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solenne, per amore di questa innocente, giurami che non mi farai più soffrire....» Ed egli le aveva domandato: «Che ti faccio? Di che m’accusi?...» — «Mi lasci, trascuri le tue figlie, non pensi a noi, non ci vuoi più bene....» Scrollando il capo, Raimondo aveva esclamato: «Le tue solite fissazioni, le tue solite fantasie!... Ti trascuro? Come ti trascuro? Quando, perchè, per chi ti dovrei trascurare?...» Per chi?... Per chi?... E con più calore egli aveva ripreso: «Sicuro, per chi? Ricominci, colla tua sciocca gelosia? Ti sei messa qualche altra fisima in testa?... Per donn’Isabella, eh?...» l’aveva nominata lui! «Ho capito! Perchè le ho ceduto la mia sedia, perchè l’ho invitata con noi!... Ma queste, cara mia, sono regole di buona creanza. Bisognava venire in questa bicocca miserabile per sentirsi rimproverare una cosa simile!...»

E in quell’estate del ’57 fu visto più assiduo coi Fersa; al teatro, dove andava tutte le sere, nella barcaccia, saliva spesso nel loro parco quand’era la loro volta d’abbonamento; li incontrava anche dalla zia Ferdinanda, dalla quale donna Isabella andava spessissimo; al Casino dei Nobili giocava quasi sempre col marito, dal quale si lasciava vincere ogni giorno. Quantunque potesse servirsi della carrozza del fratello, aveva comperato una magnifica pariglia di puro-sangue e un phaeton nuovo fiammante col quale andava dietro alla carrozza dei Fersa: alla Marina, quando c’era musica, scendeva, lasciando le redini al cocchiere, per mettersi al loro sportello e chiacchierare con donna Isabella, con la suocera e col marito. Vestiva con maggiore ricercatezza del solito, non stava mai in casa se non, come per una coincidenza tutta fortuita, quando essi venivano a far visita alla principessa. Il tema del suo discorso era continuamente Firenze, la vita delle grandi città, l’eleganza e la ricchezza degli altri paesi; egli si metteva vicino a donna Isabella, esclamando: «Voi sola mi capite!» quando se la prendeva con la sorte che l’aveva fatto nascere in quella bicocca e ve l’inchiodava, men-