Il Buddha, Confucio e Lao-Tse/Parte Seconda/Capitolo V

V - Continuazione del medesimo soggetto

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Capitolo V.


Continuazione del medesimo soggetto.


La morale e la politica di Mencio.

Il Confucianesimo giudicato dai missionari cristiani.


§ 1. — Per terminare l’esame dei «Quattro libri classici», dovrei ora parlare di Menzio, della sua morale e della sua politica. Ma quest’argomento è stato così ben trattato dal prof. A. Severini, che a me non resta di meglio a fare, che cedere a lui la parola. Quello dunque che si dirà intorno a questo Savio, secondo per fama, non per ingegno, a Confucio, lo tolgo da un pregevole scritto che il dotto orientalista pubblicò, or son varii anni.

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«Fare all’uomo la vita quanto meno si possa infelice, questa è pei Cinesi la grande bisogna dell’umanità, questo il supremo postulato della sapienza, questo il problema proposto a governatori e sovrani, questo per conseguenza l’argomento comune ai libri di Confuzio e di Menzio. Troveremo negli scritti del secondo gli stessi aforismi, talvolta le stesse parole del primo: troveremo però l’austerità dei principii confuziani fatta persuasiva ed amabile dalla maniera socratica di Menzio; all’arida massima sostituita sovente la parabola allettatrice; al nudo apotemma, il discorso non di rado facondo; alla semplice asserzione, l’argomentazione abbastanza rigorosa e dialettica; vedremo insomma aggiunto alla sapienza antica un primo elemento di scienza. Nè pertanto si creda che tutto riducasi a innovazione o abbellimento di forma: nuova è talora la sostanza, nuovi quesiti sono proposti; e taluni, come quello per esempio sulla natura dell’uomo, ventilati con certa ampiezza di trattazione».

Dopo aver detto come le virtù degli antichi eran [p. 374 modifica]venute meno col volger degli anni, e come Confucio avesse dato opera a ristorare la dottrina de’ primi Savii, l’autore continua con le parole di Mencio:

«Ma ahimè! più non si veggono sorgere imperatori sapienti, e i principi feudatari seguono baldanzosi ogni loro sfrenato talento. Uomini di lettere fuori d’uffizio van tenendo propositi sovversivi; i discorsi del popolo stesso vi manifestano, che altri hanno accolto le opinioni di Yang-ciu, altri quelle di Mi-ti. Ora la massima fondamentale di Yang-ciu è questa: Ciascun per sè; ch’è quanto dire: Non più governo. Mi-ti invece va predicando: Ogni amore deve essere eguale; e questo è lo stesso che dire, Non più famiglia. Distrutta la famiglia, distrutto il governo, in che cosa gli uomini differiranno dai bruti? Se non s’impugnano i sofismi di Yang-ciu e di Mi-ti, se non si promuovono i principii di Confuzio, la perversione delle menti giungerà a tale da estinguere ogni sentimento di umanità e rettitudine. Ritorneranno le fiere nelle sedi degli uomini per divorarli, e si [p. 375 modifica]vedranno gli uomini divorarsi fra loro. — Preoccupato dal timore di tali eventi, io mi do tutto a propugnare le dottrine dei primi savi, e combattere quelle di Yang-ciu e di Mi-ti, certo che i sapienti dell’età futura non diranno menzognere le mie parole. Sorga intanto un sovrano che istituisca un governo benevolo, e i popoli tutti dell’impero, quasi per lui liberati da ferrea catena, a lui correranno esultanti.

«.... Lodevolmente sobrio, cauto e leale, come Confuzio, in fatto di teosofia, Menzio non imitò il suo maestro nell’astenersi da disputazioni speculative su certi punti di filosofia morale. E qui cade in proposito rammentare la controversia che sostenne contro più d’un oppositore intorno alla natura dell’uomo. L’assunto di Menzio era che la natura dell’uomo è buona. Altri de’ suoi contraddittori si sforzavano di provare che la natura dell’uomo è invece cattiva; altri finalmente, che essa non è nè buona nè cattiva. Addurremo alcuni dei principali argomenti di Menzio: Tutti gli uomini provano un sentimento [p. 376 modifica]di commiserazione alla vista degli altrui mali. Supponete che un uomo anche perverso di cuore vegga un bambino in estremo pericolo di cadere in un pozzo: correre a salvarlo sarà il primo suo moto; e ciò non essendo possibile, egli si sentirà stretto il cuore da compassione angosciosa. Nè questo affetto gli verrà da speranze di acquistarsi la grazia dei genitori del fanciullo o l’approvazione degli amici, ma solo da un’interna irresistibile forza. Il sentimento della commiserazione, che è il principio della benevolenza, è dunque innato ed essenziale nell’uomo. — Un avversario non si acqueta alla stringente prova di questo esempio, e per dimostrare che la benevolenza non è frutto di natura, ma di artificiale educazione, dice che, come del legno di un albero si può fare una tazza, così dal cuore dell’uomo si può ottenere benevolenza; ma come gli alberi per natura non producono tazze, così gli uomini non sono naturalmente benevoli. Al che Menzio risponde: Potete voi far tazze da un albero, lasciando intatta la natura di questo? Voi sarete costretto a fargli violenza, inciderlo, danneggiarlo. Or dovrete voi fare il medesimo per ottenere benevolenza dal cuore dell’uomo? Aimè! le vostre parole indurrebbero a concludere che i buoni sentimenti son danno e sventura.

[p. 376 modifica]«Ma l’avversario insiste: La natura dell’uomo è come acqua stagnante in luogo chiuso; aprite all’acqua un’uscita dalla parte di levante, e l’acqua correrà a levante; apritegliene una a ponente, e correrà nello stesso modo a ponente; la natura dell’uomo non è proclive al bene o al male più che l’acqua non tenda al levante o al ponente. — Si certo, ripiglia Menzio; ma l’acqua scorrerà essa indifferentemente all’insù o all’ingiù? È natura dell’acqua scorrer sempre all’ingiù, com’è natura [p. 377 modifica]dell’uomo il sempre tendere al bene. Egli è ben vero che percotendo con veemenza la superficie tranquilla d’uno stagno, voi farete che l’acqua vi balzi fin sopra il capo, ovvero per mezzo di steccaie voi potrete condurla fin sulla cima di un colle; ma tali movimenti son essi conformi alla natura dell’acqua? Come negare che la forza è solo quella che li produce? Or quando gli uomini sono indotti a operare ciò che non è buono, alla loro natura si fa nella stessa guisa violenza. Rammentate voi come erano belli una volta gli alberi del monte Nieu? Ma situati presso al confine di un grande Stato nemico, furono mille volte offesi, mozzi e squarciati a colpi di scure. Or come avrebber potuto serbare la primitiva bellezza? E tuttavia, notte e dì riparando per interna virtù le ferite, ricreati da piogge e rugiade, rimetteano ben presto nuovi germogli. Ma sempre invano; che di continuo poi vi andavano a brucare le capre. Solo a questo si deve quel nudo aspetto che offre oggidì la montagna. Or chi vede e non sa, pensa che mai non sia stata vagamente selvosa. Lo stesso avviene dell’uomo. Vorremo dire che il cuore umano sia, da natura, privo di benevolenza e di rettitudine? I modi, onde l’uomo perde la sua naturale bontà, sono simili a quelli, onde l’albero perde la sua nativa bellezza. Offeso di giorno in giorno da’ mali, come può l’animo ritenere la bontà innata? E non di meno, opera in esso pur sempre una forza riparatrice. Quando la notte confina col giorno, quando l’aria mattinale è più pura, più s’avviva ne’ cuori il sentimento d’umanità e d’amore: ma lieve com’è, i casi avversi del giorno lo premono e spengono; e la pressura, col rinnovarsi, di tanto s’accresce, che il ristoro delle notti non è più pari ai danni diurni. Allora segue che la natura umana di poco si fa diversa dalla ferina. Chi vede e non sa, pensa [p. 378 modifica]che di virtù congenite non fu mai dotata. Non è cosa al mondo che non cresca al suo vero essere, se sia convenientemente nutrita; non è cosa che non decada, se il suo proprio nutrimento le faccia difetto.

«Non vinti al platonismo di tali ragioni gli avversari opponevano i funesti effetti dei sentimenti, degli appetiti, delle passioni: e Menzio a mantenere che passione e sentimento, come da natura che sono, son buoni e benefici, son causa che l’uomo non cada in uno stato d’inedia morale, sono alimento alla fiamma della vita. Trasmoderebbero, se in balìa di sè stessi; ma natura provvide mettendone la mente al governo. Or questa bensì abbisogna di cultura, ma naturalmente n’è avida, e di per sè tende allo stato d’imperturbabilità.

«.... È noto che molti degli antichi, ed anche dei moderni filosofi consentono con Menzio che buona originalmente è la natura dell’uomo. Con Menzio sta Dante, il quale ancorchè non potesse avere dimenticato che nel settimo del Paradiso Beatrice gli avea detto, molto esser decaduta

Nostra natura, quando peccò tota
     Nel seme suo,

nell’ottavo poi si fa dire e persuadere da re Carlo Martello, che

Sempre natura, se fortuna trova
     Discorde a sè, com’ogni altra semente
     Fuor di sua regïon, fa mala prova:
Ma se il mondo laggiù ponesse mente
     Al fondamento che natura pone,
     Seguendo lui, avria buona la gente.

«.... Niun tèma o quesito attenente al diritto pubblico vi è trasandato. Il diritto di proprietà, la divisione de’ beni, la repartizione delle imposte, il diritto al lavoro, [p. 379 modifica]la libertà di commercio, il mutuo soccorso, il diritto internazionale, l’intervento e il non intervento, il suffragio universale, il fondamento dell’autorità sovrana, sono gli argomenti che sotto nomi affatto diversi forniscono materia ai precetti dei pubblicisti cinesi. Quand’altro libro di quella ricca letteratura non fosse rimasto che quello di Menzio, dalle confutazioni che vi si leggono di certi sistemi politici stati proposti, di alcune teoriche sociali state diffuse, noi potremmo conoscere, che il parlare oggi ai Cinesi, per esempio, di comunismo, non sarebbe in tutto una novità; noi sapremmo eziandio che i Saint-Simon ed i Fourier s’ebbero i loro umili precursori nell’impero celeste. Eppure in tanto discorrere di diritto pubblico, mai non s’incontra negli autori cinesi la parola diritto, voglio dire che non s’incontra un loro vocabolo corrispondente all’idea significata dal nostro. Nessuno esiga, tutti prestino: tal’è il tenore di quella scuola civile.

«Doveri di governanti, doveri di governati, sono i due sommi capi, in cui si potrebbe partire il catechismo di Menzio. Ma come dai doveri faccia egli scaturire i diritti, facilmente si scorge fin dalle prime. Indirizzandosi al popolo, egli esce in così libere parole, che oggi stesso in qualche Stato d’Europa non si potrebbe ripeterle impunemente. Il popolo, egli dice, costituisce il più importante elemento di una nazione, il sovrano è il meno importante. La potestà regia emana bensì dal cielo; ma il cielo non parla, e solo manifesta la sua volontà per mezzo dell’uomo; quel che vede il popolo vede il cielo, quel che sente il popolo sente il cielo.

«.... Da così franche premesse, ardite conseguenze eran le sole che si potessero trarre. Se la regia potestà è conferita dal popolo, dal popolo stesso potrà esser tolta: e Menzio, infatti, ai ministri ed ai parenti di un indegno [p. 380 modifica]principe non solo concede il diritto, ma inculca il dovere di spodestarlo. Alla presenza di un re che lo aveva interrogato in proposito, egli professa una tal massima, con le seguenti parole: Se grandi siano le colpe di un principe, i suoi ministri e i parenti devono fargliene ripetute rimostranze, alle quali se da lui non si porga nessun orecchio, essi dovranno deporlo. — Il re impallidì; sicchè Menzio aggiunse: La maestà vostra non se ne conturbi. Interrogato, io non poteva rispondere altro che il vero. — Ma ben più quel re avrebbe avuto ragione d’impallidire, ove Menzio in quella congiuntura fosse venuto, come altrove fece, alla naturale ed ultima conseguenza delle sue premesse. Il popolo essendo giudice del sovrano, potrà condannarlo alla pena da lui meritata. Il nostro savio si fa domandare formalmente: È lecito il regicidio? e la risposta che dà, benchè affermativa, è tale che ci rivela com’ei ravvisasse qualche cosa di sacro nella persona del re. Si direbbe che ricorre ad una restrizione mentale, che vuol troncare il nodo con mutar nome alle cose, che non può ammettere l’enorme fatto senza supporre che nella sacra persona siasi naturalmente operata una degradazione, un cambiamento di natura, una diminutio capitis. Chi spoglia se stesso, dice, delle facoltà e delle virtù inerenti alla propria natura e al proprio carattere, è un ladro, un malfattore; chi è divenuto ladro e malfattore, è divenuto un omiciattolo qualunque: così allorchè Wu uccise il tiranno Ceu, si senti dire che quell’omiciattolo di Ceu era stato levato di mezzo; non si sentì già dire che fosse stato messo a morte un sovrano.

«Non è tuttavia da credere che Menzio con simili propositi volesse continuamente imbaldanzire il popolo: chè anzi più spesso egli si fa a rammentargli la lunga serie de’ suoi doveri, partendo dal principio che retaggio [p. 381 modifica]del popolo è il lavoro. Veggasi con che fino accorgimento vitupera l’ozioso mestiere degli accattoni e dei parassiti, mettendoli in derisione e in dispregio alle donne. Un uomo di Z’i, marito di due mogli, l’una di primo, l’altra di secondo grado, avea costume lasciare il mattino la casa e non tornarvi prima di sera, ben pasciuto e contento. La moglie di primo grado ne moveva sospetti all’altra, dicendo: ogni volta che domandiamo a nostro marito come e dove egli desina, la risposta che ne otteniamo è sempre la stessa: «Con gente dabbene»; ma di questa gente dabbene io non ne veggo mai che vengano a fargli visita. Io vo’ sapere a ogni patto dove va il nostro brav’uomo. E infatti un bel mattino gli tenne dietro a distanza; nè mai s’accorse, quanto andarono per la città, che un galantuomo gli s’accostasse a far due parole. Giunti fuori le mura al sepolcreto, dov’erano comitive a mensa di sacrificio sopra le tombe, lo vide aggirarsi accattando di brigata in brigata, e satollarsi di rimasugli. La povera donna ridottasi a casa, e narrato il tutto alla, seconda moglie, aggiunse: e questo era l’uomo che noi chiamavamo il nostro sostegno, la nostra speranza; l’uomo con cui dovremo vivere tutta la vita! le sue vie sono queste! Frattanto il marito se ne ritornava ogni sera con aria contenta: ma le donne tenendosi disonorate, ne piangevano di vergogna per lui. — Moralizza Menzio a tal proposito con questo terribile epifonema: Pensando alle vie che tengono gli uomini per acquistarsi onori e ricchezze, quanti sono, le cui mogli, se tutto sapessero, non piangerebbero di vergogna per loro?

«Raccomandato così accortamente al popolo il dovere di guadagnarsi la vita con fatiche onorate, non usa Menzio minor sagacia nell’esortarlo a non mormorare per la gravezza delle pubbliche imposte. Egli sa che il Cinese [p. 382 modifica]non ha più caro vanto che il dirsi civile; così dunque gli parla: Il buon popolo non muova lamenti sulle pubbliche gravezze, che il giudizio dei savi ha reputate necessarie al mantenimento d’uno stato culto e civile; non adduca l’esempio di altre genti che pagano molto minori tributi; ma guardi invece che molto è minore altresì la civiltà, di cui godono quelli. — Non ci rammentano queste parole il celebre detto d’un nostro famoso politico: La libertà costa cara?

«Ma più che al popolo, gli ammaestramenti di Menzio si rivolgono ai principi; perchè, dic’egli: Il popolo è paragonabile a flessibili canne, il sovrano al vento; nella direzione che il vento spira la canna si piega. Un sacro deposito è confidato ad un principe nel reggimento d’un popolo. Se qualcuno, costretto ad allontanarsi per lungo viaggio, affida la moglie e i figli all’amico; e poscia tornando risà che l’amico li fece vivere fra i patimenti, di che si fa degno costui? domanda Menzio ad un re. — Degno, risponde il re, che l’offeso rinneghi l’amicizia dell’offensore. — Così un magistrato che opprima coloro che deve proteggere, di che si fa degno? — Degno di essere destituito. — E un sovrano che non governi, ma tiranneggi, di che sarà degno? — Il re guardò a destra e a sinistra, e volse ad altro il discorso.

«....Quali verso il popolo devan essere del sovrano le cure, i pensieri, gli affetti, esprimono i moralisti Cinesi con una parola ricca di senso poetico assai più che non fosse il nome di matria sostituito dai Cretesi a quello di patria: il sovrano dev’essere, dicon essi con una sola espressione che manca alle nostre lingue, il fumù, cioè il padre-e-madre del popolo. Col popolo dunque, dice Menzio, dividano i sovrani gioje e dolori; pel suo benessere mai non si credano aver fatto abbastanza: e poi [p. 383 modifica]gl’impongano le più dure fatiche, purchè intese al pubblico bene, e lo vedranno affranto dal disagio, ma non udranno un lamento; lo espongano a rischi di morte per la comune salvezza, e senza gemiti lo vedranno morire. Ma se la fame uccide un sol uomo del popolo, pensi il re ch’egli n’è l’omicida. Abbondavano nei pubblici granai le derrate raccolte dalle pubbliche possessioni che i privati coltivano in comune. Ogni gran terra, secondo le antiche istituzioni, fu divisa in grandi quadrati; ogni quadrato in nove poderi, di cui gli otto, distribuiti ad otto famiglie di coloni, circondano il nono, che è di proprietà pubblica, e chiamasi il campo dell’equità, perchè, coltivato dalle otto famiglie, non produce per alcuna di esse, ma per chi fu colpito da disastri, o pel popolo tutto, in anni calamitosi. Ora se il re converse quelle derrate in uso di pompa e mollezza, se ne fece pastura di cavalli e di cervi, egli ha preparato la morte al suo popolo, egli ha fatto che le bestie divorassero gli uomini, egli è un padre-e-madre che uccise il suo figlio. Nè presuma scusar sè accusando l’annata sterile e disastrosa; tanto sarebbe con una spada passar un uomo fuor fuora, e poi scolparsi dicendo: non io l’uccisi, ma fu la mia spada.

«Come già fanno supporre le precedenti parole, Menzio dichiara in termini anco più espliciti che il buon governo non è possibile senza la prosperità materiale del popolo, senza che (per usar la sua frase) il grano e i legumi abbondino come l’acqua e il fuoco. Ov’è copia di vettovaglie, il popolo è buono, perchè l’incertezza del vivere è fomite di voglie disordinate, la sicurezza produce contentamento di cuore».1

[p. 384 modifica]§ 2. — Con l’esame della Morale e della Politica di Mencio, che ci han fornito le belle pagine del prof. Severini, abbiamo finita la nostra esposizione delle «Sacre scritture della Cina», o de’ «Cinque Libri canonici» e de’ «Quattro Classici». Nel capitolo seguente faremo una breve storia delle dottrine di Confucio; e tratteremo poi della fede filosofica degli odierni seguaci del gran maestro. Ma prima di lasciare l’argomento, che ci ha trattenuti fino ad ora, non credo fuor di proposito alcune considerazioni generali sull’indole del Confucianesimo. E a questo fine cadono acconce certe osservazioni de’ missionarii cristiani; i quali, studiando pel solito le credenze religiose e filosofiche d’un popolo coll’intento di confrontarle alle loro, si fermano specialmente su’ punti, che più da quelle si allontanano, e che spesso sono i punti principali e distintivi. E nemmeno i giudizii ch’eglino portano, non di rado poco conformi al vero, su gli effetti di quelle dottrine, sono inutili a conoscersi; perchè rivelano gli effetti, che forse si manifesterebbero, se esse venissero professate da genti, che non fossero della schiatta, in cui queste stesse dottrine nacquero e si svolsero. Imperocchè ognuno giudicando quasi sempre dal proprio sentire, non può figurarsi che quel che è funesto o buono a sè, non debba anche agli altri esser tale. Ora i missionarii della Cina, per quel che concerne la dottrina di quel popolo, si son fatti il seguente quesito: Data una nazione che ignorasse i comandamenti della prima tavola (quegli [p. 385 modifica]dei dieci che riferisconsi a’ doveri dell’uomo verso Dio) e non professasse obbedienza che a’ comandamenti della seconda (quegli che si riferiscono a’ doveri dell’uomo verso i suoi simili), qual ne sarebbe la conseguenza? Siffatto tema è svolto in un articolo d’un giornale inglese, che si stampa a Fu-ceu; e dove si dimostra, com’è infatti, che i Cinesi si trovano appunto nel caso supposto di sopra. La conseguenza che ne tira fuori il pio missionario, autore dell’articolo, il lettore se la immaginerà facilmente. — La seconda tavola non basta; e perchè i comandamenti di quella possano essere propriamente osservati, è mestieri osservare quelli della prima. Infatti, dice egli, guardate i Cinesi; v’è popolo che faccia maggior pompa di così bella morale e di così umana dottrina ne’ suoi libri, e pertanto sia il più vizioso e il più bestiale della terra? Il distintivo della schiatta sinica, continua, consiste ne’ suoi vizii, e in quei vizii appunto, che sono il contrario di quelle tali virtù, ch’esso pose a base della propria civiltà.2 Osservate invece le nazioni cristiane, che hanno le due tavole; quanto mai sono innanzi nella pratica delle virtù predicate dall’Evangelo! E non basterebbe solamente [p. 386 modifica]questo fatto, termina egli, a provare, che la salute dell’uomo è impossibile per sola opera umana?3 — Io non voglio negare una conclusione tanto naturale e così ben trovata; ma è poi vero, che tra noi Cristiani sia raro il caso di uno che non ami il prossimo suo come sè stesso, o d’alcuno che faccia proprio il rovescio de’ dieci comandamenti, come fanno i Cinesi pei precetti della loro morale? Si direbbe quasi, a leggere il detto scritto, che quel numero infinito di brutte parole che significano pessime cose, si trovino ne’ nostri dizionari, soltanto per aver modo di chiamare col lor nome tutte le malvagità di quella disgraziata nazione e delle altre che l’assomigliano.

La immoralità del popolo cinese, messa a confronto colla dottrina altamente morale che si trova nei libri dei suoi filosofi antichi, è un tema trattato spesso e con molta compiacenza da coraggiosi propagatori dell’Evangelo in quelle lontane regioni; e sempre per quella benedetta cagione, dell’essere i Cinesi riusciti, senza aiuto soprannaturale, a conoscere la virtù e il bene, e con belle e acconce parole inculcare la pratica dell’una e l’amore dell’altro. Ma è anche giusto ricordare, che non pochi viaggiatori, e tra questi eziandio qualche missionario, assicurano che questa pretesa immoralità non è poi tanta: o almeno è tale da non sorpassare di troppo quella di altre nazioni molto orgogliose della loro cristiana civiltà. Affermano che la brutta idea, che alcuni si son formata dello stato morale dell’Impero di Mezzo, deriva o dall’essersi messi a giudicare con preconcetti, o dall’avere avuto che fare col peggio del popolo, che anche presso noi non è fior di cortesia; o dal non aver ricevuta accoglienza pari al loro merito e alla loro [p. 387 modifica]rispettabilità; dal non conoscer bene la vita e i costumi della classe colta; o da tante altre cose che io lascio di dire, perchè non voglio atteggiarmi a difensore dei Cinesi, chè in fin fine sono uomini anche loro. Soltanto noterò che sarebbe una cosa veramente singolare, che questo popolo avesse immaginato un sì bel codice di morale e di politica, per far poi il contrario di quel che imponeva; e con siffatto modo fosse riuscito a costituirsi in nazione, e a creare una civiltà che dura da quaranta secoli. Converrebbe dire che dal connubio del vizio con l’ipocrisia nascono popoli gagliardi e di lunga vitalità. Ma uno sproposito così massiccio non può cadere in mente a nessuno, e tanto meno in mente cinese: ricordiamoci che Confucio disse a questo proposito: — Solo quello Stato che riposa su la virtù e sul pieno adempimento de’ doveri d’ognuno, dal principe all’ultimo de’ sudditi, si mantiene stabilmente; e per la sua fermezza è da paragonarsi alla stella polare, la quale, standosene immobile, vede aggirarlesi intorno tutti gli astri del Cielo.

Metto fine a questo capitolo col riportare dieci proposizioni, con le quali il Rev. Ernest Faber conclude un suo «Digesto sistematico del Confucianesimo», perchè esse epilogano assai bene i capi principali di questa dottrina, e ne fanno conoscere l’indole. Lascio stare accanto a queste dieci proposizioni le contrarie tolte dal Cristianesimo, che il detto missionario tedesco, affinchè il contrasto dimostri a chiare note gli errori delle une e la eccellenza delle altre, ha messe a confronto. Ma per esser sincero devo confessare, che nel riferir questi confronti, fatti da un teologo cristiano, non ho avuto in mira lo stesso fine dell’autore: li ho riferiti, perchè il lettore imparziale giudichi quali delle idee contenute in queste venti proposizioni si addican meglio alla odierna società civile.

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Dottrina Confuciana. Dottrina Cristiana.
1. 1.
«L’uomo non è riguardato sotto l’aspetto religioso, nè mistico, e nemmeno al tutto materiale; ma sotto quello umanamente morale: cioè a dire egli è riguardato come uomo in relazione a l’uomo». «L’uomo è essenzialmente riguardato sotto l’aspetto religioso: cioè a dire nelle sue attenenze con un Dio vivente e personale».
2. 2.
«Nelle Scritture confuciane non si contiene nulla che si riferisca all’origine dell’uomo. Egli appare come un prodotto della natura; e, nella sua più alta perfezione, come il compagno del Cielo e della Terra: ossia come una delle tre potenze della natura stessa».4 «La natura dell’uomo e la sua origine son pienamente spiegate, dall’essere egli un’immagine di Dio».
3. 3.
«Le forze per innalzarsi all’idealità l’uomo le ha in sè stesso. Il Santo (Shêng-jên) rappresenta l’ideale umano, riguardo alla natura; il Savio (Kün-jên), l’ideale umano, riguardo alla perfezione morale».5 «Il dovere dell’uomo è di condurre in atto la volontà di Dio, coi soli mezzi che da Dio ha ricevuti».
4. 4.
«Il peccato vien dall’eccesso dei desiderii e delle passioni. Esso cessa d’essere, quando l’uomo fa ritorno al retto sentiero». «Il peccato è qualcosa di positivo. Esso vuole una espiazione, altrimenti conduce inesorabilmente a perdizione eterna».

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Dottrina Confuciana. Dottrina Cristiana.
5. 5.
«L’uomo è libero; soltanto il destino ha limiti. Rompere que’ confini è cosa inutile, anzi dannosa». «La volontà dell’uomo (non la libertà) e la volontà di Dio (la libertà, non il capriccio), nelle loro lotte, formano il vero problema etico».
6. 6.
«Tutte le virtù hanno un legame immediato con la virtù dell’umanità o dell’amor del prossimo (jên), che è la virtù per eccellenza». «Le virtù cristiane sono: fede, speranza e carità. A queste si unisce la preghiera, che mette l’uomo in comunicazione, con Dio, e in relazione col mondo avvenire».
7. 7.
«Ogni pubblica virtù presuppone le virtù private. Per la qual cosa il Savio (Kün-tse) prende di mira il conseguimento di quest’ultime; le quali non si riferiscono ad altro, che ai vincoli dell’uomo come figliuolo, come fratello, come padre di famiglia, e come suddito». «Il Cristianesimo similmente non concepisce l’uomo come un individuo astratto; ma come uno che, mentre si trova in relazione con Dio, è nondimeno in continua relazione co’ suoi simili. I vincoli tra gli uomini diventano più intimi, più puri e perciò più nobili e più durabili, per mezzo dei vincoli spirituali».
8. 8.
«I gradi, pe’ quali si arriva alla perfezione, sono: conoscenza, sodezza di mente, rettitudine di sentimento e di cuore, cultura di sè stesso, governo della famiglia, governo dello Stato».6 «Pel Cristiano la perfezione sta nel pentimento e nella conversione; le quali virtù conducono mano mano, con l’aiuto della grazia di Gesù Cristo, alla giustificazione e alla santificazione».

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Dottrina Confuciana. Dottrina Cristiana.
9. 9.
«Lo Stato è il pieno svolgimento dell’umana natura».7 «Il Cristianesimo trovò un fine migliore nella dottrina della gloria eterna del regno di Dio; la quale si compie con la resurrezione de’ morti, e la rigenerazione del mondo».
10. 10.
«Il benessere materiale e l’educazione del popolo sono i due massimi fini che si propone lo Stato. La pace, e la costante e retta amministrazione delle faccende pubbliche sono le cose, per le quali esso sale in eccellenza». «Lo Stato cristiano è l’amministratore e il dispensiere de’ naturali doni di Dio; la Chiesa, la depositaria de’ doni della grazia. Il primo procura il benessere temporale; la seconda, la salute dell’anima. L’uno e l’altra debbono esser servi di Dio, e operar di conserva».

A queste dieci proposizioni ne aggiungerò un’altra, non meno importante, che trovo in un libro del dotto sinologo inglese T. Taylor Meadows, la quale è la seguente: «— Nessun popolo, tanto dell’antichità, quanto de’ tempi moderni, possiede una Letteratura sacra, così in tutto esente da narrazioni di cose lascive, e da qualsisia espressione che offenda il pudore, come quella de’ Cinesi».8


Note

  1. A. Severini: La Mor. e la Polit. di Menzio. Milano, 1867. — Intorno a Mencio si consulti anche: P. Noel, Sinensis Imperii Libri sex, Praga, 1711. — Du Halde; Descript. de la Chine, t. ii, p. 334 e seg. — Mém. sur les Chinois, t. iii, p. 45, e t. xiii, p. 21. — S. Julien, Meng-tseu vel Mencium, etc. 2 vol. Paris, 1826. — G. Pauthier; Les Livres sacrés de l’Orient, Paris, 1840. — G. Pauthier; Confucius et Mencius, Paris, 1821. — J. Legge; The Chinese Classics, t. ii; Hongkong, 1862.
  2. II citato missionario fa un’eccezione per la pietà filiale, la quale egli crede che sia in generale praticata a dovere. (Rev. W. Ashmore, nel Chinese Recorder, vol. ii, pag. 285). Ma per l’appunto questa virtù, che è riguardata in Cina come la base della costituzione dello Stato, la sola che sarebbe veramente osservata, anche a detta de’ missionarii cristiani, questi l’han trovata «funesta al progresso del Cristianesimo» chiamandola «barriera quasi insormontabile alle dottrine dell’Evangelo». Rev. Faber, a Systematical Digest of the Doct. of Confucius, pag. 82. — Intorno alla filiale osservanza il lettore potrà ricorrere al bel libro del prof. C. Valenziani: Kau-kau Wau-rai ossia La via della Pietà filiale, testo Giapponese trascritto in caratteri romani e tradotto in lingua italiana con note ed appendice. Roma, tip. Barbèra, 1873.
  3. Chinese Recorder, vol. ii, p. 282-285.
  4. Vedi il cap. vi.
  5. Conf. pag. 361-362.
  6. Vedi a pag. 366.
  7. Conf. pag. 358-359.
  8. T. Taylor Meadows, The Chinese and their rebellions, pag. 396.