole cemento degli scelli materiali co’ quali si edificano le moderne utopie. Io [p. 81 modifica]stesso che vi parlo, io son qui da più anni, e mi vi trovo a maraviglia. Dove andreimi, se Roma fosse in fascio? Dove collocheremmo i re detronizzati? Dove il culto cattolico? Dirannovi che molti lamentano l’amministrazione. Quanto rileva? Eglino non ci appartengono. Voi non v’imbatterete in essi fra l’eletta società dove anderete. Se dassimo orecchio ai richiami della classe media, si porrebbe tutto a soqquadro. Vorreste, per avventura, vedere opifici di manifatture intorno a San Pietro, e campi di rape alla fonte Egeria? Credono cotesti indigeni borghesi che il paese, avvegnachè vi sono nati, sia loro pertinenza? Strana pretesa! Insegnate ad essi esser Roma comune proprietà della onesta gente, della gente di gusto e degli artisti. È un museo affidato alla custodia del Padre-santo, un museo di vecchi monumenti, di vecchi quadri, di vecchie istituzioni. Lasciate che tutto il restante orbe si rimuti, ma elevatemi una muraglia cinese che accerchi lo Stato del Papa, dalla quale si tengano lontane le vie ferrate! Serbiamo almanco pei posteri un frusto, un minuzzolo del potere assoluto, dell’arte antica e della teocrazia cattolica!»

Tale parlano gli uomini di antico stampo, i buoni stranieri, i veri credenti, i quali a forza di vedere le cerimonie di San Pietro, e la festa delle cipolle a San Giovanni Laterano, hanno appreso romanesco linguaggio, modi di vedere semicardinalizii ed una sorta di [p. 82 modifica]fede per andare dovunque fra le genti. Ma io non fo a fidanza con essi, nè i loro consigli sonomi riusciti utili; pur sento per essi affetto e non so qual commiserazione. Chi può dire di quanti avvenimenti saranno spetiatori prima di morire? Chi prevedere gli spettacoli che il futuro lor serba, e la rivolta italiana recherà alle abitudini loro Già le vaporiere che volano a Frascati intronano ad essi malamente gli orecchi. Fra poco l’acuto sibilo del vapore, che sembra impertinente schernire la rispettabile commedia del passato, risonerà tra Roma e Civitavecchia. I battelli a vapore, altro trovato infernale, recano due volte la settimana genti di pessima qualità. Cotesti capannelli di viaggiatori che ingombrano le vie e le piazze tanto assomigliano ai buoni stranieri, quanto i barbari di Attila al degno Spagnuolo, il quale andò a bella posta in Roma per ammirar Tito Livio.

La è un’accozzaglia di ogni risma; imperò da che poco o nulla costa il viaggiare, ogni mascalzone può comportar la spesa dell’andare a Roma. Avvocati senza clienti, medici senza infermi, impiegati a mille franchi all’anno, pedanti di seminario, gente di uffizii, di fabbriche, di fondachi piovono qui a dirotta come gragnuola, per la smania di dire che han visto mondo. La settimana Santa ne adduce sola uno sciame innumerevole. Cotesto popolo minuto, che viaggia con un fardelletto sotto il braccio, alloggia all’ [p. 83 modifica]albergo, che fu costrutto apposta per istallarlovi. Non vi erano alberghi in città, quando il più gramo straniero affittava una casa. Tipo dei caravanserragli moderni è la Minerva. Si ha stanza e letto per tre franchi; si mangia in un refettorio, serrato fra’ gomiti di due vicini. È mestieri aver seduto una fiata a tal desco per estimare al suo giusto valore la plebe viaggiatrice che allaga Roma alla imminenza della Pasqua.

— Io (dice un tale) ho stamane fato due musei, tre gallerie, quattro monumenti.

— Ed io (l’altro) mi son limitato alle chiese: ne ho gettate già diciassette prima dello sciacquadenti.

— Domin! che vi comportate con gagliardia!

— Gli è che io vo’ consecrare un giorno pei dintorni.

— I dintorni? Brucereili. Se un giorno mi resta, farò incetta di corone.

— Avete voi obliato la villa Borghese?

— Mainò: ella è città, benchè fuori la cinta.

— Quanto vi han tolto?

— Ho dato dieci baiocchi al custode del Museo.

— Io venti. Affe che mi han rubato.

— Ladri! Oh! chi non è ladró costi!

— Non monta: Roma vi compensa.

Ombre dei viaggiatori del tempo antico, nobili e delicate ombre, che vi par egli di tali parlari? Certo pensate che i vostri valletti meglio conoscevano Roma, e più acconciamente ne parlavano. [p. 84 modifica] Poco in là, un Inglese della City narra ch’ei ha visitato le due maggiori maraviglie di Roma, il Coliseo e il cardinale Antonelli, e sostiene esser quello un bel monumento, questi un uom di spirito.

Costi è ricca vedova di provincia tutta data a pratiche di divozione. Ella ha veduto tutte le cerimonie pasquali; ella ha quasi quasi rasentato il Papa; ella trova ch’egli benedice in modo sublime. La buona signora ha profittato del viaggio per arredarsi di reliquie; ed ha ottenuto un ossicino di santa Perpetua, ed una scheggetta della vera croce. Ma qui non sta paga: ella vuole la palma del Papa, la vera palma che recava in mano il Papa. La è questa idea fissa, e question di salvezza: ella punto non dubita che quel ramicello di palma non abbia ad aprirle la porta del Paradiso.

Ne ha fatto domanda al curato, che la trasmetterà ad un monsignore, che la farà giungere ad un cardinale. Perdurando nelle ingenue insistenze, giungerà a muovere alcuno, ed avrà la sua palma; e sta a buona speranza, che tutte le divote della sua parrocchia ne scoppieranno per dispetto.

In queste infornate di viaggiatori da nulla trovasi sempre mai qualche ecclesiastico. Eccone uno del nostro paese: voi l’avete già incontrato in Francia; non vi par egli alquanto mutato? All’ombra del suo campanile, in mezzo alle sue pecorelle, sul suo suolo, in casa propria, era uomo a maraviglia [p. 85 modifica]piacente, modesto e timido; e faceva di berrelta al signor sindaco, ed alle più microscopiche autorità. A Roma gli han chiodato in capo il cappello; e quasi quasi direbbesi (Dio mel perdoni!) che gli stia un pochino a sghembo sull’orecchio. E la sottana come è aggraziatamente ripiegata! E come va per la via pavoneggiandosi! E poco manca che non abbia il pugno sull’anca! Tutto questo, perchè trovasi nel regno amministrato da’ preti. Ei respira aure pregne di gloria clericale e di onnipotenza teocratica. Paf!... È una bottiglia di vino di Champagne di cui salta il tappo. E quando ei ne avrå mirato il fondo, comincerà a susurrare fra’ denti, che il clero francese non ha ciò che merita; e che noi troppo indugiamo a restituire gl’immobili che la rivoluzione gli ha tolti.

Ho udito co’ miei orecchi difendere questa tesi sul battello che ne rimenava in Francia. I più cospicui passeggeri erano il principe Souworf, governatore della provincia di Riga, uomo de’ più illustri che si possano incontrare in Europa; il signore de la Rochefoucauld, aggiunto all’ambasciata di Francia; il signor de Angelis, mercatante di campagna assai istruito e pregevole; il signor Oudry, ingegnere della strada di Civitavecchia, ed un ecclesiastico francese rispettabile per età e per corpulenza. Questo reverendo, al quale non era sgradita la disputa, e che veniva da paese dove i preti hanno mai sempre ragione, mi trattenne dopo pranzo [p. 86 modifica]intorno ai meriti del governo papale. Risposi, come potei, da uomo che non è parlatore di professione. Cacciato negli ultimi miei trincieramenti ed astretto a dir cosa che non risuonasse un elogio pel Papa, scelsi, a casaccio, un fresco aneddoto che niuno ignorava in Roma, e che Europa avrebbe saputo fra poco. Ma il mio onorevole interlocutore mi regalo di mentita tonda e formale. Ed accusommi di calunniatore impudente verso un’innocente amministrazione, di propagator di menzogne foggiate a capriccio dai nemici della religione. La sua parola imponeva si alto, che ne fui sgomento, e chiesi a me stesso se non avessi forse mentito.

L’aneddoto da me raccontato era quello del fanciullo Mortara.

Ma io rivengo a Roma e ai nostri viaggiatori del fardello. Coloro che testeso avevamo veduti sono già partiti; ne troveremo altri. Eglino s’incalzano come le onde del mare, e s’assomigliano come onda ad onda. Eccoli che si provvedono di ricordi nelle bacheche dei negozianti del Corso e di Via Condotti. S’arrestano su rosarii di picciol valore, su mosaici grossieri, sopra cianciafruscole d’oro falso e generalmente sopra oggetti di cui si compra a josa per cinque lire. Poco curano che belle sieno le cose comperate, basta che in Roma; affinchè sappiano i posteri ch’ei vi sono iti. E contrattano come a mercato; solo maravigliano, ritornando alla Minerva col loro bottino, di non aver [p. 87 modifica]dello proporzionato allo spendio di tanto danaro.

Se eglino altra cosa non recassero alle case loro che rosarii e corone, non sarebbevi poi gran male; ma recano puranche opicioni. Non parlate ad essi degli abusi che formicolano nel reame del Papa, che vi risponderebbono, facendo bocchi, essere pur essi stati in Roma, e nessuno averne veduto. Siccome l’apparenza delle cose è a segno e a modo, almeno nei belli rioni della città, i buoni viaggiatori argomentano che sia tutt’oro cio che luccica. Han visto Papa e Cardinali alla Sistina, nel fulgore della gloria ed innocenza; ma, poffare! non è nel giorno di Pasqua nè sotto gli occhi di tutti che il cardinale Antonelli attende a’ suoi piaceri o alle sue bisogne. Allorchè monsignor B**** disonorò una fanciulla, che ne morì, e chiuse in galera il fidanzato, non iscelse la Sistina per campo delle sue geste.

Non compiangete la nazione italiana innanzi ai pellegrini della Settimana santa. Essi hanno osservato i campi incolti da Civitavecchia a Roma, ed hanno compreso che infingardo era il popolo. Hanno incontrato di molti mendici nelle pubbliche vie, ed hanno indovinato che mendico era il popolo. Il servitor di piazza, che accompagnavali, ha susurrato all’orecchio loro misteriosa parola; ed essi hanno inferito che tutti gli Italiani fan mercato delle figliuole e delle mogli agli stranieri. Voi li sbalordireste dicendo loro [p. 88 modifica]che il Papa ha tre milioni di soggetti che han tanta rassomiglianza con la canaglia romana, quanta le aquile con i rospi.

Di che conseguita che il viaggiatore superficiale, il passeggiero, il comunicante della Settimana santa, il pensionario della Minerva è un nemico improvviso per la nazione, un difensor naturale del Governo.

Quanto allo stranier che rimane, s’egli è ozioso, allusingato da dolcezza di clima e da diletto, incurioso della sorte delle nazioni, lontano dalle cavillazioni della politica, piegherà di leggieri da sè stesso, fra una contradanza ed una tazza di cioccolatte, alle idee della romana aristocrazia.

Se poi è uomo studioso ed operante, inviato con iscopo fisso, incaricato di penetrare certi misteri o di puntellare certi principii, prenderanno a cottimo il lavoro di convertirlo. Ho veduto ufficiali arditi e leali, e per nulla sospetti di gesuitismo, lasciarsi dolcemente trascinare da invisibili influssi nelle vie cuniculari della reazione, e far sacramento contro i nemici del Papa. I nostri generali sono stati anch’essi presi all’amo; ma il Governo li careggia, non ama.

Nulla si ommette per persuaderli che ogni cosa è per lo migliore. I principi romani, che credonsi da più di tutti gli uomini, trattano da pari con essi; i cardinali carezzanli. Cotesti uomini che indossano vestimenta di scarlatto, posseggono seduzioni maravigliose e piagenterie invincibili. Il Padre-santo ora [p. 89 modifica]con uno ora con altro intertiensi, loro dicendo:« Mio caro generale.» Uopo sarebbe che un militare fosse ingrato, malnato, dischiattato dalla vecchia cavalleria francese, spoglio di osservanza per la vecchiaia e per la debolezza, per non farsi uccidere alle porte del Vaticano, ove lo si gabba si destramente.

I nostri ambasciatori, altri buoni stranieri, sono esposti alle lusinghe personali della Società romana. Povero conte di Rayneval! Lo si era tanto vezzeggiato, lusingato, tratto in inganno, che giunse a dettare la Nota del 14 marzo 1856!

Il suo successore, duca di Grammont, é non solo perfetto gentiluomo, ma un ingegno fine e di grande coltura con un tantino di scetticismo. L’Imperatore è ito a prenderlo a Torino per inviarlo a Roma: potevasi quindi sperare che il Governo papale sarebbegli paruto detestabile cosi a prima giunta, e per confronti dappoi. Io ho avuto l’onore d’intrattenermi con questo giovane e brillante diplomatico, appena dopo il suo arrivo, e quando il popolo romano gran cose attendeva da lui. L’ho trovato avverso alle idee del signor di Rayneval, e poco disposto a firmare la Nota del 14 marzo. Infrattanto ei cominciava a giudicare l’amministrazione dei cardinali e i torti della nazione con imparzialità più che diplomatica. Se osassi compendiare la sua opinione, cosi alla buona, direi che ei poneva governo e governati in un fascio; tanto può dolcezza di caccabaldole ecclesiastiche anco su gli animi vigorosi! [p. 90 modifica] Che cosa hanno a pensare i Romani della nostra diplomazia, allorchè veggiono uno de’ più inframmettenti valletti della società pontificia impadronirsi della cancelleria dell’ambasciata francese? Cotest’uomo s’appella Lasagni; egli è per mestiere avvocato concistoriale; e noi paghiamolo per essere ingannati. È conosciuto per un nero, ciò vuol dire, per un reazionario fanatico. I secretarii dell’ambasciata lo spregiano, gli dan del tu, gli dicono che mente, e pur l’ascoltano. Ei sorride, incurva la schiena, intasca danaro, e si fa beffe di noi. Fa pure a fidanza, valente Lasagni; nel secolo passato forse il bastone ti avrebbe rotto i sogni: ma le son cose viete ora...!