Parte prima

Capitolo 6

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VI.


Abbas!... Abbas!... — disse il fratello portinaio, inchinandosi.

— Che significa? — domandò, allo zio Priore, Consalvo che il padre conduceva per mano.

— Vuol dire che l’Abate è in convento — spiegò Sua Paternità.

Su per lo scalone reale, tutto di marmo, il ragazzo guardava le pareti decorate di grandi quadri a mezzo rilievo di stucco bianco sopra fondo azzurrognolo: San Nicola da Bari, il martirio di San Placido, il battesimo del Redentore, con sciami d’angeli in giro, corone, festoni e rami di palme sulla vôlta. Lo scalone sbucava nel corridoio di levante, dinanzi alla grande finestra che metteva nella terrazza del primo chiostro.

— È là, — disse il Priore, inchinandosi verso un’ombra nera che passava dietro i vetri.

L’Abate, dall’esterno, attaccò il viso al finestrone e riconosciuti i visitatori, esclamò, gestendo:

— Apri, apri, Ludovì...

Il Priore fece girare la spagnoletta, e presa la mano del superiore la baciò rispettosamente; il principe e il principino seguirono l’esempio.

— Benedetti, figliuoli, benedetti!... Questo è dunque il nostro monachino? Oh, che bel monachino ne vogliamo fare!... Consalvo, eh? — domandò rivolto al principe; poi, al ragazzo: — Consalvo, tu sei contento di stare con noi, che?...

— Rispondi!... Rispondi a Sua Paternità...

Il ragazzo disse, guardandolo in viso:

— Sì.

— Bravo!... Che bel ragazzo!... Che occhi!... Tu starai qui con lo zio, crescerai buono e santo come lui, che?... — e mise affabilmente una mano sulla spalla del Priore, il quale mormorò, arrossendo: [p. 175 modifica]

— Padre Abate!...

Questi s’avviò, appoggiandosi al bastone. Il Priore gli stava alla destra, il principe alla sinistra: Consalvo era andato ad affacciarsi all’inferriata, guardava giù nel chiostro contornato da un portico che reggeva la terrazza superiore e pieno di statue, di vasche dove l’acqua cantava, di sedili distribuiti fra le aiuole simmetriche, con un padiglione in centro, di stile gotico, a quattro archi, la cui volta di lastre lucide faceva specchietto al sole. Il ragazzo curiosava ancora quando suo padre lo chiamò: la comitiva dirigevasi al quartiere dell’Abate, posto accanto a quello del re, nel corridoio di mezzogiorno, dove ogni uscio era sormontato da grandi quadri rappresentanti le vite dei santi. Giunto dinanzi alla sua porta, l’Abate diede qualche ordine al cameriere, poi tutti si diressero al Noviziato, pel corridoio dell’Orologio, lungo più di cento canne, il cui finestrone di fondo pareva piccolo, dall’opposta estremità, come un occhio di bue. Passarono dapprima accanto al secondo chiostro, il quale aveva il portico al primo piano e la terrazza al piano superiore come l’altro; anch’esso era coltivato: tutt’un boschetto di aranci e di cedri dal fogliame scuro che i frutti d’oro punteggiavano. Poi si lasciarono dietro il Coro di notte dove sbucava un’altra scala, poi l’orologio; nè il corridoio finiva ancora. L’Abate, tra il principe e il Priore, chiacchierava con una volubilità straordinaria, seminando il discorso di che?... aspirati ai quali non lasciava dare risposta. I Fratelli che incontravano lungo il loro cammino si fermavano tre passi innanzi alla comitiva, chinavano il capo giungendo le mani sul petto al passaggio dei superiori. E sulla porta del Noviziato stava Frà Carmelo, che scorto il ragazzo gli aprì le braccia con aria festosa, esclamando:

— C’è venuto!... C’è venuto!...

Padre Raffaele Cùrcuma, il Maestro dei novizii, venne incontro all’Abate, e gli fece strada fino alla sala delle lezioni dov’erano riuniti tutti i novizii, Giovannino Radalì fra gli altri, da sei mesi a San Nicola. [p. 176 modifica]

— Questo è il nostro nuovo monachino, spiegava Sua Paternità. — Abbraccia il cuginetto!... La tua camera è pronta, or ora ci andremo. Adesso tu lascerai il tuo nome; ti chiamerai Serafino. Il tuo cuginetto si chiama Angelico, che?... Questo qui è Placido, questo Luigi...

Erano frattanto arrivati due camerieri con vassoi pieni di dolci, ai quali i novizii facevano festa.

— Vedrai che è bello, qui, — diceva il maestro al nuovo arrivato, accarezzandolo. — Ti divertirai, con tanti compagni...

Consalvo chinava il capo, lasciava che dicessero. La curiosità del primo momento gli era passata, sentiva adesso una gran voglia di piangere; nondimeno guardava tutti in viso, quasi in atto di sfida, per non darla vinta a suo padre che aveva per forza voluto metterlo lì dentro. E frà Carmelo era stupito della sua franchezza: tutti gli altri ragazzi, il primo giorno, avevano gli occhi rossi, dicevano che non volevano starci, piangevano immancabilmente quando il barbiere tagliava loro tutti i capelli, quando lasciavano gli abiti secolari per vestire la nera tonacella. Invece il principino, andato via suo padre dopo l’ultimo predicozzo, li lasciava fare, vedeva cadere i capelli sotto le cesoie senza dir nulla, indossava il saio come se l’avesse portato fin dalla nascita.

— Bravo!... Sempre così contento ha da starci!... Vedrà poi quanti giuochi, quanti spassi....

Il ragazzo rispose, duramente:

— Io sono il principe di Francalanza; non sempre ci starò.

— Sempre?... Chi l’ha detto?... Ci starà qualche anno, finchè imparerà.... Sempre ci stanno i suoi zii... Adesso, adesso andremo da Padre don Blasco....

E presolo per mano, gli fece rifare la via tenuta al venire, fino alla camera del Decano, che era nel corridoio di mezzogiorno, col quadro di San Giovanni Boccadoro sull’uscio.

Deo gratias?...

— Chi è? — rispose il vocione del monaco. [p. 177 modifica]

L’uscio s’aperse un poco, ed egli comparve, in pantaloni e maniche di camicia, con la pipa in bocca, in mezzo alla camera sottosopra come un campo lavorato.

— Qui c’è il nipotino di Vostra Paternità, che viene a baciar la mano alla Paternità Vostra.

— Ah, sei qui? — esclamò il monaco, nettandosi le labbra col rovescio d’una mano. — Va bene, tanto piacere! — aggiunse senza fargli neppure una carezza; poi, rivolgendosi al fratello: — Conducetelo a spasso nella Flora.

Dopo tante grida contro l’ignoranza e la mala educazione del pronipote, il monaco era montato in bestia quando il principe aveva deciso di metterlo a San Nicola. Ce lo mettevano per educazione? Voleva dire che non erano buoni di educarlo in casa! Allora aveva ragione lui quando diceva che davano al ragazzo di begli esempii? Ma Giacomo voleva mettere il figlio a San Nicola anche per gli studii: come se gli Uzeda avessero mai saputo fare di più della loro firma! E poi ci voleva molto a dargli qualche maestro, se avevano la fregola di farne un letterato? I maestri, però, poco o molto, bisognava pagarli, e questo era il solo e vero motivo della deliberazione: risparmiare i baiocchi; perchè ai Benedettini non solamente non si pagava nulla, ma le stesse famiglie degli scolari ci guadagnavano qualcosa!...


Le camere del Noviziato aprivano tutte in un giardino destinato unicamente al diporto dei ragazzi; non c’erano soltanto fiori, ma alberi fruttiferi, aranci, limoni, mandarini, albicocchi, nespoli del Giappone, e la mattina un pigolìo assordante di passeri svegliava i novizii prima ancora che Frà Carmelo venisse a chiamarli per le divozioni che andavano a dire nella cappella. Finito di pregare tornavano tutti nelle loro camere, facevano una colazione frugale perchè il pranzo era a mezzogiorno, e ripassavano le lezioni per trovarsi pronti all’arrivo dei lettori che insegnavan loro l’italiano, [p. 178 modifica]il latino e l’aritmetica, più la calligrafia e il canto corale, le domeniche. A terza, dopo le lezioni, c’era la messa, che scendevano ad ascoltare in chiesa; la più grande di Sicilia, tutta marmo e stucco, bianca e luminosa, con la cupola che sfondava il cielo e l’organo di Donato del Piano costato tredici anni di lavoro e dieci mila onze di denari. Subito dopo la messa, i novizii andavano al refettorio, certe volte in quello grande insieme coi Padri, certe altre da soli, nel piccolo, secondo prescriveva la Regola; ma lo spasso cominciava più tardi, dopo il desinare, quando essi si sparpagliavano per il giardino, dove si mettevano a giocare a rimpiattino, alle bocce, ai castelletti, oppure zappavano o coltivavano ciascuno i proprii alberi, oppure mandavano per aria aquilotti e palloni. Oltre il muro di cinta, distendevasi un terreno incolto, tutto lava e sterpi, fino alla Flora — il giardino grande destinato al diporto dei monaci, dove i ragazzi andavano di tanto in tanto, a rincorrersi pei grandi viali — e il principino, che aveva subito preso le abitudini del convento ed era il più diavolo di tutti, spesso arrampicavasi su quel muro, tentava di scavalcarlo e andarsene nella sciara; ma allora il Padre Maestro e frà Carmelo ammonivano:

— Di là non si passa!... Non t’arrischiare da quella parte che ci bazzicano gli Spiriti: se t’afferrano ti portano via con loro....

— Li hai visti tu, questi Spiriti? — domandò una volta Consalvo a Giovannino Radalì.

— Io, no; ci vanno la notte, dicono.

— E la notte non potevano guardarci perchè, dopo la passeggiata vespertina che facevano giù in città, e dopo la cena, rientravano per lo studio e per le preghiere della sera.

Frà Carmelo teneva loro compagnia, badava che non mancassero di nulla, e quando non c’era da fare, li svagava parlando dei novizi d’un tempo, che adesso erano monaci o alle case loro, narrando le storie antiche, il famoso furto della cera nella notte del Santo [p. 179 modifica]Chiodo; la rivoluzione del Quarantotto, quando San Nicola era servito di quartier generale a Mieroslawski; la venuta del re Ferdinando e della regina nel 1834; ma diffondendosi soprattutto intorno alle vicende del monastero.

Nel primo principio non si sapeva bene chi lo avesse fondato, ma il 1136 certi santi Padri Benedettini s’eran ritirati, per meditare e far penitenza, nei boschi dell’Etna, e lì, coll’aiuto del conte Errico, avevano eretto il primo convento di San Leo. San Leo era uno dei tanti crateri spenti del Mongibello, tutto coperto di boschi e sei mesi dell’anno ammantato dalla neve; una vera solitudine adatta al santo scopo. In inverno, la tramontana turbinava intorno al povero e rustico fabbricato, tagliava la faccia, scottava le mani, gelava ogni cosa: tanto che molti dei monaci s’eran buscate gravi malattie, non resistendo all’intemperie. Per questo avevano ottenuto di poter mandare gl’infermi più giù, in un ospizio fabbricato nel bosco di San Nicola; e lì, come ci si stava meno a disagio, cominciarono ad andare anche parte dei monaci sani. A San Leo, intanto, oltre il freddo c’era un altro spavento, quando la montagna s’apriva, vomitando fuoco e cenere ardente: i terremoti sconquassavano la fabbrica, la lava distruggeva gli alberi e disseccava le cisterne, la cenere infocata bruciava ogni verdura. «Potevano sopportare tanti guai, i poveri Padri?» La meditazione stava bene, ma se il suolo mettevasi a ballar la tarantella, chi poteva più riconcentrarsi e pregare? La penitenza stava ancora meglio; ma bisognava pure evitare che, a furia di mortificazioni, i penitenti non se ne andassero difilato all’altro mondo prima d’aver purgato i loro falli. Per questo, essi impetrarono ed ottennero di stabilirsi definitivamente a San Nicola, intorno al quale venne crescendo un paesetto che, dal Santo, si chiamò Nicolosi per l’appunto. Lì, il convento fu costrutto con qualche comodo, più grande dell’antico, e i monaci vi restarono molti anni; però Nicolosi non scherzava neppur esso: la neve, [p. 180 modifica]se non per sei mesi, vi cadeva copiosa in inverno, e il freddo era ancora troppo pizzicante; tanto che gli ammalati bisognò mandarli in un altro ospizio fabbricato apposta più giù, alle porte di Catania; senza dire che i ladri infestavano quelle campagne. Veramente i monaci, che avevano fatto voto di povertà, non avrebbero dovuto temerli; perchè «cento ladri» come dice il proverbio, «non possono spogliare un nudo,» ma re, regine, vicerè e baroni avevano cominciato a donar roba al convento; e a furia di raccoglier legati i Padri si trovavano possessori di un gran patrimonio. Ora, chi doveva godersi quelle ricchezze? i topi? Perciò nel 1550, i Benedettini pensarono di venirsene definitivamente in città, mettendo la prima pietra d’un magnifico edifizio alla presenza del Vicerè Medinaceli. Certuni volevan dire che San Benedetto fosse crucciato perchè i suoi figli avevano lasciato i boschi e s’erano accasati da signori in città: menzogna patente, poichè, finito che fu il convento, il glorioso fondatore dell’Ordine lo preservò dal fuoco del vulcano: la lava dei Monti Rossi, discesa fino a Catania, preciso in direzione del convento, giunta dinanzi ad esso girò dalla parte di ponente e andò a gettarsi in mare senza fargli alcun danno. È vero che nel 1693 il terremoto rovinò l’edificio dalle fondamenta; però il castigo, se mai, non fu inflitto ai soli Padri, ma a mezza Sicilia che se ne cascò come un castello di carte. E allora finalmente cominciarono la costruzione che adesso ammiravasi, sopra un piano tanto grandioso che non si potè eseguir tutto: per portarne a compimento una metà, i lavori durarono fino al 1735. La ricchezza dei Padri era pervenuta al sommo: settantamila onze l’anno, e certi feudi erano così vasti, che nessuno ne aveva fatto il giro!

Quando parlava di queste cose, Frà Carmelo non ismetteva più, perchè egli aveva passato più di cinquant’anni fra quelle mura, e voleva bene ai Padri, ai novizii, alle immagini della chiesa ed agli alberi della Flora, come se tutti fossero parte della sua famiglia. [p. 181 modifica]Conosceva i feudi, le tenute e i poderi meglio di tutti i Cellerarii di campagna, ciascuno dei quali era preposto al governo d’una sola proprietà; e quando bisognava rammentar qualcosa, la data d’un avvenimento molto lontano, la misura d’un antico raccolto, tutti ricorrevano a lui.

Il principino era adesso la sua più grande affezione: egli se lo teneva vicino più che poteva, gli regalava dolci e balocchi, lo vantava all’Abate, al Maestro dei novizi, agli zii ed a tutti. Il ragazzo, veramente, era troppo vivace, faceva il prepotente, attaccava lite coi compagni; Frà Carmelo, paziente ed indulgente, sapeva scusarlo presso il Maestro, se commetteva qualche monellata, e raccomandava prudenza agli altri Fratelli se di queste monellate essi scontavan la pena.

— Bisogna lasciarli fare, i ragazzi; e poi sono signori, e a noi tocca obbedirli.

I Fratelli, infatti, erano addetti alle grosse bisogne, servivano i Padri al refettorio, mangiavano alla seconda tavola; e quando i monaci dicevano l’uffizio in coro, essi recitavano in un cantone il solo rosario. Per entrar novizii e diventar monaci bisognava esser nobili, e Frà Carmelo, fanatico di quelle cose quanto donna Ferdinanda, celebrava la nobiltà riunita a San Nicola. Vi si trovavano infatti i rappresentanti delle prime famiglie non solo della Val di Noto, ma di tutta la Sicilia, perchè in tutta la Sicilia c’era solo un altro convento di Cassinesi, a Palermo, e così inferiore in grandezza, ricchezza ed importanza, che mandavano lì da Catania i monaci stravaganti, per punizione. L’Abate era un gran signore napoletano, il secondogenito del duca di Cosenzano; da Monte Cassino era venuto anche il Padre Borgia, romano, di quella famiglia che aveva dato un Papa alla cristianità; e poi c’erano gli isolani, i Gerbini, che discendevano da re Manfredi per via di donne; i Salvo, venuti in Sicilia con gli Svevi; i Toledo, i Requense, i Melina, i Currera spagnuoli come gli Uzeda, i Cùrcuma e i Sagonti, di nobiltà longobarda; [p. 182 modifica]i Grazzeri, discesi di Germania; i Corvitini, fiamminghi; i Carvano, i Costante, francesi; gli Emanuele, appartenenti ad un ramo dei Paleologhi, imperatori d’Oriente.

— Basta essere ai Benedettini, o monaco o novizio, per significare che uno è signore, — spiegava Frà Carmelo al principino. — Qui entrano soltanto quelli delle prime casate, come Vostra Paternità.

Ai ragazzi toccava il Vostro Paternità e il don come ai monaci, e tutte le volte che un Padre o un Novizio passava dinanzi ai Fratelli, questi dovevano inchinarsi, piegandosi in due, incrociando le braccia sul petto; e se erano seduti, alzarsi in piedi per salutare. V’era uno di questi fratelli, Frà Liberato, vecchissimo, quasi centenario, non più buono a nulla, il quale usciva dalla sua camera per tremare al sole sopra una sedia a bracciuoli; un giorno il principino gli passò dinanzi e il vecchio non s’alzò. Allora il ragazzo riferì la cosa al Maestro, il quale fece al fratello una lavata di capo coi fiocchi.

— È istolidito, poveretto, — disse Frà Carmelo, scusandolo. — Quando ci facciamo vecchi, torniamo peggio di quand’eravamo bambini!

Consalvo riceveva così le stesse lezioni che gli aveva fatte donna Ferdinanda, le digeriva meglio che non l’altre del latino e dell’aritmetica. Esse gli davano un’idea straordinaria di quel che valeva, ma gli procuravano anche di solenni scapaccioni dai compagni, specialmente dai maggiori d’età, pel disprezzo col quale li trattava. Michele Rocca si gloriava d’avere anche lui un Vicerè tra gli antenati; ma Consalvo correggeva: «Vicerè? Presidente del Regno!...» E l’altro: «No, Vicerè...» E Consalvo: «No, Presidente...» finchè Michelino, infuriato, gli si slanciava addosso. Allora, piuttosto che venire alle mani, egli gridava al soccorso e a Frà Carmelo toccava comporre la lite. Ma ricominciava con gli altri, attaccava brighe sopra brighe. Quasi tutte quelle famiglie baronali avevano un nomignolo spesso ingiurioso o avvilitivo, col quale erano conosciute in città [p. 183 modifica]più che col vero nome. I Fiammona si chiamavano i Caratelli, perchè corpacciuti come mezze botti; i San Bernardo Piange le fave, allusione alla miseria in cui erano ridotti; i Currera Tignosi perchè tutti con le teste calve come palle da bigliardo; i Salvo Mangia Saliva, altri peggio ancora. Il principino, a corto di argomenti, gridava ai compagni: «Oh, dei Pancia-di-crusca!... Oh, dei Cute-di-porco!...» e quelli, non potendogli rendere pane per focaccia, giacchè il nomignolo degli Uzeda, I Vicerè, diceva la loro antica potenza, se lo mettevano sotto, quando riuscivano ad agguantarlo, e lo pestavano bene. Frà Carmelo accorreva, con le mani in testa, per liberare il suo protetto e predicar la pace, l’amore reciproco, l’attenzione allo studio.

Durante le lezioni, quando si dava la pena di stare attento, Consalvo capiva tutto e raccoglieva lodi e premii, ma del resto non c’erano castighi, chè i maestri lettori, tutti preti di bassa estrazione, non osavano neppure dar dell’asino agli scolari. Il Priore, in segno di soddisfazione pei buoni rapporti del Maestro, veniva a trovare qualche volta il nipote al Noviziato, portandogli regali di dolci e di libri sacri; don Blasco, al refettorio, gli dava qualche scappellotto, a modo di carezza; ma la prima volta che Frà Carmelo lo condusse al palazzo, in permesso, per mezza giornata, tutta la famiglia, riunita per la circostanza, gli fece gran festa.

— Che bel monachino!... Che bel monachino!...

La principessa, dolente di non averlo più con sè, ma rassegnata come sempre ai voleri del marito, se lo mangiava dai baci, l’abbracciava stretto stretto con tanta maggior forza quanta maggiore repulsione le ispiravano gli altri; donna Ferdinanda anche lei, venuta apposta al palazzo, gli prodigò molte carezze; Lucrezia, placatasi ormai che non correva più pericolo di vederselo in camera, gli diede confetti e biscotti; il principe, senza smettere l’abituale severità, lodò i figli obbedienti. Don Eugenio fece una predica intorno ai benefizii dell’istruzione; perfino lo zio Ferdinando scese dalle [p. 184 modifica]Ghiande per assistere a quella visita. Mancavano però la zia Chiara e il marchese: sicuri d’avere il tanto aspettato e desiderato figliuolo, un triste giorno la gravidanza era andata in fumo; essi portavano da quel momento il lutto della speranza perduta. C’era invece una bambina di sei anni che guardava il monachino con grandi occhi curiosi e una balia che teneva in braccio un lattante.

— Le tue cugine, le figlie dello zio Raimondo, — spiegò la principessa.

— E la zia Matilde?

— Sta poco bene...

Ma donna Ferdinanda troncò quegli stupidi discorsi, e prese a interrogare il nipotino intorno ai compagni, alla vita del monastero, all’impiego della giornata, intanto che Frà Carmelo tesseva l’elogio del ragazzo alla madre.

— Ti faresti monaco? — gli domandò il principe, per chiasso. — Ci staresti sempre, al convento?

— Sì, — rispose egli, per non dargliela vinta. — È bello stare a San Nicola!...


I monaci infatti facevano l’arte di Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso. Levatisi, la mattina, scendevano a dire ciascuno la sua messa, giù nella chiesa, spesso a porte chiuse, per non esser disturbati dai fedeli; poi se ne andavano in camera, a prendere qualcosa, in attesa del pranzo, a cui lavoravano, nelle cucine spaziose come una caserma, non meno di otto cuochi, oltre gli sguatteri. Ogni giorno i cuochi ricevevano da Nicolosi quattro carichi di carbone di quercia, per tenere i fornelli sempre accesi, e solo per la frittura il Cellerario di cucina consegnava loro, ogni giorno, quattro vesciche di strutto, di due rotoli ciascuna, e due cafissi d’olio: roba che in casa del principe bastava per sei mesi. I calderoni e le graticole erano tanto grandi che ci si poteva bollire tutta una coscia di vitella e [p. 185 modifica]arrostire un pesce spada sano sano; sulla grattugia, due sguatteri, agguantata ciascuno mezza ruota di formaggio, stavano un’ora a spiallarvela; il ceppo era un tronco di quercia che due uomini non arrivavano ad abbracciare, e ogni settimana un falegname, che riceveva quattro tarì e mezzo barile di vino per questo servizio, doveva segarne due dita, perchè si riduceva inservibile, dal tanto trituzzare. In città, la cucina dei Benedettini era passata in proverbio; il timballo di maccheroni con la crosta di pasta frolla, le arancine di riso grosse ciascuna come un mellone, le olive imbottite, i crespelli melati erano piatti che nessun altro cuoco sapeva lavorare; e pei gelati, per lo spumone, per la cassata gelata, i Padri avevano chiamato apposta da Napoli don Tino, il giovane del caffè di Benvenuto. Di tutta quella roba se ne faceva poi tanta, che ne mandavano in regalo alle famiglie dei Padri e dei novizii, e i camerieri, rivendendo gli avanzi, ci ripigliavano giornalmente quando quattro e quando sei tarì ciascuno.

Essi rifacevano le camere ai monaci, portavano le loro ambasciate in città, li accompagnavano al Coro reggendo loro le cocolle, e li servivano in camera se le LL. PP. si sentivano male, o si seccavano di scendere al refettorio. Lì il servizio toccava ai Fratelli: a mezzogiorno, quando tutti erano raccolti nell’immenso salone dalla volta dipinta a fresco, rischiarato da ventiquattro finestre grandi come portoni, il Lettore settimanario saliva sul pulpito e alla prima forchettata di maccheroni, dopo il Benedicite, si metteva a biascicare. Il giro della lettura cominciava dai più piccoli novizii fino ai monaci più vecchi, per ordine d’età; ma una volta arrivato ai Padri di fresca nomina, ricominciava per evitare quel fastidio ai grandi, i quali se ne stavano comodamente seduti dinanzi alle tavole disposte lungo i muri, sopra una specie di largo marciapiedi; l’Abate, nel centro del gran ferro di cavallo, aveva una tavola per sè. I Fratelli portavano intanto attorno i piatti, a otto per volta, sopra un’asse chiamata portiera che reggevano [p. 186 modifica]a spalla. Distinguevansi i pranzi e i pranzetti, questi composti di cinque portate, quelli di sette, nelle solennità; e mentre dalle mense levavasi un confuso rumore fatto dell’acciottolio delle stoviglie e del gorgoglio delle bevande mesciute e del tintinnio delle argenterie, il Lettore biascicava, dall’alto del pulpito, la Regola di San Benedetto: «.... 34° comandamento: non esser superbo; 35°: non dedito al vino; 36°: non gran mangiatore; 37°: non dormiglione; 38°: non pigro....»

La Regola, veramente, andava letta in latino; ma al principino e agli altri novizii, aspettando che la potessero comprendere in quella lingua, la spiegavano nella traduzione italiana, una volta il mese. San Benedetto, al capitolo della Misura dei cibi, aveva ordinato che per la refezione d’ogni giorno dovessero bastare due vivande cotte e una libbra di pane; «se hanno poi da cenare, il Cellerario serbi la terza parte di detta libbra per darla loro a cena;» ma questa era una delle tante antichità — come le chiamava Frà Carmelo — della Regola. Potevano forse le Loro Paternità mangiare pane duro? E la sera il pane era della seconda infornata, caldo fumante come quello della mattina. La Regola diceva pure: «Ognuno poi s’astenga dal mangiare carne d’animali quadrupedi, eccetto gli deboli et infermi;» ma tutti i giorni compravano mezza vitella, oltre il pollame, le salsicce, i salami e il resto; e in quelli di magro il capo cuoco incettava, appena sbarcato, e prima ancora che arrivasse alla pescheria, il miglior pesce. Molte altre antichità c’erano veramente nella Regola: San Benedetto non distingueva Padri nobili e Fratelli plebei, voleva che tutti facessero qualche lavoro manuale, comminava penitenze, scomuniche ed anche battiture ai monaci ed ai novizii che non adempivano il dover loro, diceva insomma un’altra quantità di coglionerie, come le chiamava più precisamente don Blasco. Articolo vino, il fondatore dell’Ordine prescriveva che un’emina al giorno dovesse bastare; «ma quelli ai quali Iddio dà la grazia di astenersene, sappiano d’averne a [p. 187 modifica]ricevere propria e particolare mercede.» Le cantine di San Nicola erano però ben provvedute e meglio reputate, e se i monaci trincavano largamente, avevano ragione, perchè il vino delle vigne del Cavaliere, di Bordonaro, della tenuta di San Basile, era capace di risuscitare i morti. Padre Currera, segnatamente, una delle più valenti forchette, si levava di tavola ogni giorno mezzo cotto, e quando tornava in camera, dimenando il pancione gravido, con gli occhietti lucenti dietro gli occhiali d’oro posati sul naso fiorito, dava altri baci al fiasco che teneva giorno e notte sotto il letto, al posto del pitale. Gli altri monaci, subito dopo tavola, se ne uscivano dal convento, si sparpagliavano pel quartiere popolato di famiglie, ciascuna delle quali aveva il suo Padre protettore. Padre Gerbini, la cui camera era piena di ventagli e d’ombrellini che le signore gli davano ad accomodare, cominciava il giro delle sue visite; Padre Galvagno se ne andava dalla baronessa Lisi, Padre Broggi dalla Caldara, altri da altre signore ed amiche. Tornavano all’ave, per entrare in chiesa, ma quelli che venivano un poco più tardi, o a cui doleva il capo, se ne salivano direttamente in camera; e non già per dormire, chè la sera, fino a tre ore di notte, quando si serravano i portoni, c’erano visite di parenti e d’amici, si teneva conversazione, molti Padri facevano la loro partita. Un tempo, anzi, per colpa di Padre Agatino Renda, giocatore indiavolato, c’era stato un giuoco d’inferno: in una sola sera Raimondo Uzeda aveva perduto cinquecent’onze, e più d’un padre di famiglia s’era rovinato; tanto che i superiori dell’Ordine, dopo aver chiuso un occhio su molte marachelle, avevano dovuto finalmente prendere qualche provvedimento. Era appunto allora venuto da Monte Cassino, in qualità di Abate, Padre Francesco Cosenzano, e per un po’ di tempo, con l’autorità della fresca nomina, aiutato dai buoni monaci, che non ne mancavano, quel buon vecchietto era riuscito a infrenare i peggiori; ma, poi, coll’andare del tempo, zitti zitti, a poco a poco, questi erano tornati alle abitudini di prima; [p. 188 modifica]gioco gozzoviglie, il quartiere popolato di ganze, i bastardi ficcati nel convento in qualità di Fratelli — dei Padri — nuovo genere di parentela! E i timidi tentativi di resistenza dell’Abate gli avevano scatenato contro un’opposizione violenta. Don Blasco fu dei più terribili. Egli aveva tre ganze, nel quartiere di San Nicola: donna Concetta, donna Rosa e donna Lucia la Sigaraia, con una mezza dozzina di figliuoli: e l’Abate lasciava correre, sebbene fosse uno scandalo che tutte quelle mogli e quei figliuoli della mano manca, anzi di nessuna mano, venissero a udir la santa messa recitata dallo stesso monaco. Poi, tutte le mattine, egli scendeva in cucina, ordinando che mandassero i migliori bocconi alle sue amiche, e i giorni di magro si metteva sul portone per aspettar l’arrivo dei cuochi col pesce, in mezzo al quale faceva la sua scelta, ordinando: «Taglia un rotolo di questa cernia e portalo a donna Lucia!» E l’Abate lasciava correre. Ma un giorno finalmente i nodi vennero al pettine, per causa di costei. Il convento possedeva una buona metà del quartiere in mezzo al quale sorgeva: i tre palazzotti della piazza semicircolare dinanzi alla chiesa e una quantità di case terrene tutt’intorno alle mura. Da queste fabbriche ricavava una magra rendita, perchè parte erano affittate a prezzi di favore a vecchi fornitori o sagrestani ritirati, parte erano addirittura concesse come elemosina a povera gente, a famiglie nobili cadute in bassa fortuna. Ora don Blasco, messa una particolare affezione a donna Lucia Garino, la Sigaraia, le aveva fatto concedere un bel quartierino di abitazione nel palazzotto di mezzogiorno e una bottega sottoposta dove suo marito teneva il negozio dei tabacchi. L’Abate, visto che questa donna Lucia non era nè indigente nè nobile decaduta e che non vantava altro titolo, per godersi la casa, fuorchè l’amicizia scandalosa di don Blasco, mentre poi tanti e tanti poveri diavoli non sapevano dove dar del capo, pensò di ordinarle che o pagasse regolarmente l’affitto del quartiere e della bottega, oppure che sgomberasse. Don Blasco, [p. 189 modifica]a cui già il fare da moralista del nuovo Abate aveva dato ai nervi, tanto che non aspettava se non l’occasione per aprire il fuoco, a questa intimazione riferitagli dall’amica piangente, diventò una bestia, salvo il santo battesimo, e fece cose dell’altro mondo, gridando pei corridoi del convento, sotto il muso dei Decani e dietro l’uscio dell’Abate, che se qualcuno avesse osato dar lo sfratto o pretendere un baiocco dalla Sigaraia, l’avrebbe avuto a far con lui. E disciplinata l’opposizione ancora incerta e tentennante, raccolto intorno a sè la schiuma del convento, i monaci che non potevano digerire le austere ammonizioni del superiore e la fine del giuoco e di tutti gli scandali, se prima era stato lo spavento del Capitolo, da quel giorno divenne un diavolo scatenato. Per amor della pace, il povero Abate dovè rimangiarsi il suo provvedimento, ma l’Uzeda senior non si placò per questo, chè dove potè trovare argomento da suscitare mormorazioni e liti, non diede tregua al suo «nemico.» Giusto, l’Abate, ammirato dei severi costumi e della scienza di don Lodovico, s’era messo a proteggerlo, fino a sostenerne poi l’elezione al Priorato; perciò don Blasco, il quale voleva aver egli quel posto, accomunò il nipote e il superiore nell’odio feroce e inestinguibile.

C’erano stati sempre numerosi partiti, a San Nicola; perchè, trattandosi d’amministrare un patrimonio grandissimo, e di maneggiare grossi sacchi di denaro, e di distribuire larghe elemosine, e di dar lavoro a tanta gente, e d’accordar case gratuite e posti non meno gratuiti al Noviziato, e d’esercitare insomma una notevole influenza in città e nei feudi, ciascuno ingegnavasi di tirar l’acqua al suo mulino; ma, al tempo dell’ammissione del principino, i contrasti erano quotidiani e violenti. L’Abate aveva, prima di tutto, i suoi partigiani; ma non tutti i buoni monaci erano per lui, non garbando a qualcuno che il supremo potere fosse in mano d’un forestiere. Don Blasco col suo codazzo cercava d’attirar costoro, gridando che bisognava mandare a casa sua quel «mangiamaccheroni napoletano» ma, benchè d’accordo in [p. 190 modifica]questo l’opposizione si divideva poi novamente, quando aveva da scegliere il successore. Non mancava il partito di quelli che dichiaravano non aver partito; e don Lodovico, modello del genere, tenendosi da parte, navigando sott’acqua, era riuscito ad agguantare il Priorato. Parecchi sostenevano anzi che, in fin dei conti, egli era il solo meritevole d’aspirare alla dignità abaziale; ma allora suo zio, per evitare che quel «gianfottere» si ponesse in capo la mitra, quasi sosteneva l’Abate Cosenzano. Nè lo stesso don Lodovico ammetteva che gli parlassero della promozione: se qualcuno glie la prediceva, protestava:

— L’Abate per ora è Sua Paternità ed a me tocca obbedirlo prima d’ogni altro.

L’Abate in persona, stanco di quella galera, gli confidava di volersi ritirare per cedergli il posto: quando pure non avesse pensato a mettersi da canto, presto o tardi la morte non ci avrebbe pensato per lui? E il Priore:

— Vostra Paternità non parli di queste cose!... Sono cose che contristano il cuore d’un figlio devoto, Padre Reverendissimo.

Il vecchio lo prendeva allora a suo confidente, si lagnava del poco rispetto dei monaci, dello scandalo che molti continuavano a dare con la loro vita libertina. Il Priore scrollava il capo, in atto dolente:

— Il glorioso nostro fondatore, Padre dei monaci, ci insegna qual è il rimedio contro gli errori dei traviati: l’orazione dei buoni, acciocchè il Signore, che tutto può, dia salute agli infermi fratelli....

Per questo egli non riprendeva nessuno, non dava corso ai richiami che spesso venivano a fargli, lasciava che ognuno cocesse nel proprio brodo. Fra quella trentina di cristiani non c’era mai un momento di pace e di accordo. Se la quistione delle persone divideva il convento in un certo modo, i partiti erano poi scompigliati dalla politica che raggruppava i Padri in ordine tutto diverso. V’erano i liberali, quelli che al Quarantotto [p. 191 modifica]avevano parteggiato pel Governo provvisorio e ospitato la rivoluzione in persona dei suoi soldati; e v’erano i borbonici, che i liberali chiamavano sorci. Don Blasco capitanava questi ultimi, in mezzo ai quali stavano molti amici del Priore; i liberali, che nelle quistioni d’ordine interno erano quasi tutti con l’Abate effettivo, borbonicissimo, obbedivano politicamente all’Abate onorario Ramira, quello del Quarantotto. Quindi, se spesso s’udivano le voci dei Padri che dicevano male parole ai Fratelli e mandavano a quel paese i camerieri, gli strepiti salivano al cielo appena cominciavano le discussioni sugli avvenimenti pubblici, all’ombra dei portici o dinanzi al portone: liberali e borbonici quasi venivano alle mani, a proposito della fine della guerra di Crimea, del Congresso di Parigi, della parte che vi sosteneva il Piemonte. Don Blasco era violento contro quel «piemontese mangiapolenta» di Cavour e lo colmava d’improperii, rammentando la storia della rana e del bue, profetando che sarebbe scoppiato a furia di gonfiarsi come una vescica. Era più terribile ancora contro il sistema costituzionale di cui i liberali avevano l’uzzolo: esclamava che il miglior atto compiuto da Ferdinando II era stato il 15 maggio, quando aveva fatto prendere a baionettate «i buffoni e i ruffiani» di palazzo Gravina. E se i liberali dicevano che avrebbero dato il ben servito al re un’altra volta, gridava:

— Lo manderete via voi altri, se mai; chè ve ne basta l’animo, con quei pancioni!

E quando sentiva esaltare la bontà del giovane Re di Sardegna, alzava le braccia sul capo, scotendo le mani come alacce di pipistrello, con un gesto d’orrore disperato: «Passa Savoia!... Passa Savoia!...» Nel 1713, quando Vittorio Amedeo, assunto al trono di Sicilia, era venuto nell’isola, in gran pompa, traversandola da un capo all’altro, il passaggio del nuovo re era stato seguito da una mal’annata come da un pezzo non si rammentava l’eguale; e nelle popolazioni spaventate ed ammiserite era rimasto in proverbio quel detto: «Passa [p. 192 modifica]Savoia! Passa Savoia!...» come il sintomo d’una sciagura, d’un castigo di Dio.

— E volevano un altro dei loro, al Quarantotto, come se non fosse bastato il primo! Ci volevano ridurre peggio di quel Piemonte morto di fame che spoglia i conventi!...

Anche tra i novizii v’erano partiti politici: i liberali, rivoluzionarii, piemontesi; e i borbonici, napoletani, sorci; ma se fra i monaci i due campi disponevano di forze quasi eguali, qui i liberali erano in maggioranza.

— Sono tutti i morti di fame, — spiegava don Blasco al principino; — quelli che a casa loro non hanno di che mangiare, e qui disprezzano il ben di Dio e le lasagne che gli piovono in bocca bell’e condite!

Questo non era vero del tutto, perchè capitanava i novizii liberali Giovannino Radalì-Uzeda, il quale apparteneva ad una famiglia che per nobiltà e ricchezza veniva subito dopo gli Uzeda del ramo diritto: quantunque secondogenito, se fosse rimasto al secolo gli sarebbe toccato il titolo vitalizio di barone. Ma il principino seguiva egualmente le opinioni degli zii don Blasco e donna Ferdinanda: amico e compagno di giuoco del cugino, era suo avversario in politica; e quando i rivoluzionarii parlavano fra di loro, quando complottavano per sollevare il convento e scendere in piazza con una bandiera di carta tricolore, egli stava alle vedette e interrogava i più ingenui, e poi andava a ripetere le notizie allo zio, perchè li denunziasse all’Abate; tanto che don Blasco ebbe presto in tutt’altra considerazione il pronipote.

— Questo gianfottere non è poi tanto minchione quanto pare... Sì, sì, — approvava, lodando lo spionaggio di Consalvo; — ascolta quel che dicono e poi vieni a riferirmelo.

Anche tra i Fratelli la politica metteva dissidii e nimistà; i più furbi, veramente, non s’impicciavano nè di Cavour nè di Del Carretto, e badavano a ingrassare le loro famiglie con le racimolature del monastero, ma [p. 193 modifica]parecchi parteggiavano o pel governo o per la rivoluzione. Uno specialmente, Frà Cola, capo rivoluzionario, parlava sempre di ricominciar la giocata del Quarantotto; i novizii liberali gli facevano raccontare la storia di quel tempo; e quando egli li serviva, a tavola, quando versava in giro l’acqua ghiacciata dal gran boccale di cristallo che reggeva con la destra, faceva di nascosto, con l’indice e il medio della sinistra, il segno d’una forbice che taglia. Il principino domandò un giorno a Giovannino Radalì che volesse dire; il cugino rispose:

— Vuol dire che ai sorci bisogna tagliargli le code.

Consalvo riferì la cosa allo zio, e Frà Cola, in punizione, fu mandato alla casa di Licodia, in mezzo alla malaria. Frà Carmelo, per questo, non s’occupava mai di politica e quando gli domandavano se era liberale o borbonico, faceva il segno della santa croce:

— Vi scongiuro per parte di Dio! So molto di queste cose! Queste sono opere del Nemico!

Per lui non c’era altro mondo fuori di San Nicola, nè altra potestà fuor di quella dell’Abate, del Priore e dei Decani. Bisognava sentirlo, quando enumerava tutti i diciotto titoli dell’Abate, quando nominava i re, le regine, i principi reali, i vicerè, i baroni che avevano dotato il convento. Ogni domenica, in Capitolo, l’Abate leggeva la litania di quei reali o principeschi donatori, in suffragio delle cui anime andavano dette altrettante messe quotidiane; ma spesso ne recitavano una sola all’intenzione di tutti quanti: il ristoro dei morti era lo stesso, e i vivi non stavano a perdere tanto tempo.

In generale, i Padri avevano fretta di sbrigarsi, e intendevano fare il comodo loro. Per non scendere giù in chiesa, a mattutino, quando faceva freschetto, essi avevano ordinato, molti anni addietro, la costruzione di un altro Coro, chiamato Coro di notte, in mezzo al convento; ed anzi era costato parecchie migliaia d’onze, tutto di noce scolpito; ma adesso i Padri non si levavano neppur per andar lì, a due passi; restavano a covar le lenzuola fin a giorno chiaro, e il mattutino lo [p. 194 modifica]facevano recitare per loro conto ai Cappuccini, dietro pagamento. Viceversa poi, nelle grandi solennità religiose, a Natale, a Pasqua, per la festa del Santo Chiodo, tutti prendevano parte alle cerimonie la cui magnificenza sbalordiva la città.


Le prime a cui assistette il principino furono quelle della Settimana Santa. Durante un mese la chiesa fu sossopra, per la costruzione del Sepolcro in fondo alla navata di sinistra: chiusa da un grande impalcato, con le finestre sbarrate, tutta adorna di candelabri di cristallo splendenti come blocchi di diamanti, e di vasi col grano lasciato crescere al buio perchè non prendesse colore, e popolata di statue rappresentanti la Sacra Famiglia e gli Apostoli, era veramente irriconoscibile. Il giovedì, a terza, tutto il monastero scese in chiesa, pel Pontificale, con l’Abate alla testa, a cui i novizii portavano il bacolo, la mitra e l’anello e i caudatarii reggevano lo strascico. L’apparato era quello della Regina Bianca, tutto di drappo rosso ricamato d’oro, e sull’organo maestoso di Donato del Piano, tenori, bassi e baritoni scritturati a posta cantavano il Passio che la folla pigiata stava a sentire come al teatro. Dirimpetto al soglio dell’Abate, nei posti migliori, c’erano tutti gli Uzeda: il principe e il conte con le mogli, donna Ferdinanda, Lucrezia, Chiara col marito; e scorto Consalvo, gli facevano piccoli segni col capo, sua madre e la zitellona specialmente, ammirando la sua cotta candida e insaldata a mille piegoline, lavoro speciale delle Suore di San Giuliano. S’udiva per tutta la chiesa, quando la voce potente dell’organo taceva, un ronzìo come d’alveare, un urtarsi di seggiole, lo stropiccìo dei passi; luccicavano i fucili e le sciabole dei soldati disposti dinanzi alle tre porte e lungo le navate per aprire il varco alla processione, più tardi. Intanto dodici poveri rappresentanti i dodici Apostoli, erano entrati nel Coro; l’Abate, inginocchiato, lavava loro i piedi — seconda [p. 195 modifica]lavatura la prima già fatta in sagrestia affinchè Sua Paternità per lavar quei piedi non s’insudiciasse le mani.

Un mormorìo venne in quel momento dal fondo della chiesa; Consalvo, dall’altare maggiore, si voltò e vide che lo zio Raimondo, lasciato il suo posto, si faceva largo tra la folla dirigendosi verso una signora. Era donna Isabella Fersa. Come tutte le altre dame, per la tristezza della Passione, vestiva di nero; ma il suo abito era così ricco, tanto guarnito di gale e di merletti, da parere un abito da ballo. Arrivata tardi, non trovava un buon posto; Raimondo, raggiuntala, le diede il braccio e la condusse, in mezzo a una doppia ala di curiosi, alla propria seggiola, accanto a quella di sua moglie. La contessa Matilde, che usciva quel giorno la prima volta dopo l’infermità, era tutta bianca in viso, e l’abito di lana nera contribuiva a farla parere ancora più pallida. Poi, giusto in quel punto Gesù moriva: la chiesa oscuravasi repentinamente, i Fratelli rovesciavano i candelieri sugli altari, toglievan via le tovaglie bianche e le sostituivano con quelle violacee, avvolgevano d’un velo la croce; e i monaci anch’essi, lasciati i paramenti di festa, indossavano quelli del corrotto. Nella penombra, i ceri risplendevano con fiamma più viva, e il Santo Sepolcro era una raggiera, dalle tante torce, dalle tante lampade, dai tanti riflessi dei cristalli e degli ori. Donna Isabella guardava con l’occhialetto lo spettacolo, mentre il conte, chino su lei, le nominava ad uno ad uno i monaci e i novizii.

— Quello lì non è il vostro nipotino?... Che bel chierichetto, contessa!....

Matilde fece col capo un gesto ambiguo. L’organo intonava il Miserere, e il canto doloroso era pieno di sospiri profondi, di lunghi lamenti che facevano echeggiare ogni angolo della chiesa scura, di schianti terribili per cui l’aria tremava, di gemiti lunghi come quelli del vento invernale. Pareva che il mondo dovesse finire, che non vi fosse speranza più per nessuno; Gesù era morto, [p. 196 modifica]era morto il Salvatore del mondo; e i monaci, a due a due, con l’Abate a capo, scendevano dall’abside, giravano per l’immensa chiesa tra due file di soldati che contenevano la folla e presentavano le armi capovolte; andavano a deporre l’Ostia al sepolcro. Inginocchiata, col capo sulla seggiola e il viso nascosto dal fazzoletto, la contessa singhiozzava pianamente; donna Isabella esclamava:

— Che effetto produce questa funzione!...

Aveva anch’ella gli occhi un po’ arrossati, ma quando il conte le ridiede il braccio per condurla in sagrestia, s’appoggiò a lui languidamente.

— Per legge, non potrei venire.... — protestava. — Sono ammesse le sole famiglie....

— Ma che!... Siete con noi! Diremo che siamo cugini....

Nella sagrestia ai parenti dei monaci e dei novizii era offerto un lauto rinfresco: giravano i vassoi con le tazze di cioccolatte fumante, con le gramolate e i dolci e il pan di Spagna. Consalvo, in mezzo alla mamma e a donna Isabella, riceveva carezze e complimenti pel modo esemplare col quale aveva preso parte alle funzioni; Padre Gerbini, senza avere ancor lasciato i paramenti mortuarii, salutava le signore, le invitava per la cerimonia del domani.

E il venerdì gli Uzeda arrivarono coi Fersa; il conte dava il braccio a donna Isabella, che portava un altro abito nero, più galante del primo. I sagrestani avevano serbato loro gli stessi posti, facendovi la guardia in mezzo alla folla burrascosa. Ma i soldati la frenavano, e quando l’organo accompagnava il canto lugubre delle Tre Ore d’agonia, il silenzio era profondo; solo Raimondo, seduto accanto a donna Isabella, le diceva all’orecchio cose che la facevano sorridere. Intanto l’Abate eseguiva la cerimonia della Deposizione dalla Croce: preso il Crocifisso velato, lo deponeva per terra, sopra uno dei gradini dell’altare, dove un cuscino di velluto, tutto trapunto d’oro, era preparato apposta. I [p. 197 modifica]monaci se ne andavano via, il Sepolcro restava un momento vuoto; a un tratto, mentre l’organo riprendeva più triste le sue lamentazioni, tutti riuscivano dalla sagrestia, in processione, a due a due, col Superiore alla testa; erano senza scarpe, coi piedi nelle calze di seta nera, per l’Adorazione della Croce. Inginocchiandosi a ogni passo, in mezzo alla siepe dei soldati, scendevano fino alla porta maggiore, risalivano fino all’altare, lì ad uno ad uno si buttavano per terra dinanzi al cuscino del Cristo morto e lo baciavano. La folla saliva sulle seggiole, per godersi meglio tutta la vista, donna Isabella e Raimondo si passavano il cannocchiale, intanto che la contessa, genuflessa, pregava piangendo. Alla fine della cerimonia, altro rinfresco in sagrestia; il principino, vezzeggiato da tutti, fece servire prima i suoi parenti: don Eugenio beveva cioccolatte come fosse acqua, si ficcava in tasca i dolci che non poteva mangiare; ma la zia Matilde non prese nulla.

Il Sabato Santo, per la funzione della Resurrezione, Consalvo non la vide; lo zio Raimondo dava sempre il braccio alla signora Fersa.