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226 | I Vicerè |
grave ancora; e il cuore le si chiudeva, le si chiudeva, come in una morsa, e le forze l’abbandonavano, e un brivido ricominciava a correrle per tutta la persona. Trasalì a un tratto udendo Raimondo che picchiava all’uscio, chiamandoli.
— Che fate? — domandò egli entrando, guardandoli curiosamente.
— Nulla....
— Nulla, — ripetè il barone. — Si parlava della decisione che dovete prendere.... Vuoi continuare a star senza casa, a pagar quella di Firenze per tenerla chiusa?
— Io? — rispose Raimondo, con tono stupito, come cascando dalle nuvole. — Io, se potessi, — proruppe, — a quest’ora sarei scappato anche a piedi da questo fetido paese. Ah, vi pare forse che ci stia per mio gusto, in mezzo a questi sciocchi, presuntuosi, ignoranti, pezzenti, invidiosi, maleducati?... — Nessuno lo teneva, mai s’era scagliato con tanta violenza contro i proprii concittadini; gestendo vivacemente, quasi gli contraddicessero, sfilava la litania delle recriminazioni, comprendeva nel proprio disgusto tutta la Sicilia, tutto il Napoletano, l’intera razza meridionale.
— Allora, quando hai deciso di partire? — interruppe secco il barone.
— Quando?... — ripetè Raimondo, guardandolo un momento. — Non sapete che sono incatenato dagli affari?
— Gli affari, volendo, si sbrigano in otto giorni.
Raimondo tacque un poco; poi esclamò, stringendosi nelle spalle: — Sbrigateli voi, se potete.
Il barone fece per replicare, ma la parola vivace gli rimase in gola. Raimondo, piccolo, minuto, elegante, dominava con gli sguardi sprezzanti, con l’espressione sottilmente ironica del viso bianco e delicato, la persona forte e vigorosa del suocero, dalle spalle quadrate, dai polsi nodosi, dalla faccia abbronzata. Si guardarono un istante, mentre Matilde, impallidita, batteva i denti, come per febbre; poi il barone guardò sua figlia, vide