Il Governo Pontificio o la Quistione Romana/Capitolo 7
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CAPITOLO VII
La Nobiltà.
Un Italiano ha detto con fine ironia:
« Chi sa se un giorno un potente micro scopio non iscoprirà nel sangue dei globicini
di nobiltà. »
Appartengo troppo al mio paese per non far buon viso ad una piacevolezza di buon gusto; nè poi cotesti globicini di nobiltà offendono dirittamente la mia ragione.
I figliuoli ritraggono dal padre. I baroni del medio-evo legavano ai loro nati retaggio di qualità eroiche. Federico il grande piacevasi di ammogliar uomini di sei piedi a femmine di cinque e sei pollici, e dall’ accoppiamento di giganti siffatti emergevano granalieri. I figliuoli di uomo ingegnoso non sono sori e baccelloni, purchè la madre di loro fedele siasi tenuta ai doveri suoi; e novelli cretini nascono dal connubio di alpigiani cretini. A tutti è conto l’istinto venatorio nei bracchi di tale razza, e come si acquisti a caro prezzo un poledro dietro attestato di sua genealogia: ora, chi nobiltà confessa nei cani e ne’cavalli, potrà, a filo di conseguenza, nobiltà disconoscere negli uomini?
Aggiungete che il fumo di recare illustre nome è efficace movente a sospinger l’uomo verso il bene. I nobili hanno obblighi da adempiere verso gli antenati e i discendenti; e metter piede in fallo è coprire di disonore tutta una razza. La tradizione li guida in sentiero di onore e di virtù, fuori del quale lubrico a sdrucciolare è il terreno. Ogni volta che la mano scrive il loro nome, la memoria é presta con un buon pensiero.
Vero egli è che ogni cosa traligna, e che nobil sangue talora corrompesi, come il più generoso vino tramutasi in aceto. Ma non avete per avventura incontrato nel mondo un giovine più grande, più altiero, più prode e più generoso de’suoi coetanei; una donna si avvenente, si semplice, si pura da sembrare plasmata di più finissimo limo; l’uno e l’altra in tale incesso che eglino sembrano portati sulle ali della memoria dei loro maggiori? State a sicurtà, eglino hanno nel sangue alcuni globicini di nobiltà. Cotesti preziosi globicini che microscopio non giungerà a scoprire, ma che diligente osservatore indovina ad occhio nudo, sono rari in tutta Europa, nè so se abbiavene altrove. Potrete farne incetta in Francia, in Ispagna, in Inghilterra, in Russia, in Alemagna, in Italia. Roma è città ove se ne troverebbono in minor quantità; e pure la romana nobiltà non è priva della sua aureola.
Trentun principe o duca; numero stragrande di marchesi, conti, baroni e cavalieri; molte nobili famiglie prive di titoli, di fra quali Benedetto XIV ne allibrò sessanta in Campidoglio; grande distesa di dominii signorili; un migliaio di palagi; un centinaio gallerie grandi e piccole; rendite vistose; favolosa prodigalità di cavalli, cocchi, livree e stemmi; veglie regali in ogni verno; un resto di privilegi feudali e gli omaggi del popol minuto: sono cotesti i distintivi più scolpiti della romana nobiléa, pe’ quali ella è in ammirazione a tutti gli scimuniti dell’universo. Ignoranza, oziosità, orgoglio, servilità e nullità, sovra ogni cosa, ecco i vezzosi difetti che la collocano su tutte le europee aristocrazie: che se mi sarà dato avvenirmi in rispettabili eccezioni, mi farò coscienza di chiarirlo.
Svariatissime le origini della romana nobillà. Gli Orsini ed i Colonna (poco ne avanza) discendono da eroi o da briganti delle età di mezzo. I Gaetani datano dal 730. I Massimo, i Santacroce, i Muti vanno a rintracciare gli antenati loro in Tito Livio. Il principe Massimo reca nello stemma le marcie e contromarcie militari di Fabio Massimo, aggiuntovi il motto: Cunctando restituit. Santacroce va in sollucchero stimandosi discendente di Valerio Pubblicola. I Muti, oramai ridotti al verde, pongono nei loro maggiori Muzio Scevola. Tale nobiltà dubbia od autentica, ad ogni modo antichissima, é al postullo indipendente. La sottana dei Papi non ne asconde i primordii.
La seconda categoria è di origine pontificale. Titoli e redditi hanno loro sorgente nel Patrimonio di San Pietro, ossia in quella peste che è il nipotismo. Volgendo il secolo XVII, Paolo V, Urbano VIII, Innocenzo X, Alessandro VII, Clemente IX, Innocenzo XI han creato i Borghesi, i Barberini, i Pamphily, i Chigi, i Rospigliosi, gli Odescalchi. Era un fare a pugni, chi più alto ponesse la propria famigliuola. I dominii dei Borghesi, che fanno una visibile macchiuzza nera nella carta d’Italia, sono argomento di fatto che papa Paolo non avea viscere di bronzo, il buon zio! I papi serbano lo andazzo di nobilitare i parenti; ma gli scandali delle prodigalità a spese altrui cessano in Pio VI, autore della famiglia Braschi ( 1773-1800 ).
L’ultima infornata di nobili comprende banchieri, come Torlonia e Ruspoli; incettatori, come gli Antonelli; mugnai, come i Macchi; fornai, come i duchi Grazioli; mercatanti di tabacco, come i marchesi Ferraiuoli, e fittaiuoli come il marchese Calabrini. Aggiungo, per non obbliarli, gli stranieri, sieno o non sieno nobili, i quali comperano a bei contanti un dominio, e, come per giunta, accroccano un titolo sul contratto. Non fa assai, che un Francese, gentiluomo ascitizio, che aveva alquanta moneta, s’è desto un bel mattino principe romano, eguale ai Doria, ai Torlonia ed al fornaio duca Grazioli.
Avvegnadiochè dal giorno che il Padre-santo ha sottoscritto il diploma in pergamena, eglino divengono eguali. Qualunque sia l’origine di loro nobiltà e l’antichità di loro casa, ei sen vanno a braccetto senza piatir di precedenza. Stringon parentadi a vicenda a rischio di scandolezzare fin nel sepolcro le nobili ceneri degli avi. I nomi d’Orsini, di Cołonna, di Sforza occorrono commisti a quello di un antico servitor di piazza. Il figlio di un fornaio impalma la figliuola di un Lante della Rovere, nipote d’un príncipe Colonna e d’una principessa di Savoia-Carignano. La questione dei principi e de’duchi, che forte preoccupava il nostro altiero Saint-Simon, mai più non avrà luogo nella romana aristocrazia.
A che fine, vivaddio? Non sanno oramai tutti, duchi e principi, esser dessi inferiori al più misero cardinale? Appena un cappuccino riceve il cappello rosso, acquista il diritto di zaccherarli tutti.
Negli Stati monarchici il re è capo nato della nobiltà. Ed un gentiluomo non potrebbe più sbardellato elogio fare di sua schiatta, che dicendola nobile quanto il re. Nobile come il Papa desterebbe ilarità; poichè un porcaio, figliuol di porcaj, può sedere nel pontificio seggio, e ricevere giuramento di fedeltà da tutti i principi romani. Stanno dunque sode ragioni per riputarsi eguali cotesti poveri gran signori, avvegnachè sono tutti del pari raumiliati da’preti.
Ma fanno animo ripensando che sono superiori a tutti i laici dell’universo: e questa dolce ed intima vanità, punto niente rumorosa, meno anche insolente, ma in cima de’loro pensieri, aiutali a digerire gli affronti cotidiani della propria inferiorità.
Ben veggo in che cosa sono da meno degli ascitizii signori della Chiesa; ma non egualmente bene, su che fondisi il primato cui agognano su gli altri uomini.
Il loro cuore è più sublime locato? Lo ignoro. Più fa ch’eglino hanno smesso loro pruove sui campi di battaglia. Dio vieta adessi il duello, ed il governo predica la dolcezza delle soavi virtù.
Non difettano per fermo di certa generosità vanarella e teatrale! Un Piombino invia il suo ambasciatore alle conferenze di Vienna, e gli assegna centomila franchi per ispese di comparita. Un Borghese, per festeggiare il ritorno di Pio VII, aduna a banchetto di 1,200,000 franchi la bordaglia romana. Quasi tutti i principi di Roma dischiudono loro palazzi, ville e gallerie a chicchessia. Vero è che il vecchio Sciarra concedeva a contanti la facoltà di trar copie della sua galleria; ma, oltre che era spilorcio da tre cotte, l’esempio suo passò inimitato.
Quasi tutti adoperano virtù di carità, senza troppo discernimento, si per boria, per patronato, per abito, per debolezza, poichè non osano diniegare. Non sono eglino tristi: sono buoni, e a questa parola mi arresto, chè temo di andar tropp’oltre.
Nè mancano tutti d’intendimento e di cultura. Va per le bocche della gente il principe Massimo pel buon senso, i due Caetani pe’loro giuochi di parole. Santacroce, abbenche con uno spicchio di cervello di meno, esce dai volgari. Ma deh! qual pessima educazione hanno essi ricevuta dal Governo? Quei che non sono figliuoli, sono allievi di preti: e questi sonosi studiato di nulla ad essi insegnare.
Andate in cerca di un seminarista a San Sulpizio: nettatelo per benino, vestitelo di tutto punto da Alfred o da Poole, ornatelo di penziglianti gemme da Marlimer o da Castellani, fategli apparare un pochissimo di musica e di cavallerizza; voi avrete bello e fatto un principe romano, che pesa quanto gli altri.
Voi supponete che gente elevata in Roma, circondata da capolavori, prendano vaghezza delle arti belle, e ne sieno alquanto sentiti. Gua’! Questi non pose piede in Vaticano che per rendere visite di convenienza; quegli non ha notizia della sua pinacoteca se non quel tanto che ne udi ripetere dal suo intendente; quest’altro non era disceso mai nelle catacombe prima d’essere stato nominato Papa. Fanno professione d’ignoranza feltrata e di buon gusto, e che sarà (dal passato e presente indovinando il futuro) mai sempre di moda nei paesi cattolici.
Del cuore, dello spirito, della istruzione della romana nobiléa ho parlato abbastanza; ora una parola sui redditi, di cui dispone.
Ho sott’occhi un polizzino che giudico autentico, avendolo da me stesso attinto a buona sorgente, nel quale sono annotate le entrate nette disponibili delle primarie famiglie di Roma. N’estraggo le più rilevanti cifre:
CORSINI | 500,000 | franchi |
BORGHESE | 450,000 | franchi |
LUDOVISI | 350,000 | franchi |
GRAZIOLI | 350,000 | franchi |
DORIA | 325,000 | franchi |
ROSPIGLIOSI | 250,000 | franchi |
COLONNA | 200,000 | franchi |
ODESCALCHI | 200,000 | franchi |
MASSIMO | 200,000 | franchi |
PATRIZI | 150,000 | franchi |
ORSINI | 100,000 | franchi |
STROZZI | 100,000 | franchi |
TORLONIA | Rendita illimitata | |
ANTONELLI | Rendita illimitata |
Non dirò che Grazioli, a mo’ d’esempio, è quasi tanto ricco, ei solo, quanto il principe Borghese co’ suoi due fratelli, Aldobrandini e Salviati. Ma tutte le famiglie alquanto antiche sono onerate da cento pesi ereditarii che attenuano in modo maraviglioso il reddito. E per vero,mantengono cappelle e cappellani, chiese e chiesastici, ospizii ed ospiti, collegi e capitoli interi di ben tarchiati canonici; dommentre i nobili di fresca data non denno pagare nè la gloria degli avi loro, nè le loro peccata.
Sia che può, le arrecate cifere chiariscono la romana nobiléa, starsene nella mezzanità si per dovizia come per ogni altra cosa. Non solo non potrebbe venire al paragone con l’operosa borghesia di Londra, di Basilea, di Amsterdam; ma cede di gran lungain dovizia agli stessi nobili Russi od Inglesi.
E questo avviene forse perchè una legge di giustizia, come la nostra, divide e fraziona di continuo le grandi fortune? Mainò. Il diritto di primogenitura vige nel regno del Papa come tutti gli abusi del buon tempo antico. Provvedonsii cadetti come puossi; le figlie come vuolsi; la ruina dunque delle famiglie non viene dall’equità dei genitori. Aggiungono, ma nol credo, che nella morte dei cadetti il primonato non è tenuto a vestir gramaglia; poco monta: è cotesta, economia di stoffe brune.
Ciò posto in sodo, perchè mai i principi romani non sono più facoltosi? Due soddisfacenti ragioni solvono il quesito: la smania del comparire, e la pessima amministrazione.
L’ostentazione, malattia romana, impone che ogni gentiluomo abbia palagio in città, palagio in villa; cocchi, cavalli, paggi, servi in livree. Si fa senza materasse, pannilini e seggioloni; ma non si può senza pinacoteca. Ne è poi necessario aver un pollo nella pentola tutte le domeniche; ma si un giardino cinto da mura in pietre scalpellate, per lo solazzo dei forestieri. Cotesti chimerici bisogni assorbono la rendita e intaccano il capitale.
Eppur conosco cinque o sei tenute che basterebbero alla prodigalità di Epuloni, so fossero amministrate all’uso inglese, od anche a modo francese; se il proprietario agisse con sue mani e vedesse co’ suoi occhi, nè ponesse fra sè e le sue terre un nugolo di intermediarii che rimpannucciano a tutto suo danno.
Non che i principi romani lascino andare a occhi veggenti gli affari loro a tracollo. Guardivi dal confonderli con quei grandi signori della vecchia Francia, che sorridevano al naufragio di loro fortuna, è toglievano vendetta dell’intendente con un frizzo ed un calcio. Il principe romano possiede uffizio d’amministrazione, registri, impiegati; spende tutti i giorni qualche ora nella sua cancelleria; verifica conti, segna carte e ne raccoglie la polvere. Ma poichè ha poca capacità ed istruzione niuna, il suo zelo serve solo a porre in salvo la risponsabilità dei furbacchioni che lo circondano. Mi hanno mentovato un gentiluomo che aveva redato enormi ricchezze, che s’era condannato al lavoro d’un impiegato a 1200 franchi, che restò fedele al suo uffizio fino all’estrema vecchiezza, e che mori nell’impotenza di pagare, grazie a non so qual vizio di amministrazione.
Commiserateli, se cosi vi aggrada, ma non iscagliate contro di essi la pietra. Sono quali l’educazione li ha fatti. Mirate i loro figliuoli che sfilano pel Corso fra due gesuiti. Cotesti fantolini di sei a dieci anni, vezzosi come amorini a dispetto dell’abito nero e della cravalta bianca, aggrandiranno tutti del pari all’ombra uggiosa del cappellone del loro maestro. L’anima loro è oramai simile al rastriato giardino donde a grande cura sono estirpate le idee; il cuore è mondo da tutti affetti buoni o rei. Cotesti poveri diavoli, non che virtù, non avranno neppure vizi!
Subiti gli esami finali ed ottenuti i loro diplomi d’ignoranza, saran dessi abbigliati a foggia inglese e avviali ai pubblici passeggi. Quindi vedreteli andare aiati pel Corso, pei viali del Pincio, di Villa Borghese e di Villa Panfili. Passeggeranno per molte ore, e passeggeranno a piè, a cavallo, in cocchio, recando in mano bastone, o scudiscio, od occhialetto, fino a tanto che sieno condotti a menar moglie. Assidui alla messa, immancabili al teatro, vedreteli uscire, sbadigliare, applaudire e segnarsi della croce senz’anima. fan tutti iscritto il nome loro sulle liste di una o due confraternite divote, ma non appartengono ad alcun circolo. Eglino timidamente giuocano e non mantengono ballerine, bevono senza allegria, nè si espongono al rischio di far correre barberi. Esemplare condotta che non saprebbesi abbastanza lodare; ma, perdio, le bambole che balbettano babbo o mamma neanche lasciansi andare alla libera in giòliti e tripudii.
Un bel giorno, trovansi i messeri aver vencinqu’anni, età questa in cui un Americano ha esercito dieci professioni diverse, corso quattro volte propizie fortune, una volta fallito, fatto due campagne, piatito in tribunale, predicato una religione, spento sei uomini a terzettate, affrancato una negra, conquistato un’isola. Un Inglese ha subito due tesi, è stato addetto ad una ambasceria, ha fondato una banca, convertito una cattolica, compiuto il giro del mondo e letto tutte le opere di Gualtiero Scott. Un Francese ha messo in verso una tragedia, scombiccherato articoli in due diarii, ricevuto tre pungigliate o sberleffi di spada, tentato due suicidii, vessato quattordici mariti e variato diecinnove volte di opinioni politiche. Un Alemanno ha sfregiato quattordici de’suoi intimi amici, ingollate sessanta grosse botti di birra e la filosofia di Hegel, cantarellato undicimila strofe, compromesso una fantesca, fumato un milione di pipe, ed immollato in due rivoluzioni. Ma il principe romano nulla ha fatto, nulla veduto, nulla appreso, nulla amato, nulla patito. E nel modo stesso dischiudesi l’inferriata d’un convento, e tirasene fuori giovinetta pari al nostro eroe per conoscenze ed istruzione, e questi due innocentini, ginocchioni innanzi al prete, ricevono missione di produr razza d’innocentini,
Pensate per avventura che tale connubio debba riuscir procelloso? Nulla meno. La giovanetta è bella; e la turbolenta oziosità del chiostro non è poi giunta a sbarbicar dal suo cuore ogni germe d’amore; incolta non è, al contatto del mondo svolgerannosi le facoltà mentali. Prima conoscenza, l’inettezza e nullità di suo marito. Ed in ragione della negletta sua educazione, cresce in essa la soddisfazione di esser donna, che vale, intelligente, amorosa e leggiadra. Abi! quanto saria il prence a commiserare se, non a Roma, fossimo noi a Parigi od a Vienna!
Ma, merceddio, l’ampio ed elevato spegoitoio che il cielo tien sospeso sulla Città eterna, ammorza financo le fiammelle leggere della passione. Il Vesuvio collocato a Monte Testaccio saria da quarant’anni spento. Le romane, principesse sono state tema ai motteggi fino allo scorcio del secolo XVIII. La loro galanteria assunse fogge soldatesche, durante la dominazion francese: elleno andavano alla libera al Caffè Nuovo, spettatrici de’ vagheggini che giuocavano al bigliardo. Ma dalla Ristorazione, morale ed ipocrisia han fatto passi da gigante. Le poche che danno tuttora argomento alla cronaca scandalosa, han varcato la sessantina, e le loro avventure sono vergate nelle pagine della Storia, fra Austerlitz e Waterloo. La giovine principessa che abbiam testè maritata allieterà da prima lo sposo di parecchi bimbi; ed è noto che le cune fanno impedimento all’amore.
Fra cinque o sei anni, quando avrà tempo di pensare al male, il mondo le legherà mani e piedi. Amate voi uno schizzo delle sue giornate d’inverno? Il levarsi, la tavoletta, l’asciolvere, i bambini, il marito, le furano la mattinata. Dal tocco alle tre ella rende le visite che ha ricevuto. Prima cortesia è andare a visita; seconda, recare in persona, senza entrare, la cedoletta, o, come dicono, il biglietto di visita; terza, inviare il pezzuolo di carta-porcellana per mezzo di un servo ad hoc. Alle tre, passeggiata alla Villa Borghese, ove salutansi a punta di dita gli amici quanti se ne hanno. A quattr’ore si sale al Pincio; a cinque ore, alla sfilata lunghesso il Corso. Il fior de’ signori, nessuno eccetto, condannasi a cotesta triplice passeggiata; e se sola una dama mancasse, tosto andrebbesi chiedere al marito se forse non sia indisposta. Annotta; si riede a casa, si desina, e da capo, alla tavoletta per andare in società, che adunasi per turno un giorno la settimana; Ricevimento puro e semplice, senza giuoco, senza musica, senza conversazione; scambio d’inchini e di frivoli nonnulla: ma, per rompere il diaccio e cavare il tallo della noia di dosso alla gente, di tratto in tratto ha luogo una danza. Poverette! In un viver si pieno e si vuoto non è neppure un istante riserbato all’amicizia! Due compagne d’infanzia, allevate nello stesso convento, maritate nel ceto stesso, incontrerannosi tutti i di, ad ogni ora, nè passeranno dieci minuti d’intimità in un anno! La meglio provveduta d’ingegno e di modi è solo nota pel suo nome, pei titoli, per le ricchezze; si giudica della avvenenza, dell’abbigliamento e dei diamanti; niuno ha occasione od agio di penetrare l’interno dell’animo suo. Una donna di bell’ingegno dicevami: «Ponendo piè in cotesti saloni divengo bestia; il nulla m’invade dall’anticamera.» Un’altra che aveva dimorato in Francia, rimpiangeva le care amistà si liete e cordiali che annodansi fra le giovani signore a Parigi.
Sorviene il carnesciale; mescolasi ogni cosa, ma nulla s’avvicina: chè non vi ha isolamento pari a quello che trovasi nel fracasso e nella folla. Segue la quaresima: dipoi la grande solennità della Pasqua; quindi si prende via per alla campagna con la famiglia, e cosi vassi ad economizzare un pochino in un vecchio castello smobigliato. Alcuni rumorosi inverni; alcune sguaiate estati e molti bambini: ecco il romanzo delle principesse. Se avvi alcun capitolo di più, il confessore lo sa o lo fa.
Non ragioniamo di ciò, ma guarda e passa.
Conviene andar lungi da Roma per trovare vera nobiltà. Bene s’incontra qua e là nelle provincie del Mediterraneo qualche famiglia decaduta, che a grande stento vive delle sottili entrate di poche terre, a cui rendono qualche omaggio i più facoltosi vicini. Il popolo le sa buon grado di essere stata qualche cosa, e similmente di non esser nulla sotto un governo detestato. Cotesti aristocraticuzzi di provincia, ignoranti, mogi e fieri, sono reliquia del medio-evo dimenticata nel secolo XIX; ed io ne fo cenno per memoria.
Ma se mi seguite di là da Apennino, nelle gloriose città della Romagna, mostrerovvi più gentiluomini di gran nome e d’antico legnaggio, che coltivano la mente ed i campi, che sanno quanto sappiam noi, e nulla più, che prendono interessamento alle sciagure d’Italia, e che, rivolti verso la parte d’Europa felice e libera, sperano dalla simpatia dei popoli e dalla giustizia dei principi la emancipazione della loro patria. Cotesti nobili sono avuti meritamente in sospetto; chè eglino divideranno co’ borghesi il retaggio papale. Ho incontrato in parecchie magioni di Bologna uno scrittor brillante, applaudito in tutte le scene d’Italia; un illuminato economista mentovato con riverenza in tutte le italiane Riviste ed europee; un polemico terribile e temuto da preti; e tutti cotesti individui riuniti nella persona di un marchese di trentaquattr’anni, il quale nella rivoluzione italiana grandeggerà fra primi.