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I Vicerè 209

stata tu stessa? Hai messo in piazza i tuoi sciocchi sospetti, di’ la verità?

— Io?... Io?...

— Vuoi rovinarla, vuoi farmi ammazzare da suo marito?

E allora un altro terrore l’aveva agghiacciata: se anche Fersa si fosse accorto di qualche cosa? Se avesse voluto vendicarsi?... A un tratto, ella vedeva suo marito freddato in mezzo a una strada, con una palla in fronte, con un colpo di pugnale al fianco: tutte le volte che egli tardava a rincasare, giungeva le mani, si premeva il cuore, quasi udendo le grida delle persone di servizio atterrite all’improvviso arrivo del corpo esanime; e accarezzando le sue bambine piangeva come se già fossero orfanelle. Le coceva sopra ogni cosa di non potersi sfogare con nessuno, di non aver qualcuno che la confortasse almeno di una buona parola. Al padre non poteva dir nulla, e gli Uzeda tenevano il sacco a quell’altra; chi non spingeva fino a tanto il rancore contro l’intrusa, restava neutrale, non s’accorgeva neppure di lei.


Don Eugenio aveva già finito e spedito a Napoli la memoria su Massa Annunziata. Portava per titolo: «Intorno la convenienza — di essere intrapreso il discavo — della Sicola Pompei, — ossivero Massa Annunziata, — vetusta terra mongibellese — sepolta nell’anno di grazia 1669 — dalle ignivome lave di quell’incendio vulcanico — con tutte le sue ricchezze che conteneva — memoria sommessa al Real Governo delle Due Sicilie — da don Eugenio Uzeda di Francalanza e Mirabella, — Gentiluomo di Camera di Sua Maestà (con esercizio). La sera, leggeva alla società la sua prosa, sulla brutta copia. C’erano espressioni di questo genere: «Quandocchesia nel 1669 tra le più terribili eruzioni la nostra vi cadendo annoverata.... Dopochè appiacevolirono alquanto i tremuoti.... A quale opera tuttosì in Pompei intentando sì viene.... Non mi s’impunti in superbia alle conghietture azzardarmi....» Erano il frutto di riforme grammaticali da lui stu-

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