Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
4 |
sioni, mentre i primi si picchiavano gagliardamente e si uccidevano tra di loro per la vanità, pour se faire mettre dans les chroniques; i secondi, o padrini (leggasi bravi), si scannavano senza rimpianti pour le plaisir du coeur; e senza scrupoli e senza rimorsi, i vincitori si ponevano in due o in tre, talvolta aiutati dai lacchè, a finire quello tra gli avversari che non per anco aveva reso l’anima al Creatore! Allora non si guardava tanto pel sottile:
— In guardia! e giù, botte di stocco e di taglio e pugnalate a non più finire. Non testimoni; non medico. Se a uno si spezzava la spada; se uno scivolava.... era perduto!
La religione, malgrado tanti e tanti sforzi nobilissimi, non aveva ottenuto risultati duraturi. I duellanti andavano alla messa prima del duello, se ne avevano il tempo; magari si confessavano e si comunicavano, se il tempo non mancava; ma se questo era limitato, niente paura dell’inferno; quattro stoccate e uno almeno spirava, rimpiangendo di dover lasciare ad altri la soddisfazione di trapassare l’uccisore.
Non eguaglianza d’armi, non parità di condizioni; ma duello improvvisato, duello alla macchia; vera rissa, nella quale il meno previdente, o il meno disonesto, periva di sicuro.
Questa piaga sociale non era un privilegio esclusivo dell’Italia. La Francia ne era afflitta ben maggiormente, poichè nel 1604, nella Seconda Marca del Limosino, furono proprio 120 i cavalieri che perirono in duello; e a più di settemila sommarono le lettere di grazia spedite tra il 1589 e il 1608, perchè ottomila e più furono i gentiluomini uccisi nel combattimento a due.
Sono cifre queste da fare accapponare la pelle a chi ha l’abitudine di riflettere un poco; tanto più che allora, nel secolo XVI, le qualità morali erano, più che al presente, valutate per essere ammessi a duellare. Ricordo d’aver letto che nel 1534 il patrizio cremonese e capitano cesareo, Sebastiano Picenardi, rifiutava reiteratamente di battersi col proprio concittadino Cesare degli Asii, dichiarando, essersi costui reso «dishonesto et infame,» e a viemmeglio avvalorare il suo rifiuto, appellavasi al giudizio di molti cospicui personaggi dell’epoca. Fra questi nomino: il Castellano di