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380 | parte seconda |
principe non solo concede il diritto, ma inculca il dovere di spodestarlo. Alla presenza di un re che lo aveva interrogato in proposito, egli professa una tal massima, con le seguenti parole: Se grandi siano le colpe di un principe, i suoi ministri e i parenti devono fargliene ripetute rimostranze, alle quali se da lui non si porga nessun orecchio, essi dovranno deporlo. — Il re impallidì; sicchè Menzio aggiunse: La maestà vostra non se ne conturbi. Interrogato, io non poteva rispondere altro che il vero. — Ma ben più quel re avrebbe avuto ragione d’impallidire, ove Menzio in quella congiuntura fosse venuto, come altrove fece, alla naturale ed ultima conseguenza delle sue premesse. Il popolo essendo giudice del sovrano, potrà condannarlo alla pena da lui meritata. Il nostro savio si fa domandare formalmente: È lecito il regicidio? e la risposta che dà, benchè affermativa, è tale che ci rivela com’ei ravvisasse qualche cosa di sacro nella persona del re. Si direbbe che ricorre ad una restrizione mentale, che vuol troncare il nodo con mutar nome alle cose, che non può ammettere l’enorme fatto senza supporre che nella sacra persona siasi naturalmente operata una degradazione, un cambiamento di natura, una diminutio capitis. Chi spoglia se stesso, dice, delle facoltà e delle virtù inerenti alla propria natura e al proprio carattere, è un ladro, un malfattore; chi è divenuto ladro e malfattore, è divenuto un omiciattolo qualunque: così allorchè Wu uccise il tiranno Ceu, si sentì dire che quell’omiciattolo di Ceu era stato levato di mezzo; non si sentì già dire che fosse stato messo a morte un sovrano.
«Non è tuttavia da credere che Menzio con simili propositi volesse continuamente imbaldanzire il popolo: chè anzi più spesso egli si fa a rammentargli la lunga serie de’ suoi doveri, partendo dal principio che retaggio