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del colonnello Fawrett, ucciso, duellando, da suo cognato il tenente Monro, e in Germania la morte del barone Kotze per mano dello Schrader. Alla commozione tenne dietro in tutti e tre i paesi una agitazione minacciosa contro i duellanti. Ma, in Italia, l’agitazione sfumava in una fiacca accademia bizantina; mentre in Germania si trasformava in nuove disposizioni regolamentari e restrittive dell’uso del duello. Solo in Inghilterra, nel paese in cui la gioventù non mente, si raggiungeva l’abolizione assoluta dell’abitudine di duellare.
Lo spirito pratico del principe Alberto, avo dell’Imperatore Guglielmo II, lo indusse a mettersi allora, nel 1843, a capo dell’agitazione antiduellistica ed ottenne che queste idee trionfassero. A tale uopo il Prince Consort si mise innanzi tutto, in relazione col duca di Wellington, il comandante in capo dell’esercito. E s’impegnò allora fra i due un dialogo, che rappresentava due programmi.
— Io — disse il vecchio soldato — sono pure nemico del duello e vedo con piacere che l’opinione pubblica già comincia ad essergli avversa: ma questa corrente è ancora troppo debole e devono succedere ben altre sventure, prima che essa s’imponga.
— Da parte mia invece — rispose il principe — credo sia dovere di noi, uomini di cuore e di mente, di dirigere, di precedere, ove occorra, la pubblica opinione. E poichè nell’esercito le autorità militari hanno una influenza più sicura, è dall’esercito che bisogna cominciare....
La discussione continuò a lungo e venne a prendervi parte il maresciallo sir George Murray, che non voleva saperne di riforme e deplorava si volessero ledere le usanze cavalleresche. E soggiungeva, ma non senza dolore: «Avete la legge, perchè non ve ne servite?»
Il principe Alberto, però, tenne duro e non si dichiarò soddisfatto, se non quando il ministro della guerra aggiunse ai regolamenti, che fanno legge per ogni ufficiale, un paragrafo che diceva e dice ancora:
«È degno del carattere degli uomini d’onore che essi debbano chiedere scusa de’ torti usati e delle offese e dichiararsi pronti a riparare al mal fatto, ed altrettanto è degno
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