I Viceré/Parte prima/7
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Capitolo 7
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VII.
Ogni sera, al capezzale della bambina, tenendola per la manuccia fredda e bianca come di cera, senza fare alcun moto col braccio irrigidito per non destare la piccola dormiente, la contessa vegliava fino a tardi. A notte alta serravano i portoni e nella casa addormentata non s’udiva più alcun rumore; solo dallo stanzino attiguo veniva il leggiero russare della balia accanto al letticciuolo di Teresina. Raimondo non rientrava. Sul comodino stavano schierate le bottiglie dei medicamenti, i vasetti di pomata, tutta la farmacia prescritta dal dottore per la povera malatuccia. Era erpete quell’infermità, dicevano; cattivo umore che si sfogava con eruzioni cutanee, con ingorghi di glandole: tutti sintomi rassicuranti, poichè volevan dire che l’organismo espelleva il principio morboso.
Ella s’era votata alla Madonna delle Grazie, le aveva promesso di vestire il suo abito fino alla guarigione di Lauretta; in cuor suo aveva chiesto un’altra grazia alla Madonna: di illuminare Raimondo, di ridestare il suo affetto di marito e di padre.
Fin da quando erano andati a Milazzo, secondo la promessa fattale al Belvedere dopo il colera, egli aveva ricominciato a smaniare, a mostrarsi infastidito e crucciato, a dichiarare che non poteva restare a lungo lontano da casa sua per gli affari della divisione. Ed ella s’era appena sgravata, stava ancora tra vita e morte dopo un parto difficilissimo, quando, addotta una chiamata del fratello, egli se ne partì. Rimase lontano pochi giorni, ma era la prima volta che l’abbandonava giusto nel momento che la compagnia e l’assistenza di lui le erano più necessarie. La nuova tristezza non giovò certamente a darle forza per vincer presto il male; ma un dolore più grande l’aspettava e i suoi presagi dovevano tutti avverarsi, poichè la creatura che ella aveva portata in grembo mentre il suo cuore agonizzava era venuta al mondo così debole e stremata e cagionevole che pareva da un momento all’altro dovesse mancare. Lunghi e lunghi mesi erano così passati, quasi un anno intero, senza che ella potesse lasciar la casa paterna e il capezzale della bambina: durante quell’anno Raimondo era andato e venuto, partito e ritornato parecchie volte, ed ella aveva a poco a poco fatta l’abitudine a quelle assenze, non potendo seguirlo nè opporsi alle ragioni d’affari che egli adduceva. Quando i medici ordinarono il mutamento di aria alla creaturina convalescente, egli volle condurre tutti a Catania. Anche il barone lasciava Milazzo, andava a Palermo con l’altra figlia Carlotta; perciò Teresina, non potendo restar sola, venne col babbo. Non era parso vero a Matilde di vedere Raimondo premuroso per le figlie, ed ella aveva quasi benedetto le sue sofferenze, se per esse godeva di quella tregua; ma appena arrivata in casa degli Uzeda, aveva visto ricadere la sua figliuolina e Raimondo trascurarla, lasciarla sola in mezzo a quei «parenti» che la guardavano come prima di traverso e, cosa più dura al suo cuore di madre, la ferivano nelle sue bambine. Della più piccola deridevano le sofferenze e predicevano la morte; ma le maggiori ostilità erano contro Teresina. La bambina, vivace, curiosa, inquieta, commetteva spesso qualche monelleria, guastava qualche cosa nei suoi giuochi, gridava allegramente correndo per le stanze; allora la rimproveravano, la mandavano via; il principe diceva d’aver messo Consalvo ai Benedettini giusto per star tranquillo in casa, e invece gli disordinavano tutto, gli toccava udire strilli peggio di prima... Egli era più indulgente per la propria figlia, l’altra Teresina, e tutta la famiglia e gli stessi servi trattavano diversamente le due cuginette, dando il primo posto alla principessina. La stessa principessa Margherita, sola buona e dolce, non poteva nascondere la preferenza per la figliuola; e Matilde, benchè riconoscesse che avevano ragione, soffriva di questa disparità di trattamento.
Teresina sua, a sei anni, era vana come una donnina: si guardava a lungo allo specchio, assisteva all’acconciarsi della mamma sgranando tanto d’occhi, andava matta pei nastri, per gli spilloni, per le pezze vecchie; e la zitellona accusava di questo la civetteria di sua madre, scoteva la testa predicendo male dell’avvenire, faceva piangere la contessa a quella specie di malìa operata contro l’innocente. Incrudelivano su lei per un’altra ragione, adesso; perchè il viaggio del barone a Palermo aveva lo scopo di combinare il matrimonio dell’altra figlia Carlotta. Pretendevano che questa non si maritasse, che ella s’opponesse ai disegni del padre, alla felicità della sorella, affinchè tutta la sostanza paterna restasse un giorno a lei! E poichè simili calcoli non capivano nella sua mente, la guardavano in cagnesco, la martoriavano nelle sue bambine, quasi ella avesse loro portato via qualcosa....
Raimondo, in verità, non mostravasi per nulla crucciato dei disegni di matrimonio; ma ricominciava a trascurarla, scappava via subito dopo colazione, tornava al finire del desinare per andar fuori un’altra volta fino a notte tarda. A veder maltrattate le sue figlie, Matilde sentiva le lacrime salirle agli occhi; si chiudeva in camera con Teresina, la scongiurava di star buona, si studiava di trattenerla quanto più a lungo era possibile perchè non tornasse di là; nè quando Raimondo rincasava ella accusava i parenti di lui, per evitargli un dispiacere, perchè non dicessero che veniva a seminar zizzania in famiglia: lo pregava soltanto di non lasciarla sempre sola.... L’ostilità degli Uzeda verso di lei, i rimproveri e gli scherni rivolti alle sue bambine, tutto le sarebbe parso nulla, se la gelosia non fosse tornata a roderla. Egli aveva ripreso a corteggiare la Fersa, andava a trovarla in casa, tutte le domeniche in chiesa s’incontravano alla stessa messa: ed ella non poteva più pregare, vedendosi dinanzi costei, comprendendo che egli non l’aveva dimenticata, che era di nuovo sedotto dalla sua eleganza, dalla languidezza dei suoi atteggiamenti, dai gesti studiatamente graziosi coi quali portavasi il fazzoletto profumato alle labbra, o agitava il ventaglio di piume, guardandosi attorno, o chinava il capo sul libro delle preghiere senza voltarne mai una pagina!... In chiesa! nella casa di Dio!... Ella non poteva comprendere quella commedia, le pareva un continuo, enorme sacrilegio. E a San Nicola, per la cerimonie della Passione, era venuta con abiti di gala, come ad un allegro spettacolo, facendo voltar la gente con la sconvenienza del suo contegno!... Perchè dunque Raimondo doveva metterle vicino costei, far notare anche lui alla gente un’assiduità che già dava argomento a mormorazioni?... Il giorno di Pasqua, piangendo di dolore e di tenerezza, ella s’era confessata con suo marito, al capezzale di quell’innocente: «Per questo giorno solenne, per amore di questa innocente, giurami che non mi farai più soffrire....» Ed egli le aveva domandato: «Che ti faccio? Di che m’accusi?...» — «Mi lasci, trascuri le tue figlie, non pensi a noi, non ci vuoi più bene....» Scrollando il capo, Raimondo aveva esclamato: «Le tue solite fissazioni, le tue solite fantasie!... Ti trascuro? Come ti trascuro? Quando, perchè, per chi ti dovrei trascurare?...» Per chi?... Per chi?... E con più calore egli aveva ripreso: «Sicuro, per chi? Ricominci, colla tua sciocca gelosia? Ti sei messa qualche altra fisima in testa?... Per donn’Isabella, eh?...» l’aveva nominata lui! «Ho capito! Perchè le ho ceduto la mia sedia, perchè l’ho invitata con noi!... Ma queste, cara mia, sono regole di buona creanza. Bisognava venire in questa bicocca miserabile per sentirsi rimproverare una cosa simile!...»
E in quell’estate del ’57 fu visto più assiduo coi Fersa; al teatro, dove andava tutte le sere, nella barcaccia, saliva spesso nel loro palco quand’era la loro volta d’abbonamento; li incontrava anche dalla zia Ferdinanda, dalla quale donna Isabella andava spessissimo; al Casino dei Nobili giocava quasi sempre col marito, dal quale si lasciava vincere ogni giorno. Quantunque potesse servirsi della carrozza del fratello, aveva comperato una magnifica pariglia di puro-sangue e un phaeton nuovo fiammante col quale andava dietro alla carrozza dei Fersa: alla Marina, quando c’era musica, scendeva, lasciando le redini al cocchiere, per mettersi al loro sportello e chiacchierare con donna Isabella, con la suocera e col marito. Vestiva con maggiore ricercatezza del solito, non stava mai in casa se non, come per una coincidenza tutta fortuita, quando essi venivano a far visita alla principessa. Il tema del suo discorso era continuamente Firenze, la vita delle grandi città, l’eleganza e la ricchezza degli altri paesi; egli si metteva vicino a donna Isabella, esclamando: «Voi sola mi capite!» quando se la prendeva con la sorte che l’aveva fatto nascere in quella bicocca e ve l’inchiodava, mentre egli non avrebbe voluto metterci i piedi. «Ma che proprio ho da lasciar qui l’ossa? Non credo! Non è possibile!...» E udendolo parlare a quel modo, Matilde chiedeva a sè stessa perchè, dunque, egli non andava via e non manteneva l’altra parte della promessa fattale un anno e mezzo addietro, quella di tornare alla loro casa di Firenze? Per gli affari, forse? Ma quantunque Raimondo non le tenesse discorso di queste cose, ella sapeva che della divisione non si parlava ancora e non si sarebbe parlato per un pezzo.
Prima il colera, poi lo strascico d’inquietudini che la pestilenza aveva lasciato, poi la partenza del fratello, erano state ragioni per le quali il principe non aveva parlato della divisione. Adesso quel nuovo lusso costava a Raimondo; egli chiedeva continuamente a Giacomo somministrazioni in denaro, e questi non gli faceva ripetere le richieste, dimostrando tuttavia che era ormai tempo di procedere alla sistemazione definitiva dell’eredità; ma a Raimondo tornava comodo prendere i quattrini senza stare a far conti, a citare i pagatori morosi, o ad impacciarsi in tutte le noie grosse e piccole dell’amministrazione. Quando il fratello gli esponeva un dubbio, o chiedeva il suo parere intorno alla proroga d’un affitto, alla conclusione d’una vendita, egli rispondeva: «Fa’ tu, fa’ come credi....» L’importante, per lui, era aver denari; alle volte, richiedendone con troppa frequenza, il principe gli diceva: «Veramente, i fattori non hanno ancora pagato; abbiamo avuto molte spese: però, se vuoi, posso anticiparti quel che ti bisogna...» ed egli prendeva i quattrini a titolo d’anticipo o di prestito. Non s’occupava insomma di nulla fuorchè di spendere, con una cieca fiducia nel fratello, la quale faceva andare in bestia don Blasco. Già il monaco, saputo l’affare delle cambiali, aveva gettato fuoco e fiamme contro il principe, dichiarandolo capace d’aver falsificato la firma della madre, perchè «quella bestia di mia cognata era una testa di cavolo, sì, ma non al punto di lasciar debiti da una parte e di serbar quattrini dall’altra.» E aveva ricominciato ad aizzare gli altri nipoti contro «quell’imbroglione,» spingendoli ad impugnare la validità di quegli effetti che chiamava «cavalli di ritorno» perchè, se non erano falsi del tutto, dovevano essere vecchie cambiali ritirate dalla principessa, trovate da Giacomo tra le carte e rimesse a nuovo per la circostanza! Ma poichè quell’altre bestie di Chiara, del marchese, di Ferdinando, di Lucrezia facevano orecchio da mercante — come non si trattasse dei loro proprii interessi! — il monaco quasi quasi era stato sul punto di dimenticare l’antica avversione per Raimondo e di andare a svelargli le magagne del coerede e fratello, a gridargli: «Apri gli occhi, se no ti metterà nel sacco e ti mangerà!...» Vedendo ora che erano tutt’una cosa, si rodeva il fegato notte e giorno, e un ultimo fatto l’aveva inviperito e indotto a strepitare contro «quei pazzi e birbanti» al convento, nelle farmacie, anche per le pubbliche strade con la prima persona capitata. Alla zolfara dell’Oleastro gli Uzeda, scavando scavando, avevano oltrepassato, sotterra, il confine della proprietà superficiale: i proprietarii limitrofi iniziavano quindi una lite. Raimondo, a cui l’apposizione d’una semplice firma in coda alle ricevute ed ai contratti già pesava, mostrò in quell’occasione al signor Marco, che veniva per fargli leggere gli atti della lite, il proprio fastidio per tutte quelle continue «seccature»; allora il signor Marco gli propose: «Vostra Eccellenza perchè non fa una procura al signor principe? Così risparmierà tante noie e le cose anderanno anche più spedite, fin a quando, pagate le sorelle di Vostra Eccellenza, si procederà alla divisione....» Raimondo non se lo fece dire due volte e firmò subito l’atto col quale il principe ebbe mandato d’amministrare l’eredità in nome anche del coerede.
Ora Matilde, sapendo questo, aveva domandato a sè stessa perchè mai Raimondo restava ancora in Sicilia? Se non s’occupava più degli affari, qual altro interesse ve lo tratteneva? Ed ella ricominciava a struggersi di gelosia, vedendolo ancora una volta accanto a quella donna, non potendo soffrire di doverla trattare da amica mentre una voce interiore l’avvertiva di non fidarsene. Ammalata di cuore e d’imaginazione, con la sensibilità eccitata dai dolori continui, ella adesso credeva ai funesti presentimenti, temeva e sospettava di tutto. Nella felice ingenuità di altri tempi, avrebbe ella accolto il sospetto che il principe lasciasse libero Raimondo di fare quel che più gli piaceva e quasi secondasse i suoi vizii, e lo incitasse a giocare e gli procurasse le occasioni di veder quella donna, per distoglierlo dagli affari ed averne solo il maneggio? Un sospetto così triste non le sarebbe neppure passato pel capo quando ella credeva tutti buoni e sinceri; adesso, spaventata degli altri e di sè stessa, non riusciva a combatterlo.... Come respingerlo, se il principe pareva mettere ogni impegno perchè donna Isabella venisse al palazzo Francalanza, mentre la suocera di lei, donna Mara Fersa, cominciava a mostrare una specie di diffidenza per quelle relazioni divenute troppo intime?...
Donna Mara Fersa aveva tollerato molte cose alla nuora palermitana; la rivoluzione messale in casa, il mal nascosto compatimento col quale la trattava, i gusti costosi e le opinioni ardite; ma chiusi tutt’e due gli occhi quando ne soffriva lei stessa, non intendeva chiuderne neppure uno se era in giuoco suo figlio. L’amicizia degli Uzeda, sissignore, stava benissimo e le faceva anche tanto piacere: ma che Raimondo stesse sempre alle costole dell’Isabella, in casa propria o in quella di lei, in chiesa, al teatro ed al passeggio, forse usava a Firenze ed era una cosa elegante, di quelle che ella, educata al vecchio modo, non comprendeva; ma non le piaceva nient’affatto e non intendeva che continuasse. Senza addurne la ragione per non mettere il carro avanti ai buoi, aveva fatto capire al figlio ed alla nuora che, trattando da buoni amici gli Uzeda, non c’era poi bisogno che si spartissero il sonno. Ella predicava ai Turchi: Mario Fersa era più che mai infatuato del principe e del conte, donna Isabella sempre insieme con la principessa, con Lucrezia e con donna Ferdinanda. Allora, vedendo inutili le proprie esortazioni, poco sofferente di sapersi disobbedita e inascoltata in una cosa che la nuora doveva intendere alla prima, donna Mara s’era mostrata, incapace di nascondere quel che aveva in corpo, inusitatamente acre ed ironica verso di lei, e nello stesso tempo aveva dichiarato al figliuolo il motivo delle proprie inquietudini. Tuttavia, per non precisar troppo, s’era mantenuta sulle generali, dicendo che quella vita in comune era pericolosa, che in casa Uzeda, oltre ai tanti uomini che vi bazzicavano, si trovavano due giovani come il principe e il conte accanto ai quali non istava bene che l’Isabella si lasciasse vedere continuamente.... Suo figlio, però, non l’aveva lasciata finire: «Il principe? Raimondo? I miei migliori amici?...» E dall’indignazione passando al riso: «Sospettar di loro? Di due buoni padri di famiglia?...» Nè le ragionate insistenze della madre ebbero altra risposta. Frattanto donna Isabella, al piglio severo, ai modi bruschi subitamente adottati dalla suocera, se prima aveva mostrato di stare in quella casa con una specie di prudente ma dolorosa rassegnazione, prendeva adesso decisamente l’attitudine d’una vera vittima. Con Raimondo, quando questi le diceva la noia, l’infelicità della vita di provincia, ella scrollava il capo, approvava, ma soggiungendo che si poteva star bene anche in una campagna o in un deserto, a patto di sentirsi circondati di premure e d’affetto.... di vedersi intorno persone care... capaci di comprendervi e d’apprezzarvi.... E donna Mara gonfiava, gonfiava, vedendo che niente riusciva, cercando un mezzo più energico per metter fine a quella «commedia.» Fersa, per conto suo, continuava a non accorgersi di nulla, perchè avrebbe negato la luce del giorno prima di sospettar della moglie e di Raimondo, col quale faceva vita insieme e stava tutto il giorno e tutte le sere a chiacchierare o a giocare al Casino o nella barcaccia del Comunale. Egli era più che mai orgoglioso dell’amicizia che gli dimostrava il principe, dei lunghi discorsi che questi gli teneva, mentre Raimondo e donna Isabella discorrevano in un angolo; e cascava poi dalle nuvole quando la madre gli veniva a dire, bruscamente: «Andiamo via, che è tardi!...»
Ora un bel giorno Raimondo, andato a far visita in casa Fersa, e dopo aver visto donna Isabella dietro le vetrate, s’udì rispondere dalla cameriera che non c’era nessuno. Lì per lì, egli rimase; a un tratto fu per dare uno spintone alla porta ed entrare a viva forza; ma riuscito a stento a contenersi, scese le scale ed uscì nella via rosso in viso come per un colpo di sole. Subito aveva capito donde veniva la botta, essendosi già accorto della freddezza di donna Mara; e all’idea della contrarietà e dell’ostacolo, il sangue gli ribolliva nelle vene, gli saliva alla testa, gli faceva veder fosco.... Fin a quel momento, egli aveva cercato la compagnia di donna Isabella perchè gli pareva una delle poche signore con le quali poter discorrere, perchè gli rammentava la società di fuori via, perchè gli piaceva di persona, anche, ma non molto, non tanto da voltar l’animo alla sua conquista. Non l’idea di cagionare la rovina di lei, non l’amicizia del marito gli avevano impedito di pensare a questo; Fersa anzi, con la sua adorazione per la moglie e la cieca fiducia che dimostrava a lei ed a lui, gli pareva destinato alla solita disgrazia; e donna Isabella, con quel suo contegno da vittima, con l’istinto della civetteria che la dominava, con i suoi eterni discorsi sulle anime fatte per comprendersi, doveva provare troppa voglia d’esser compresa. Egli aveva sempre riso dell’amore, della passione; per questo appunto sua moglie lo seccava, per questo non aveva cercato mai altro che il piacere comodo, pronto e sicuro; perciò la previsione delle noie che l’avventura con la Fersa avrebbe potuto cagionargli l’aveva indotto a non spingere troppo avanti le cose. Al Belvedere, pel colera, dove donna Isabella doveva venire e non era poi venuta, egli s’era quasi rallegrato del mancato ritrovo, divertendosi con l’Agatina Galano, quasi interamente dimenticando la lontana. Rivedutala, la tentazione era risorta, e allora i piagnistei di sua moglie l’avevano resa più forte; poi l’opposizione di donna Mara aveva messo nuova esca al fuoco. Era così fatto, che gli ostacoli lo eccitavano, lo rendevano smanioso e restìo come un puledro che sente il morso. Tuttavia s’era contenuto ancora, pensando all’avvenire, ai fastidii sicuri, ai pericoli possibili; ora, di repente, la consegna che gli vietava il passo in casa di lei gli metteva addosso una smania selvaggia di sfondare quell’uscio e di portar via quella donna. L’istinto sanguinario dei vecchi Uzeda predoni l’arrovellava; se avesse potuto, avrebbe fatto un eccesso come quell’avo che s’era buttato coi cavalli addosso al capitan di giustizia. Adesso, non tanto i tempi quanto le circostanze erano diverse; egli non poteva fare uno scandalo, gli conveniva piuttosto dissimulare, ricorrere alla politica ed all’astuzia.... Appena arrivato a casa, scrisse all’amica per dirle che aveva compreso «gl’ingiusti sospetti» dei suoi parenti, per lagnarsi che «in quell’odioso paese» non fosse possibile stringere e mantenere «le relazioni d’amicizia». La lettera fu recapitata per mezzo di Pasqualino Riso, cocchiere del principe, il quale la diede al cocchiere di donna Isabella, che gli era compare. Donna Isabella rispose immediatamente, per la stessa via, querelandosi della «schiavitù» in cui era tenuta, della sospettosa «cattiveria» esercitata su lei, ringraziandolo frattanto dei suoi «delicati» sentimenti, «dell’amicizia» di cui le dava prova e che ella ricambiava «di tutto cuore;» scongiurandolo però di «rinunziare a rivederla» per non urtare la suscettibilità di «certe persone». Era lo stesso che dirgli: «Fate di tutto per trionfare della loro opposizione....» I due cocchieri compari tornarono a vedersi tutti i giorni, a riferire ambasciate verbali: Pasqualino, di piantone all’angolo di casa Fersa, correva al Casino dei Nobili ad avvertire il padrone, che aveva messo lì il suo quartier generale, delle uscite di donna Isabella: così egli la seguiva egualmente da per tutto. Del resto, l’avvicinava ancora alla carrozza e le faceva visita al teatro le rare volte che non c’era la suocera; perchè, sordo agli ammonimenti materni, dolente degli ingiusti sospetti, il marito era con lui come prima, anzi gli faceva maggiori dimostrazioni di amicizia, quasi a scusarsi della condotta della madre, e veniva assiduamente al palazzo. Tutti gli Uzeda pareva si fossero data la voce per proteggere e secondare quei due. Mentre essi parlavano fra loro, in un angolo, il principe o donna Ferdinanda stavano a chiacchierare con Fersa, lo conducevano in un’altra stanza; la zitellona andava attorno con donna Isabella e quando incontrava il nipote si fermava per dargli l’agio di stare con l’amica; meglio, la invitava più spesso a casa e Raimondo non tardava a sopravvenire. Si vedevano anche dagli altri parenti dei Francalanza, dalla duchessa Radalì, dai Grazzeri, più spesso dalla cugina Graziella che era divenuta grande amica di donna Isabella. Tutti poi cospiravano per non lasciare accorgere di nulla la contessa; però, avvertita da una specie di senso divinatore, Matilde comprendeva che suo marito le sfuggiva; e dal dolore si struggeva in pianto. Ora che la sua bambina stava meglio, che ella avrebbe potuto respirare tranquilla, quel pensiero non le dava più pace. Ella sapeva che, a contrariarlo, Raimondo s’incaponiva peggio nei suoi capricci; che, se v’era un mezzo di ridurlo, questo consisteva nel lasciarlo fare di suo capo, ma come rassegnarsi a saperlo pieno di un’altra, a sentirsi un’altra volta guardata con occhio tra curioso e compassionevole da Lucrezia, dalla marchesa, dagli estranei, dai servi? E gli si stringeva al fianco timida e supplice, gli diceva la sua gelosia, lo scongiurava di non farla soffrire se era vero che non pensava a quella donna....
— Maledetto paese! — esclamava con voce concitata suo marito. — Chi mette fuori queste infamie? Sei stata tu stessa? Hai messo in piazza i tuoi sciocchi sospetti, di’ la verità?
— Io?... Io?...
— Vuoi rovinarla, vuoi farmi ammazzare da suo marito?
E allora un altro terrore l’aveva agghiacciata: se anche Fersa si fosse accorto di qualche cosa? Se avesse voluto vendicarsi?... A un tratto, ella vedeva suo marito freddato in mezzo a una strada, con una palla in fronte, con un colpo di pugnale al fianco: tutte le volte che egli tardava a rincasare, giungeva le mani, si premeva il cuore, quasi udendo le grida delle persone di servizio atterrite all’improvviso arrivo del corpo esanime; e accarezzando le sue bambine piangeva come se già fossero orfanelle. Le coceva sopra ogni cosa di non potersi sfogare con nessuno, di non aver qualcuno che la confortasse almeno di una buona parola. Al padre non poteva dir nulla, e gli Uzeda tenevano il sacco a quell’altra; chi non spingeva fino a tanto il rancore contro l’intrusa, restava neutrale, non s’accorgeva neppure di lei.
Don Eugenio aveva già finito e spedito a Napoli la memoria su Massa Annunziata. Portava per titolo: «Intorno la convenienza — di essere intrapreso il discavo — della Sicola Pompei, — ossivero Massa Annunziata, — vetusta terra mongibellese — sepolta nell’anno di grazia 1669 — dalle ignivome lave di quell’incendio vulcanico — con tutte le sue ricchezze che conteneva — memoria sommessa al Real Governo delle Due Sicilie — da don Eugenio Uzeda di Francalanza e Mirabella, — Gentiluomo di Camera di Sua Maestà (con esercizio). La sera, leggeva alla società la sua prosa, sulla brutta copia. C’erano espressioni di questo genere: «Quandocchesia nel 1669 tra le più terribili eruzioni la nostra vi cadendo annoverata.... Dopochè appiacevolirono alquanto i tremuoti.... A quale opera tuttosì in Pompei intentando sì viene.... Non mi s’impunti in superbia alle conghietture azzardarmi....» Erano il frutto di riforme grammaticali da lui studiate. Perchè apostrofare soltanto gli articoli, i pronomi e le particelle? Egli scriveva: «Il flagell’accuorav’i naturali... La lav’avanzavas’incontr’a quel borgo....» Per dar più scioltezza al discorso diceva: «Ne continuando» invece di «continuandone» ed anche «gli proporre» invece di «proporgli....» Don Cono soltanto gli dava retta, discutendo se solenne dovesse scriversi con una o con due elle; tutti gli altri voltavano le spalle a quella bestia che, dopo aver perduto per la sua bestialità due impieghi, aspettava d’esser nominato direttore degli scavi! Don Blasco e donna Ferdinanda, fra gli altri, ma ciascuno per suo conto, glie lo dicevano sul muso, senza tanti riguardi: cantavano ai sordi però, chè il cavaliere era sicuro questa volta d’aver afferrato la fortuna pel ciuffo. Il marchese e Chiara, venendo tutti i giorni a palazzo, era preciso come se non ci fossero; perchè, mentre la gente parlava d’una cosa e d’un’altra, essi ad altro non pensavano che alla prole. Ogni mese, in un certo periodo, Chiara pareva proprio nelle nuvole: non rispondeva alle domande che le facevano, o rispondeva a vanvera; poi traeva in disparte tutte le signore, una dopo l’altra, e sottoponeva loro all’orecchio certi suoi quesiti. Per questo, quando don Blasco andava a casa di lei, incitandola nuovamente contro il principe e Raimondo, non gli dava retta, con la testa scombussolata dalla continua ed intensa aspettazione. Ferdinando, da canto suo, lasciava più che mai cantare lo zio monaco. Felice d’essere assoluto padrone delle Ghiande, vi s’era sbizzarrito a modo suo; a poco a poco però il podere era caduto in rovina, ed egli se n’era accorto. Tutte le cose lette nei libri d’agricoltura aveva voluto provare: appurato, per esempio, che in ogni albero i rami possono fare da radici e le radici da rami, aveva preso a sperimentar la verità, schiantando gli aranci alti e rigogliosi per ripiantarli capovolti: ad uno ad uno tutti gli alberi erano morti. Nondimeno egli non si sarebbe deciso a smettere quelle sue speculazioni, se non ne avesse pensate altre di diverso genere. Fra i molti libri che comperava, glie n’erano capitati alle mani alcuni di meccanica; allora, rammentati gli antichi amori con l’orologiaio, aveva preso un fattore per lasciargli in balìa il podere, e s’era messo a fabbricare ruote ed ingranaggi. Perchè mai l’acqua nelle pompe aspiranti non andava mai più su di cinque canne? Per la pressione atmosferica. Non c’era mezzo di controbilanciarla? Ed aveva costrutto un suo trabiccolo dove, per lavorar di manubrio, l’acqua, non che a cinque canne, non saliva neppure ad un pollice. La colpa fu tutta degli operai che non avevano capito i suoi ordini: egli si mise intorno ad un problema molto più vasto: il moto perpetuo.... Di quel che avveniva in casa, di quel che operavano gli altri non s’impacciava, diradava sempre più le sue visite al palazzo; se non fosse stato per Lucrezia, non ci sarebbe andato mai. Sua sorella, però, se era occupata a far segnali a Benedetto Giulente, non scendeva giù in sala. L’amoreggiamento continuava più forte di prima; in ogni sua lettera il giovane le diceva che il tempo della domanda si veniva sempre approssimando, che fra un anno il loro voto si sarebbe compiuto. Lucrezia, quantunque non ci fosse più quel diavolo di Consalvo, pure, perchè non le frugassero in mezzo alle sue cose, chiudeva a chiave la sua camera quando scendeva al piano di sotto, nè il principe diceva nulla pel disordine che ne derivava.
Così, nessuno dei legatari s’occupava della divisione; e quanto a Raimondo, egli era più che mai intento alla bella vita e ad inseguire donna Isabella in terra, in cielo e in ogni luogo. Pasqualino Riso non faceva quasi più servizio, occupato com’era a spiar le mosse della signora, a portar lettere ed ambasciate: adesso egli pareva un signore, con abiti elegantissimi, catena d’oro al panciotto e anelli alle dita, perchè Raimondo non lesinava nel remunerava chi lo serviva. Gli altri servi ne erano perfino gelosi: il sotto-cocchiere, specialmente, a cui toccava tutta la fatica, e Matteo il cameriere. Essi parlavano a denti stretti della fortuna capitata al compagno, non capivano come il principe lo pagasse senza averne poi nessun servizio, lasciandolo a disposizione del fratello; e dal dispiacere quasi voltavano casacca, perchè, mentre prima erano contrarii alla contessa, adesso la compiangevano, dicevano che non meritava quel tradimento e quel trattamento....
L’acredine degli Uzeda contro la Palmi diveniva veramente troppo viva, esercitavasi specialmente sulle figlie, perchè i mali tratti usati a queste addoloravano la contessa più che quelli diretti personalmente a lei. V’erano giorni terribili, quando donna Ferdinanda alzava la mano su Teresina, che ella passava a piangere come una bambina, a bere le sue lacrime perchè non cadessero sulle lettere che scriveva al padre per nascondergli il proprio dolore, per dargli a intendere che era felice...
Ai primi di settembre, avvicinandosi la villeggiatura, il barone giunse da Milazzo per vedere le nipotine e condurre tutti con sè nelle sue campagne, dov’era venuto anche il promesso di Carlotta: il matrimonio si sarebbe celebrato fra un anno. Il principe lo volle ospite al palazzo, anche gli altri che erano tanto duri per la figlia lo accolsero con un certo garbo, quasi per non lasciargli sospettare la mala grazia usata con lei.... Nè egli le lesse in viso i lunghi patimenti; superbo di quella parentela, della nobiltà di quella casa, s’affermava nell’idea d’aver assicurato la felicità di Matilde. Questa, all’arrivo del padre, all’annunzio che egli veniva per condurli via tutti, ricominciò a tremare per un’altra ragione, per l’antica paura che tra il padre e il marito scoppiasse la guerra. Raimondo non si sarebbe rifiutato di seguire il suocero?... Invece, improvvisamente, un raggio di sole brillò nella sua lunga tristezza: all’invito del barone Raimondo rispose ordinando che preparassero le valigie. Era niente, quel consenso; non poteva rassicurarla, giacchè in città nessuno sarebbe rimasto, in quella stagione, e la Fersa andava come gli altri anni a Leonforte; pure, nell’angustia a cui era ridotta, l’idea di andar via dalla casa degli Uzeda, di tornar da suo padre, per consenso e in compagnia di Raimondo, le faceva trarre liberamente il respiro.
Il principe invitò tutti al Belvedere. Lì però le cose non andarono molto bene, e i primi a provocare i dissidi furono Chiara e il marchese Federico. Cominciando a perdere la speranza di quel figlio tanto aspettato, quasi vergognosi di aver annunziato ogni momento una gravidanza che non si confermava mai, marito e moglie erano ormai pieni d’una malinconia che a poco a poco diventava una specie d’irritabilità, d’izza latente e senza oggetto determinato. La marchesa, per suo conto particolare, non poteva rassegnarsi alla mancata maternità, se n’accusava come d’una colpa, e per farsi perdonare dal marito, se prima aspettava ogni sua parola come quella d’un oracolo, adesso preveniva i suoi giudizii, intuiva le sue volontà. Egli non aveva il tempo di voltarsi, per esempio, al soffio molesto spirante da una finestra aperta, che Chiara già gridava alle persone di servizio di chiudere ogni cosa, minacciando di cacciar via tutti al rinnovarsi della trascuraggine; in conversazione, quando qualcuno raccontava un fatto o manifestava un’idea, ella leggeva negli occhi al marito se la cosa non gli andava a verso, e allora ribatteva vivacemente prima che egli avesse ancora aperto bocca. Federico, per non esser da meno, si mostrava dello stesso umore di lei, e così tutte le liti che evitavano tra loro le attaccavano invece con gli altri. Ora l’inizio della guerra col principe, del quale erano ospiti, fu l’affare del legato alla badìa di San Placido. Ostinandosi Giacomo a considerarlo nullo per la mancanza dell’approvazione regia, la Madre Badessa aveva chiamato gli avvocati del monastero, i quali ad una voce dichiararono che le ragioni del principe non valevano un fico secco; che la principessa, buon’anima, non aveva niente affatto istituito un benefizio, ma lasciata un’eredità cum onere missarum; quindi che mancava assolutamente la necessità dell’approvazione regia, quindi che il principe doveva metter fuori le due mila onze; questi invece si incaponiva nell’altra interpretazione, e la povera Suor Crocifissa piangeva sera e mattina. In un momento di malumore, viste inutili le trattative amichevoli, la Badessa aveva confidato al marchese ed a Chiara un’altra birbonata del principe: donna Teresa, felice memoria, prima di partire pel Belvedere, donde non doveva più tornare, le aveva affidato, perchè la custodisse nel tesoro della badìa e la consegnasse al signor Marco, il quale doveva poi darla a Raimondo, una cassetta piena di monete d’oro e d’oggetti preziosi: appena spirata la madre, Giacomo s’era presentato per ritirare il deposito; e poichè ella aveva opposto qualche difficoltà, era tornato col signor Marco, al quale non aveva potuto rifiutarlo...
Marito e moglie restarono un poco scandalizzati, ma non si sarebbero amossi, se la Badessa, per tirarli dalla sua, non avesse loro detto che il glorioso San Francesco di Paola non aveva più reso fecondo il loro matrimonio e che la prima gravidanza era andata in fumo, perchè essi lasciavano consumare il sacrilegio in danno della badìa. Con questa pulce nell’orecchio, si rivoltarono tutt’e due contro il principe, ma specialmente Chiara persuadeva il marito delle birbonate del fratello. Il marchese chinava il capo alle ragioni della moglie, e a poco a poco dalla fondazione delle messe e dal carpito deposito venivano alle altre quistioni dell’eredità: alla divisione arbitraria, al numerario sottratto, ai conti rifiutati, alla pretesa che la finta apoca dell’assegno facesse fede dell’avvenuto pagamento, a tutte le ragioni di don Blasco, il quale scendeva apposta da Nicolosi per soffiar nel bossolo. Fra sette mesi si sarebbero compiuti i tre anni dalla morte della madre, dopo i quali le donne dovevano riscuotere la loro parte, che il principe, quantunque avesse promesso di pagare anticipatamente, teneva ancora per sè; bisognava dunque mettere presto in chiaro tutte quelle cose, stabilire quel che veramente toccava loro. Ma reciprocamente persuasi che, se non reclamavano, Giacomo li avrebbe messi in mezzo, nè la moglie nè il marito osavano lagnarsi direttamente col fratello e cognato, tanto era forte l’istinto del rispetto verso il capo della casa. Chiara però, volendo dimostrare il proprio zelo, si mise ad istigare Lucrezia, perchè poi questa cercasse di trarre dalla sua anche Ferdinando: ella si chiudeva in camera con la sorella, o la tirava in un angolo, per dirle tutte le ragioni dello zio monaco, aggiungendo che lei, Lucrezia, era la più sacrificata di tutti, poichè, continuando la politica della madre, Giacomo non l’avrebbe maritata, o l’avrebbe maritata il più tardi possibile, per restar padrone d’amministrar la dote. Lucrezia, non comprendendo nulla degli affari, la lasciava dire, rispondeva: «La vedremo!... Ho da dire anch’io la mia!...» Non confidava alla sorella di voler bene a Benedetto Giulente, nè avrebbe dato retta alle istigazioni di lei, come non ne aveva dato a quelle dello zio monaco, se il principe, accortosi di quei secreti conciliaboli, di quei tentativi di congiura fatti nella sua propria casa, mentre godevano della sua ospitalità, non avesse trattato più freddamente le sorelle e tolto il saluto a Giulente. Lucrezia, risaputolo e consultatasi con la cameriera, la quale disse che era tempo di farsi sentire se il principe si portava male anche col «signorino,» aprì l’orecchio alle ragioni di Chiara. La sorda ostilità tra fratello e sorelle s’inasprì al ritorno dal Belvedere, quando Lucrezia cominciò a lagnarsi con Ferdinando, per farlo entrare nella lega. Allora entrò in scena Padre Camillo, il confessore.
Tornato da Roma dopo la morte della principessa, il Domenicano era rimasto, con stupore di tutti, confessore del principe come ai tempi della madre. Giacomo non solamente s’accostava al sacramento della penitenza ogni mese, ma chiamava in casa il Padre spirituale, prendeva consiglio da lui come aveva fatto donna Teresa, e don Blasco fiottava contro «questo collotorto Gesuita» che, dopo aver fatto da spia alla madre, faceva ora da spia al figliuolo, ragione per cui «quel ladro» di Giacomo non lo aveva preso «a calci nel preterito.» Ma Padre Camillo, tutto Gesù e Madonna neppure udiva le diatribe del Cassinese; e presa un giorno a parte Lucrezia, le cominciò un lungo discorso per dirle che dichiararsi malcontenta del testamento materno era un peccato eguale a quello di disobbedire alla madre morta. La principessa, da madre saggia e giusta, aveva ripartita la sua sostanza «con la bilancia» perchè al cuore di una madre tutti i figli dovevano essere «egualmente cari». Certo il principe e il conte avevano ottenuto una parte privilegiata; ma erano appunto il principe, cioè il capo della casa, l’erede del titolo, e il conte, cioè quell’altro dei figli maschi che aveva una famiglia da mantenere con lustro. Per gli altri, la sant’anima aveva fatto le parti eguali «fino all’ultimo baiocco.» Le davano a intendere che avrebbe potuto aver terre, invece di moneta? Egli citò l’antichità, i testamenti dei defunti principi di Francalanza, l’istituzione fedecommissaria e la legge salica, portando ad esempio quel che era avvenuto nella generazione precedente. Donna Ferdinanda aveva forse avuto beni stabili? Adesso, sì, ne possedeva, ma perchè, dotata di quello spirito di accorta prudenza che era tradizionale nella famiglia, aveva moltiplicato il capitale lasciatole dal padre, invertendolo successivamente in beni immobili. C’era anzi di più: chi aveva preso moglie, fra tutti quei figli? Nessuno! Don Blasco, con vocazione «esemplare», aveva rinunziato agli adescamenti del mondo per professarsi. La primogenita s'era chiusa a San Placido, nè il duca e don Eugenio avevano preso moglie, nè donna Ferdinanda marito. Perché? Perché essi si consideravano come semplici depositarii della loro parte di fortuna! Nella presente generazione, la regola aveva avuto due eccezioni: il conte che aveva sposato donna Matilde, Chiara che era diventata marchesa di Villardita. Ma qui rifulgeva lo zelante amor materno della principessa. Non tutte le persone son fatte ad un modo; ciò che ad uno pare soverchio od inutile è ad altri necessario; chi si contenta di uno stato e chi ne soffre. La buon’anima aveva compreso che per la felicità di Raimondo il matrimonio era necessario, quindi gli aveva dato moglie, senza badare a sacrifizii. Per Chiara, una propizia occasione erasi presentata, ed a fine d’assicurare la felicità di quella figlia la principessa le aveva perfino forzato la mano: adesso il tempo dimostrava da qual parte fosse stata la ragionevolezza! Quanto a lei, Lucrezia, Dio aveva permesso che sua madre morisse prima del tempo in cui avrebbe dovuto pensare all’avvenire di lei; ma, se questa era stata una gran disgrazia, non voleva dire che l’avvenire di lei non stesse a cuore al fratello maggiore. Era strano parlare a una ragazza di certe cose, ma la necessità lo stringeva. Certo il desiderio della santa memoria, desiderio ragionatissimo, fondato sopra argomenti positivi e non sopra capricci, era che ella restasse in casa; ma poniamo che un giorno ella avrebbe creduto pel proprio meglio di fare altrimenti, le davano forse a intendere che, volendo ella maritarsi, il principe le si sarebbe opposto? Quando si fosse presentata l’occasione di accasarla bene, col decoro conveniente al suo nome, il principe non l’avrebbe lasciata sfuggire. Ma bisognava aver fiducia in lui, esser sicura che egli non poteva desiderare altro che il bene della sorella, considerandosi investito d’una specie di tutela morale. E non dare l’esempio d’un dissidio funesto, che sarebbe stato di scandalo in questo mondo, e d’infinita amarezza alla sant’anima nel mondo di là....
Mentre il confessore teneva questo discorso a Lucrezia, il principe ne teneva un altro un poco diverso a donna Ferdinanda. La zitellona, pure vituperando i Giulente, s’era col tempo assicurata sulle loro pretese; quella bestia del duca non essendo più lì a secondarle, ella credeva che l’amoreggiamento fosse finito del tutto. Invece un giorno che si parlava della responsabilità dei capi di famiglia quando in casa vi sono ragazze da marito, Giacomo disse alla zia che anche Lucrezia avrebbe dovuto un giorno o l’altro accasarsi, che da parte sua l’avrebbe lasciata libera di prendersi chi meglio le piaceva, tanto più che una scelta ella doveva averla già fatta.... La zitellona, a questo, si rivoltò come un aspide:
— Ha scelto? Ha scelto? E chi è che ha scelto?
— Chi? Il solito Giulente!...
Ella diventò rossa in viso quasi fosse sul punto di soffocare.
— Ah sì?... Ancora?... E tu l’hai lasciata fare?
— Vostra Eccellenza sa bene come siamo tutti di casa — rispose il principe, sorridendo. — Quando ci mettiamo qualcosa in capo, è difficile ridurci a mutar sentimento....
— Ah, è difficile? Le farò veder io se è difficile o è facile!...
Da quel momento la zitellona diventò una vipera con la nipote: le sgridate, per una ragione o per un pretesto qualunque, s’udivano fin giù nelle scuderie; le allusioni ironiche ai romanzetti fioccavano acri e pungenti, gl’insulti contro i Giulente si seguivano e non si rassomigliavano. Diceva cose enormi dei vicini, li accusava d’ogni porcheria e perfino di crimini. Non si contentava più di dire che erano ignobili, affermava che il nonno del vecchio Giulente aveva accumulato i primi quattrini facendo il bottinaio a Siracusa, suo figlio aveva rubato il municipio, suo nipote il governo, tutte le donne erano state altrettante baldracche.... Lucrezia la lasciava dire. Non capivano che più s’accanivano contro Giulente più ella pensava a lui, che ogni discorso diretto a distoglierla dal suo proposito glie lo ribadiva in capo più saldo. «Sposerò Benedetto, o nessuno», diceva alla cameriera, dopo quelle sfuriate. «Hanno voglia di gridare; quando sarà l’ora, lo sposerò.» Il principe intanto, dopo averle sciolto contro quel cane, la trattava meno duramente. Un giorno che la donna portava una lettera di Giulente alla padroncina, egli le tolse la carta di mano, ne lesse l’indirizzo, e glie la restituì. Donna Vanna corse dalla signorina per dirle, ansante: «Vostra Eccellenza stia di buon animo! Vuol dire che ci ha piacere, che finalmente s’è persuaso...» Egli aveva anche raggiunto lo scopo di rompere la lega tramata contro di lui, perchè il marchese Federico, fanatico della nobiltà quanto gli Uzeda, udendo che la cognatina incaponivasi nel voler sposare Giulente, aveva dimostrato il proprio dispiacere per quel partito; allora sua moglie s’era schierata con la zia contro la sorella, dandole della stravagante, accusandola di pazzia. Lucrezia invece, sfogandosi con Vanna, rammentava le smanie, i pianti, gli svenimenti di Chiara quando l’avevano costretta a sposare il marchese: «E adesso si mette con quelli che vogliono costringere me! Non m’importa della sua opposizione! Una pazza di quella fatta! Una bandiera al vento! Ora è tutt’una cosa col marito che prima non poteva sentir nominare; domani cambierà un’altra volta: vedrai!...»
In mezzo a quella guerra, tornò Raimondo da Milazzo, senza la famiglia. Non s’occupò neppure un quarto d’ora della casa e dei parenti; appena arrivato si chiuse con Pasqualino, il domani fu visto seguire in chiesa la Fersa; le mormorazioni dei servi, dei curiosi, degli scioperati del Casino dei Nobili ricominciarono. Aveva detto a sua moglie che sarebbe rimasto lontano una settimana, per affari, ma dopo due mesi non le annunziava ancora il ritorno. Alle lettere di lei rispondeva chiedendo tempo, o non rispondeva affatto; in carnevale, Matilde lo raggiunse, accompagnata dal padre. Egli l’accolse con tre parole, pronunziate freddissimamente:
— Perchè sei venuta?
Aveva combinato una serie di divertimenti con gli amici che gli davano mano; il giovedì grasso, in un carro rappresentante un vascello dove tutti erano mascherati da marinai, passò e ripassò sotto la casa di donna Isabella, scagliando fiori e confetti per un quarto d’ora ogni volta contro i suoi balconi; il sabato, a una festa a contribuzione data nelle sale del municipio, ballò tutta la sera con lei; il lunedì ricominciò, al veglione del Comunale. E Matilde, lasciata sola dal padre che era andato a raggiungere le bambine, ripeteva tra sè quella domanda, le sole parole che egli aveva trovato per rispondere alla premura di lei: «Perchè sono venuta?» Per assistere a questo!... Egli dunque continuava a fingere, a mentire, ad ingannarla; anzi, neppure se n’era data la pena! Appena arrivato a Milazzo, aveva smaniato come un pazzo contro la vita di quella spelonca, l’aveva torturata con lagnanze, con rimproveri, con un malcontento quotidiano, con un malumore di tutti i momenti, finchè non era riuscito a scappare. Ma ingiustizie, mala grazia, ella gli avrebbe perdonato ogni torto, tanto gli voleva ancora bene; gli perdonava perfino l’indifferenza con la quale trattava le sue figlie, le innocenti creature che erano sangue suo! Ma vederselo sfuggire, ma saperlo tutto d’un’altra, ma ritrovare sulla persona di lui il profumo degli abiti, delle mani, dei capelli di quell’altra; questo no, ella non poteva soffrirlo!
— Ah, ricominci? Sei dunque venuta per rompermi di nuovo la testa? — rispondeva egli ai suoi tentativi di rimostranze, ai suoi timidi rimproveri. — Perchè non te ne sei rimasta con tuo padre, dunque?
— Perchè io debbo stare con te, perchè il mio posto è al tuo fianco, e perchè nemmeno tu devi lasciarmi!
— E chi ti lascia? Se volessi lasciarti, ti pare che sarebbe troppo difficile? A quest’ora avrei fatto le valigie, e me ne sarei andato a Firenze, a Parigi, o a casa del....
— Andiamo via insieme! Perchè non torniamo a Firenze? Abbiamo lí la nostra casa....
— Perchè in questo momento ho qui da fare!
— Se hai dato la procura a tuo fratello....
— Ho dato la procura per gli affari ordinarii dell’amministrazione; ora bisogna venire alla divisione e pagare le mie sorelle, perchè compiscono tre anni dall’aperta successione: hai capito? O vuoi fatto il conto? Mia madre è morta nel maggio del ’55 e siamo nel marzo del ’58.... Sono tre anni, sì o no? Vuoi saper altro?
— Perchè mi parli così? Che t’ho detto di male?
— Nulla! Nulla! Nulla! Soltanto, ti pare che sia un bel gusto sentirsi rotto il capo ad ogni poco con questi sospetti continui?
— No, no; non lo farò più.... non ti dirò più niente....
Egli sarebbe stato capace di porre in atto la sua minaccia, di abbandonarla, di abbandonar le sue figlie!... Per questo gli nascondeva il proprio dolore, vedendolo continuare peggio di prima, come se ogni rimostranza fosse stata invece un incitamento. Adesso dicevasi che anche Fersa aveva finalmente dato ascolto alla madre, aprendo gli occhi, facendo capire al conte che quelle assiduità non gli piacevano; e infatti non conduceva più sua moglie dagli Uzeda, nè si vedeva più Raimondo avvicinare donna Isabella in pubblico; viceversa egli seguiva la carrozza dei Fersa con la propria da per tutto, quasi inseguendoli; e in chiesa, al teatro, le si piantava dirimpetto, senza più lasciarla con gli occhi.
Un giorno la cugina Graziella, venuta al palazzo a chieder del principe, si chiuse con lui per dirgli:
— Cugino, debbo tenervi un discorso molto grave.... — da molti anni, da quando Giacomo aveva preso moglie, si davano del voi. — — Donna Mara Fersa mi ha fatto parlare da un’amica.... per questa storia di Raimondo!
— Quale storia? — domandò il principe, quasi non comprendendo.
— Non sapete quel che si dice?... Raimondo s’è messo in testa d’inquietare donna Isabella.... e se ne accorge ognuno, per dire il fatto della verità....
— Io non mi sono accorto di niente.
— Non importa, cugino; ve lo dico io!... Ed è una cosa che non sta bene e che mi dispiace.... Un tempo, s’incontravano spesso in casa mia, ed io li ricevevo a braccia aperte. Potevo sospettar niente di male? Altrimenti non mi sarei prestata ad una cosa simile! Raimondo è padre di famiglia, donna Isabella ha marito anche lei: che vogliono fare?... In casa Fersa c’è guerra scatenata tra suocera e nuora: bisognerebbe persuadere il cugino a farla finita, una buona volta.
— E perchè lo dite a me? — rispose Giacomo, stringendosi nelle spalle.
— Perchè? Perchè io non ho molta confidenza con Raimondo.... e poi, sarebbe meglio che gli parlaste voi, che siete il capo della casa, e potete....
— Sbagliate. Io non posso nulla: qui ciascuno fa a modo suo. Altro che capo! Persuadetevi che per poco non sono la coda!...
La cugina tornava a invocare l’autorità del cugino, il principe a lagnarsi della mancanza d’accordo che c’era in quella famiglia, mentr’egli invece avrebbe voluto che tutti fossero uniti, affezionati l’uno con l’altro, disposti ad aiutarsi, a consigliarsi vicendevolmente.
— Volete che io parli a mio fratello? È capace di rispondermi: «Di che cosa ti mescoli?» E non sarebbe la prima risposta di questo genere.... Cara cugina, voi sapete che teste quadre sono le nostre!... No, no, credete a me: sarebbe inutile, se non peggio.
La cugina, a cui non pareva vero di poter mettere le mani in pasta, ricominciò quel discorso con la principessa.
— Dici davvero?... — esclamò donna Margherita, la quale non si era avvista mai di niente. — Povera Matilde!... non meritava questo trattamento!
— È quel che dico io! Con una moglie tanto graziosa, non si capisce perchè Raimondo cerchi distrazioni fuori casa.... Ma la testa degli uomini: chi sa leggere in questo libro?... Mi dispiace quanto l’anima! Due famiglie disturbate, mentre avrebbero potuto vivere in pace ed armonia!... Basta, il cugino dovrebbe adesso persuadersi di lasciar quieta donna Isabella. Per me, non avrei difficoltà di dirglielo a viso aperto: non ho già paura che mi mangi! Ma sai bene: è vero che siamo cugini; ma che si potrebbe dire, che io cerco di mettere il naso negli affari altrui? che cerco di seminar zizzania? mentre sa Dio se mi dispiace, davvero?...
La principessa scrollava il capo, sinceramente addolorata, tanto più che non poteva far nulla. Suo marito non le aveva ingiunto di badare ai casi proprii, sotto pena di averla a far con lui?... E la cugina Graziella cominciò ad armeggiare intorno a Matilde, deliberata di dire ogni cosa a lei stessa. Non era la moglie? Chi più di lei poteva aver diritto di parlare a Raimondo e interesse a distoglierlo da quella tresca?... Riuscita una sera a capitarla sola nella Sala Rossa, cominciò a chiederle notizie del barone, e del matrimonio della sorella, e della salute delle bambine.
— Verranno qui, o andrete voi a raggiungerle?
— Non so, — rispose Matilde, imbarazzata. — Non so che deciderà Raimondo.
— Capisco! — rispose la cugina, sospirando. — Gli uomini vogliono far di loro capo... oggi una cosa, domani un’altra... Voi, naturalmente, vorreste andare al paese vostro, insieme con vostro padre. S’ha un bel dire, la famiglia del marito, sì, sì, sì, ma la propria non si dimentica mai! Anche il cugino dovrebbe persuadersi ad andar via di qui... sarebbe molto meglio... anche per lui...
Matilde chinava il capo, evitando di guardarla, stringendo una mano con l’altra. La cugina continuò:
— Anche per lui.... si leverebbe dalle tentazioni.... penserebbe soltanto alla sua famiglia!... Avete ragione d’essere inquieta, capisco, poveretta... Non meritavate un simile trattamento.... Ma voi dovreste dirglielo!... Siete sua moglie, insomma, la madre dei suoi figli.... Potete parlar alto.... obbligarlo a finirla, una buona volta!...
Con tutto il sangue alla fronte, la contessa aveva chiuso gli occhi; poi s’era sentita agghiacciare e impallidire; a un tratto portò le mani al viso e ruppe in singhiozzi.
— Signore!... Cugina!... Che avete?... Santo Dio!... Cugina!...
— Io!... Io!... — balbettava Matilde, con le labbra amaramente contorte dall’ambascia. — Io che piango da due anni.... Io che non ho più figlie.... Io che l’ho pregato come si prega Gesù!...
— Bontà divina!... Avete ragione!... Ma zitta, non piangete così.... Cugina mia, fatevi animo.... Solo alla morte non c’è rimedio!... Del resto io non credo che ci sia stato nulla di male!... Chiacchiere della mala gente!... Raimondo è un po’ scapato; ma, questo? Non posso credere! La colpa, com’è vero Dio, è di quell’altra... Le piace farsi corteggiare un poco, ma dal conte di Lumera, figuriamoci! Pura vanità, statene certa e sicura! Ma non piangete!... Queste cose, santo Dio, mi fanno male.... Una famiglia così bella, dove avrebbe potuto esserci la pace degli angeli, con due veri angioletti che sembrano scesi dal Paradiso!... Ma vostro marito deve saperlo; vedrete che capirà.... Perché non chiamate vostro padre? Lui ha da aiutarvi...
Il barone, invece, le scriveva rimproverandole l’abbandono delle figlie, accusandola di voler più bene al marito che a quelle creature, chiamandola a casa per assistere al matrimonio della sorella. Ella tentò ancora nascondergli la tempesta scatenatasi su lei, la tortura a cui la poneva con quelle accuse; ma nell’autunno egli venne a trovarla, improvvisamente, solo.
— Che cosa succede? Sei ammalata? Che cos’ha tuo marito? Perchè non m’hai scritto? Perchè non sei venuta?
Ella protestò che non accadeva nulla, che s’era sentita poco bene, che appunto per questo non aveva potuto andar da lui. L’imminenza d’una spiegazione tra suo padre e Raimondo l’atterriva; conoscendo il carattere prepotente, i modi sprezzanti di suo marito, e gli scatti d’ira di cui suo padre era capace, ella viveva con l’animo sospeso, dimenticava i suoi dolori per evitare uno scoppio, tanto più che il barone pareva non aver creduto alle sue proteste, mostrava un viso aggrondato in quella casa che prima era stato superbo d’abitare. Adesso stava molto fuori, tornava con ciera più rannuvolata, non rivolgeva la parola a Raimondo. Una sera si chiuse in camera con lei e le disse:
— Mi vuoi dire finalmente quando la smetterai? Non negare, è inutile; so tutto....
Ella tremava in tutta la persona, balbettando:
— Che sai? Io non capisco.... non so nulla....
— So che tuo marito fa una bella vita, ti dimostra un grande amore,— esclamò il barone con voce gravida di sorde minacce. — Ho ricevuto una lettera anonima; sono venuto per questo.... La buona gente non manca!... Ma poichè tu non parli.... poichè non ti confidi a tuo padre!... Adesso bisogna mettere le carte in tavola, hai capito? — e picchiò forte con una mano contro l’altra.
— Sì, sì, non t’inquietare....
Ella non sapeva adesso donde le venisse quella calma sovrumana, quella forza di negare la cagione del suo lungo cordoglio: — Non t’inquietare, non vedi come sono tranquilla?... Te lo giuro, non so nulla.... Saranno calunnie.... v’è tanta cattiva gente!... Un anonimo!... Prendi sul serio quel che scrive un anonimo?...
Il barone passeggiava per la camera facendo scoppiare l’indice contro il pollice, volgendo intorno accigliato gli sguardi.
— Tanto meglio!... Tanto meglio!... Ma qui bisogna finirla con questo andirivieni continuo! Bisogna decidersi a stare in un posto qualunque, ma stabilmente, a casa propria, coi figli, come tutti gli altri cristiani....
— È quello che diciamo anche noi.... Credi forse che non ne siamo persuasi?... Raimondo vuol tornare a Firenze; ci saremmo già se non fossero gli affari della divisione, il pagamento delle mie cognate.... E sorridendo soggiunse: — Ti pesano forse, le bambine?
— Non far la stupida. Con me, sai, non ci riesci.
Ella sentiva in ogni parola del padre, in quell’impeto a stento frenato, che egli aveva acquistato la certezza del tradimento di Raimondo, di qualche cosa di più grave ancora; e il cuore le si chiudeva, le si chiudeva, come in una morsa, e le forze l’abbandonavano, e un brivido ricominciava a correrle per tutta la persona. Trasalì a un tratto udendo Raimondo che picchiava all’uscio, chiamandoli.
— Che fate? — domandò egli entrando, guardandoli curiosamente.
— Nulla....
— Nulla, — ripetè il barone. — Si parlava della decisione che dovete prendere.... Vuoi continuare a star senza casa, a pagar quella di Firenze per tenerla chiusa?
— Io? — rispose Raimondo, con tono stupito, come cascando dalle nuvole. — Io, se potessi, — proruppe, — a quest’ora sarei scappato anche a piedi da questo fetido paese. Ah, vi pare forse che ci stia per mio gusto, in mezzo a questi sciocchi, presuntuosi, ignoranti, pezzenti, invidiosi, maleducati?... — Nessuno lo teneva, mai s’era scagliato con tanta violenza contro i proprii concittadini; gestendo vivacemente, quasi gli contraddicessero, sfilava la litania delle recriminazioni, comprendeva nel proprio disgusto tutta la Sicilia, tutto il Napoletano, l’intera razza meridionale.
— Allora, quando hai deciso di partire? — interruppe secco il barone.
— Quando?... — ripetè Raimondo, guardandolo un momento. — Non sapete che sono incatenato dagli affari?
— Gli affari, volendo, si sbrigano in otto giorni.
Raimondo tacque un poco; poi esclamò, stringendosi nelle spalle: — Sbrigateli voi, se potete.
Il barone fece per replicare, ma la parola vivace gli rimase in gola. Raimondo, piccolo, minuto, elegante, dominava con gli sguardi sprezzanti, con l’espressione sottilmente ironica del viso bianco e delicato, la persona forte e vigorosa del suocero, dalle spalle quadrate, dai polsi nodosi, dalla faccia abbronzata. Si guardarono un istante, mentre Matilde, impallidita, batteva i denti, come per febbre; poi il barone guardò sua figlia, vide lo sguardo smarrito che gli volgeva, e allora chinato il capo, mormorò:
— Va bene.... va bene.... Procura soltanto di far presto.... Fra giorni si marita mia figlia; vi aspetto....
Ripartì il domani. Sul punto di andar via, disse a Matilde di tenersi pronta, risoluto com’era a condurla con sè, anche sola, per costringere il genero a raggiungerla. Ella chinò il capo, consentendo, gettandogli le braccia al collo dalla gratitudine, poichè comprendeva che egli s’era frenato per amore di lei, per risparmiarle il dolore d’una triste scena. Ma il barone era appena partito che Raimondo le disse:
— Sai che è curioso, tuo padre? Crede forse che tutti debbano fare a modo suo? O che io abbia sposato lui?... Agli affari di casa mia voglio pensare da me, capisci; e andare dove mi pare e piace, quando mi pare e piace!...
Ella gli diede ragione, soggiogata come sempre dalla volontà di lui, allegando appena come scusa dell’assente il bene che voleva ad entrambi....
Andarono a Milazzo pel matrimonio di Carlotta; poi, partiti gli sposi e il barone per Palermo, tornarono a Catania, anzi al Belvedere, dov’erano tutti gli Uzeda. Lì ella ebbe qualche mese di tregua: i Fersa non c’erano, gli Uzeda parevano di nuovo rabboniti. Suo padre scriveva un po’ da Palermo, un po’ da Milazzo, un po’ da Messina; andò poi anche a Napoli; finalmente tornò nell’aprile, insieme col duca d’Oragua. Questi diceva d’esser venuto per affari, d’aver affrettata la partenza per viaggiare insieme col barone, ma parlava molto degli avvenimenti pubblici, della guerra di Lombardia, della malattia di Ferdinando II. Il barone pareva un altro, in compagnia del duca; l’intimità che s’era stretta fra loro due durante il viaggio l’aveva placato. Nondimeno ripetè alla figlia l’offerta di condurla via con sè; ma poichè Raimondo le aveva dichiarato che non poteva muoversi ancora, ella rispose:
— No, babbo.... verremo tutti.... presto, fra giorni.