Il Corvo (Carlo Gozzi)/Atto terzo
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ATTO TERZO
Sala Regia.
SCENA PRIMA.
Millo ed Armilla.
Mil. ARMILLA, del cor mio parte più cara,
(con calore) Armilla del mio cor strazio e rovina,
Io più non posso...
Arm. Che vi turba e affligge?
Mil. Jennaro, mio fratel, v’è amante. A voi,
Crudele, tutto è noto, e mi celate
Ciò, che il sapere a morte mi condanna,
E il non sapere in più terribil forma
Cadavere mi rende.
Arm. Qual follia,
Millo, v’assale?
Mil. Ingrata! io non son folle.
I dispetti a voi noti, e i modi, usati
Verso me dal fratel, parlan svelato.
Or per la Reggia i miei fidi ministri
Mesto e pensoso l’han veduto andarsi,
E come fuor di sè. Sospiri e lagrime,
Affannosi sospiri, e pianto amaro
Versar dagli occhi, indi celarsi invano.
Deh mi togliete un sì barbaro peso
Da questo sen; tutto narrate, e datemi
A un colpo sol la morte.
Arm. Io non vi niego,
Millo, le stravaganze usate, e questo
Sospirar, lagrimar, che mi narrate,
Sospettosa mi rende. Del cor mio
Render posso ragion. Millo, io v’adoro,
E, se v’inganno, un fulmine dal Cielo
Caggia su questo capo. Per le nozze
Pronta son. Più verace e chiaro pegno
Dell’amor mio non saprei dare ad uomo.
Strano vi parrà forse un così forte,
Ed improvviso affetto, una sì salda
Simpatia, ch’ho per voi, che romanzesca
Sembra ed inverisimile. Di questa
In gran parte è cagione il fratel vostro
Che nel breve viaggio, che facemmo
In questo dì, co’ più soavi modi,
Co’ più vìvi colori, e con favella
Seducente, di voi sempre parlommi;
E la bella presenza, e i dolci modi,
E il cor sincero, e l’indole costante
Mi dipinse anelando, e a tal, che prima,
Ch’io vi vedessi, era di voi ferita,
Allacciata per voi. Se sì bell’arte
Generosa ed industre in favor vostro
Usata da Jennaro, lo condanna,
Questo è quanto di lui narrar vi posso.
Mil. Ma perchè mai con stravaganti modi,
E disprezzi, ed insulti molestarmi?
E perchè sospirar? perchè lagnarsi
Delle nozze ordinate? Armilla, certo
Qualche affetto improvviso, violento
Preso ha Jennaro, or che privar si vede
Di sì bel sol, nè a voi, nè al fratel osa
Palesarlo e fremisce. Eccolo appunto.
Cor mio, deh per l’amor, che dimostrate,
E ch’io non merto, per quel sacro nodo,
Ch’oggi prometto, e che sciorrà sol morte,
Pria di passare al Tempio, procurate,
Ch’ei vi palesi il ver; siate contenta,
Ch’io qui celato ascolti. Non v’offenda
Un geloso furor, che mi divora,
Un’inquieta brama, che in me regna
Di possedervi, e possedervi in pace. (si cela in dietro)
Arm. Appagatevi pur; nulla m’offendo.
SCENA SECONDA.
Jennaro, Armilla e Millo celato.
Jen. (ottuso, non scorgendo Anmilla, da sè).
Sin or provvidi, o parmi aver provvisto
Per torre a morte il mio fratel. Le nozze
I ministri apparecchiano, nè trovo
Norma a salvar dalla vorace fera,
Da Norando crudele minacciata,
Le carni sue. O umano ingegno frale!
O tremor, che le viscere mi scuoti!
O barbara cagion de’ miei tormenti,
Palesar non ti posso! (vede Armilla; si spaventa) Oh Dio! qui Armilla!
Che m’abbia udito? Già ribrezzo e spasmo
Mi stringe il core, e di cambiarmi in pietra
Mi sembra ogni momento.
Arm. (appressandosegli)Sono queste,
Jennaro, le allegrezze, e quella gioia,
E quelle nozze tanto desiate?
Con sospir, con singulti, con affanni,
Con strani modi, con dispetti enormi
S’accendono dissidi? S’accompagnano
Con tai feste le nozze? Quelle nozze
Da voi volute, e per sì lungo tempo,
E sì lunghe fatiche, da voi stesso
Procurate al fratello? Sì felice
Principio hanno i miei giorni in questa Reggia?
Ditemi il ver, Jennaro; avete forse
Qualche timor sì forte di Norando,
Mio genitor, della sua gran possanza
Che fuor da’ sentimenti oprar vi faccia?
Confessatemi il vero.
Jen. (da sè agitato)Oh Dio! m’ha inteso
A favellar, (alto con franchezza sforzata) Ah qual pensiero mai
Inopportuno, Armilla, e vano e frale
Vi prende? Di che mai temere? In questa
Reggia siam salvi.
Arm. Adunque, qual cagione
Vi fa sì strano, impaziente, e torbido
Disturbator della mia pace, e della
Pace del fratel vostro, e delle nozze?
Confessatemi il ver. (con dolcezza) Forse?... Deh dite...
Confessatemi il ver. Forse v’han preso
Queste, quali si sieno, mie fattezze,
Di stravagante ed improvviso amore,
Che vi metta in tumulto? Ah no, Jennaro;
So, ch’io mal penso... è vero? A Millo vostro,
Che tanto amate, un sì gran torto mai
Non fareste, o Jennaro... è vero?... A Millo,
Ch’è le viscere vostre, e sì vi preme,
Non torreste la vita... è ver?... Piangete!
Oh Dio, che vedo mai? Piangete!
Jen. Armilla,
Non è ver ciò che dite. Amo il fratello,
Più che le carni mie. So, che in voi stessa
Amar dovrei del fratel mio la sposa... (a parte con affanno)
Troppo dico... che penai... che barbarie!
(ad Arm.) Altro non posso dir, nè deggio dirvi,
Nè vi so dire... (s’inginocchia) E solo col più forte
Sentimento dell’alma, per l’affetto,
Che avete pel fratel, per quel dolore,
Che mi trafigge, se pietà in voi regna,
Sospendete le nozze; a mio fratello
In preda non vi date... (prende per una mano piangendo Arm.)
Mil. (facendosi innanzi furioso) Ah traditore,
Non più fratel; t’intendo. Armilla, al Tempio.
E già parata l’Ara. Io saprò infine
Dagli attentati, e insulti d’un rivale,
Più reo, perch’è fratel, difender voi,
Difender me. Degli ordini opportuni
Darò. Cadrà, se con maggiori eccessi
Si avanzerà. Trema, fratello. Andiamo,
Che la notte s’appressa, e impaziente
Mal soffro ogni tardanza. Andiamo, Armilla.
Arm.(a parte) O nozze di miseria e non di gioia!
(entra con Millo)
Jen. (furente) O sentenza! o decreto intollerabile!
O maladetto Corvo! maladetto
Il punto sia, che dallo stral trafitto
Di mio fratel cadesti. Eccomi oggetto
D’abborrimento e d’odio al fratel mio,
Ad Armilla, alla Corte, al popol tutto,
E d’innocenza oggetto. Ah, l’innocenza
Che mi val, se non posso palesarla? (piange)
SCENA TERZA.
Spalancasi un pezzo della tappezzeria, e comparisce con prodigio Norando.
Norando e Jennaro.
Nor. Sì, palesala pure. Un duro marmo
Diverrai tosto.
Jen. (spaventato) Tu, Norando! Come
In questo loco?...
Nor. Non mi chieder questo.
Io tutto posso. Tu il falcone, e tu
Quel destriere uccidesti, maggior ira
Nel mio petto accendendo. Se tardasti
La mia vendetta, segua la vendetta,
E questa notte divorato sia
Da un dragone il tuo Millo. Va, palesa
L’arcano pur; in freddo sasso tosto
Cambierassi il tuo corpo. Il mondo pera,
Ma l’affronto a Norando inesorabile
Che tu facesti, vendicato fìa. (in atto di part.)
Jen. (in atto supplichevole) Norando... deh Norando... Signor mio...
Nor. No, non t’ascolto. A rapir donne impara.
(rientra nella tappezzeria, che si ristabilisce)
Jen. (disperato) O nimico implacabile, infernale
Persecutor, che più dell’ombra mia
Mi sei sempre d’intorno, e di spavento,
E di furore, e di dolore il seno
M’empi, e la mente e di ceraste e serpi!
SCENA QUARTA.
Esce Pantalone con una benda bianca alla testa, coperta dalla sua berretta, e con altra benda e un braccio al collo.
Pantalone e Jennaro.
Jen. (con passione) Ah, buon vecchio e fedele; oggimai solo
Io certo son, che m’ami. Come mai
Voi qui? se mi fu detto, che impossente,
Per la percossa del destriero, in mano
De’ chirurghi eravate? Io fui la causa
Anche del vostro male. Umil vi chiedo
Perdono, amico.
Jen. (a parte commosso) Povero vecchio, tutto mi commove.
(alto) Deh non piangete, Pantalone. È vero
Tutto ciò che fu detto, ma cagione
Tutto è di pianto a me, non già ad altrui.
Pant. Caro fio, caro el mio cuor. Ah scuse, se ve parlo, come se ve fusse pare, e no come suddito, come servo; diseme tutto a mi. Da cossa nasce ste vostre stravaganze improvvise? sti torti? ste insolenze che fè a vostro fradello? a vostro fradello, che gera pur l’unico vostro amor. Se ave qual cosa de sconto in tel cuor, se ve xe sta fatto qualche affronto, palesemelo. Se gaverè rason, mi cusì vecchio, che me vede, sarò el primo a suggerirve el resarcimento, ma una vendetta nobile e da par vostro. Quell’ammazzarghe un falcon in tele man, quel tagiarghe le gambe a un cavallo, mentre el sta per montarghe in sella, perdoneme, alla Zuecca se ghe dirla bassezze, vendette da scortegaori, e no mai da un Prencipe, come se vù. Se gnente ho mai merità, se amè el vostro onor, se no avè piaser della morte d’un povero vecchio che ve vol ben, espettoreve con mi, feme degno... feme degno della vostra confidenza; no fè, che mora aspettator de quelle desgrazie, che se va descorrendo, e che solo a pensarle me sento a passar el cuor da cento stilettae.
(piange)
Jen. Ah, caro amico, vecchio benemerito,
Esempio raro d’ogni servo, onore
Di quell’alma Città, che vi produsse,
A che cercate di troncar le angosce
Col raddoppiarle, la ragion cercando
D’onde la ragion nasce, che v’affligge?
(a parte) Ah troppo dissi; il sangue mi s’agghiaccia.
Jen. (con agitazione) È dunque al Tempio mio fratello, e seguono
Le nozze, è ver?
Jen. (da se) Ogni parola mi spaventa, e parmi
D’aver Norando in faccia, di vederlo,
D’un freddo sasso rimaner. Si pensi
A salvar il fratello. Ogni discorso
Si fugga di cimento. (alto) Pantalone,
So che nella mia dura circostanza
Tutti mi son nimici, e che voi solo
M’amate ancora. Io giuro al Cielo, e a voi,
Ch’amo il fratello mio più che me stesso.
Che in Armilla amo una cognata solo,
Che non potei non far quant’oggi ho fatto.
Di più non dico. L’onor mio, la fama
All’amor vostro, e l’innocenza mia
Raccomando, e vi lascio. (a parte) Un mezzo il Cielo
Par che m’ispiri. O salverò il fratello,
O per suo amor perderò anch’io la vita. (in atto di partire).
Jen. (con sussiego) Io vel comando. Rimanete. Addio. (entra)
Pant. (stringendosi nelle spalle) Resterò. Son servitor. Devo obbedir. Ma cossa mai xe sti arcani!
Io, giuro al Cielo, e a voi
Ch’amo el fradello mio più de mi istesso,
Che in Armilla amo solo mia cugnada,
Che no podei no far quello, che ho fatto!
SCENA QUINTA.
Leandro e Pantalone.
Lean. (uscendo affaccendato) Dite, Ammiraglio; il Principe Jennaro
Vedeste voi?
Pant. (sorpreso) Perchè me domandeu sta cossa?
Lean. Perchè mi furon date
Commissioni dal Re.
Pant. (a parte) O poveretto mi! (alto) Che commission gaveu, caro sior Leandro?
Lean. (collerico) L’avete voi
Veduto, o no?
Pant. L’ho visto; ma diseme per carità i ordeni che gavè.
Lean. Ma dov’è andato, ch’io
Noi posso ritrovar?
Pant. Co saverò le commission, ve lo insegnerò.
Lean. Non son tenuto
Gli ordini d’un Monarca a palesarvi.
Lo saprò ritrovar senza di voi. (entra frettoloso)
Pant. Ah cani! ah cani! Certo i ga qualche ordene resoluto e crudel. I me lo perseguita, i me lo vol tor su.
SCENA SESTA.
Tartaglia e Pantalone.
Tart. (uscendo affaccendato) Ammiraglio, avete veduto Leandro?
Pant. Sì, l’ho visto; cossa volevi? (ironico) Se allegri, che par che andè a nozze. Averè da darghe qualche bona nova.
Tart. Dov’è andato? ditelo presto. Ho degli ordini del Re.
Pant. Ah caro Tartaglia, se me sè amigo, se me volè ben, diseme i ordini che gavè.
Tart. Io non ho difficoltà, ve li dico subito. Leandro aveva l’ordine di dare l’arresto al Principe nelle sue stanze. A me ha cresciuta la dose; è inquieto, non è contento di questo; ma vuole, che immediatamente sia condotto nell’Isola del pianto e colà confinato.
Pant. In tell’Isola del pianto! el Re contro un fradello tanto benemerito? contro el so sangue? ste crudeltà? Povero innocente!
Tart. Innocente? Se gli ha scannato un falcone nelle mani, ammazzato un cavallo sotto; ma voi dovreste ricordarvclo; avete per quel caso un braccio al collo e la testa rotta.
Pant. No importa gnente. Nissun sa la rason de ste cosse; mi la so, no la so, ma so che l’è innocente.
Tart. Ma se dopo tutte queste insolenze il Re l’ha ritrovato ginocchioni innanzi alla Principessa che le baciava la mano, che l’accarezzava, e le diceva piangendo: Uh, ben mio, uh, vita mia, non sposate mio fratello, se non mi volete morto? È innocenza questa?
Pant. (a parte) Mo cordoni! questa certo xe granda. (alto) Cosa importa? Cossa saveu vu i arcani?
Tart. Arcani! Qui non c’è bisogno d’interpretazioni. Il Re è entrato in maggiori sospetti, massime non avendolo veduto nell’accompagnamento al Tempio, e fa benissimo a levarsi dinanzi un fratello, che può macchinare maggiori bestialità, e anche scannarlo per gelosia nel letto colla sposa. Tutta la Corte è scandalezzata e irritata contro al Principe, e il popolo è in tumulto. A questi papaveri si deve troncar il capo. Ma voi avete la testa rotta, e il cervello vi deve traballare, e fate certi discorsi, che mi sembrate un matto.
Pant. E vu me pare un ministro traditor, un omo d’un cuor negro, uno de quei (co’ dise el proverbio) dai al can che el xe rabbioso; un che no cerca altro, che dar drio alla passion d’un Re per coltivar la propria fortuna; che, in vece de buttar acqua, zonze del fogo, e che scordandose che nasse el scandalo, la rovina tra sangue, tra do fradelli, che tanto se amava, ha piaser, per darse merito, de quelle novità, che doverla far pianzer, spezzar el cuor, come le me fa a mi, povero vecchio, che no gaverò più pase, e che forsi lasserò stassera la vita sotto al peso de sta passion. (piange)
Tart. Con tutte le insolenze che m’avete dette, caro Ammiraglio, voi mi promovete anche il pianto, perchè conosco l’amore, che avete al Principe Jennaro; ma la colpa non è mia, è sua; e gli ordini di sua Maestà conviene eseguirli.
Pant. Sì, xe vero, se deve obbedir el so Re. Mi solo in sta Corte, benchè povero Zuechin, averia proccurà de calmar l’animo del mio Re, e quando l’avesse insistio contro so fradello, averia buo cuor de renonziar la carica, de perder el stato, de farme metter anca i ferri ai piè, piuttosto de esser nunzio a un putto de quella sorte de tanta desgrazia, de tanta mortificazion.
Tart. Ma a Napoli, caro Pantalone, non c’è l’educazione della vostra Giudecca, e s’usa ad eseguire gli ordini d’un Re con prontezza, senza tanti eroismi.
Pant. Eseguili pur; ma mi, che son dalla Zueca, vedeu sior, son ancora a tempo de insegnarve, come se fa a lassar i comodi e le fortune, per andar a fenir i zorni in esilio, e al fianco sempre de un povero sfortunà, abbandonà da tutti, ma che sarà sempre le viscere mie.SCENA SETTIMA.
Truffaldino, Tartaglia e Pantalone.
Mentre il popolo attento ed affollato.
Nel magnifico Tempio aspettatore
Era di nozze, e il Sacerdote avea
Parata l’Ara; Millo, il Re, per mano
Teneva Armilla, la sua dolce Armilla,
E al siton degli oricalchi, e armoniosi
Bossi, e sonori timpani in concerto,
E di musiche voci, il desiato
Nodo seguì. Ma che? l’aere del Tempio
S’empiè di gufi, e d’altri augei notturni,
Di mesti auguri apportatori, e quinci,
E quindi svolazzando, d’ululati,
E di querule voci echeggia il Tempio,
E cento cani, e cento, ch’eran sparsi
Per l’ampia mole urlar di voci orrende.
Dalle ricche pareti un terso specchio
Cade, e in minute scheggie si converte,
Ed un vaso di sal, che sull’altare
Stava riposto, si versò, si sparse.
Indi un allocco in sul capo al Monarca
Vola, e si ferma, e una civetta enorme
Sul capo alla Regina si riposa,
E coll’adunco artiglio le sparnazza
Le chiome nere, ed il tuppè sublime.
(Si rasciuga il sudore)