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sopravvento. «Mettete tre francesi,» scrive Montaigne, «nel deserto della Libia e non passerà un mese che si batteranno a duello!»
Sant’Ignazio di Loyola sfidava a duello tutti i Mori che avessero negata la divinità del Nostro Signore; il cardinale di Retz, durante la Fronda, si batteva due volte in duello; mentre il cardinale d’Este presiedeva un duello in Ferrara. Ed allora, come ora, come ai tempi della Ristorazione, si duellava per futili ragioni. Melchiorre Gioja afferma1 che «un gentiluomo si battè a duello diciotto volte, per sostenere l’Ariosto essere miglior poeta del Tasso.» Pur è vero, narra il Gioja, che, trafitto infine da punta mortale, confessasse morendo di non aver mai in vita sua letto alcun chè de’ due grandi poeti!
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Ma se muove a meraviglia la pazzia del difensore d’Ariosto, ha da farci strabiliare la futilità delle cause che inducono a duello i nostri contemporanei.
Per convincersene, basta dare un’occhiata alla statistica del duello che da oltre venti anni redigo2 e si rileverà che le cause presunte degli scontri sono da attribuirsi prima alle polemiche giornalistiche, poi ai diverbi, poscia alle dispute politiche, quasi che il buon governo di uno Stato si trovasse concentrato sulla accuminata punta di una spada, o sul taglio bene affilato di una sciabola.
Quei dati, chiaro dimostrano uno fenomeno curiosissimo e cioè, che quanto più ci allontaniamo dal medio evo, l’età classica delle istituzioni cavalleresche, tanto più il duello è frequente.