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I Vicerè | 197 |
monaci se ne andavano via, il Sepolcro restava un momento vuoto; a un tratto, mentre l’organo riprendeva più triste le sue lamentazioni, tutti riuscivano dalla sagrestia, in processione, a due a due, col Superiore alla testa; erano senza scarpe, coi piedi nelle calze di seta nera, per l’Adorazione della Croce. Inginocchiandosi a ogni passo, in mezzo alla siepe dei soldati, scendevano fino alla porta maggiore, risalivano fino all’altare, lì ad uno ad uno si buttavano per terra dinanzi al cuscino del Cristo morto e lo baciavano. La folla saliva sulle seggiole, per godersi meglio tutta la vista, donna Isabella e Raimondo si passavano il cannocchiale, intanto che la contessa, genuflessa, pregava piangendo. Alla fine della cerimonia, altro rinfresco in sagrestia; il principino, vezzeggiato da tutti, fece servire prima i suoi parenti: don Eugenio beveva cioccolatte come fosse acqua, si ficcava in tasca i dolci che non poteva mangiare; ma la zia Matilde non prese nulla.
Il Sabato Santo, per la funzione della Resurrezione, Consalvo non la vide; lo zio Raimondo dava sempre il braccio alla signora Fersa.
VII.
Ogni sera, al capezzale della bambina, tenendola per la manuccia fredda e bianca come di cera, senza fare alcun moto col braccio irrigidito per non destare la piccola dormiente, la contessa vegliava fino a tardi. A notte alta serravano i portoni e nella casa addormentata non s’udiva più alcun rumore; solo dallo stanzino attiguo veniva il leggiero russare della balia accanto al letticciuolo di Teresina. Raimondo non rientrava. Sul comodino stavano schierate le bottiglie dei medicamenti, i vasetti di pomata, tutta la farmacia prescritta dal dottore per la povera malatuccia. Era erpete quell’infermità, dicevano; cattivo umore che si sfogava con eru-