Gerusalemme liberata/Canto sedicesimo

Canto Sedicesimo

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Canto quindicesimo Canto diciassettesimo
[p. 156 modifica]C.XVI.
Ella del vetro a se fa specchio, ed egli
Gli occhi di lei sereni a se fa Spegli.
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ARMIDA


ARGOMENTO.

     Entrano i due guerrier nell’ampio tetto,
Ove in dolce prigion Rinaldo stassi:
E fan sì, ch’ei pien d’ira e di dispetto,
Move al partir di là con loro i passi.
Per ritenere il cavalier diletto,
Prega e piange la Maga; egli al fin vassi.
Essa per vendicare il suo gran duolo,
Strugge il palagio, e va per l’aria a volo.



CANTO DECIMOSESTO.


Tondo è il ricco edifizio, e nel più chiuso
Grembo di lui, ch’è quasi centro al giro,
Un giardin v’ha, ch’adorno è sovra l’uso
4Di quanti più famosi unqua fioriro.
D’intorno inosservabile e confuso
Ordin di logge i Demon fabbri ordiro:
E tra le oblique vie di quel fallace
8Ravvolgimento impenetrabil giace.

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II.


     Per l’entrata maggior (però che cento
L’ampio albergo n’avea) passar costoro.
Le porte quì d’effigiato argento
12Su i cardini stridean di lucid’oro.
Fermar nelle figure il guardo intento:
Chè vinta la materia è dal lavoro.
Manca il parlar: di vivo altro non chiedi:
16Nè manca questo ancor, se gli occhj credi.

III.


     Mirasi quì, fra le Meonie ancelle,
Favoleggiar con la conocchia Alcide.
Se l’inferno espugnò, resse le stelle,
20Or torce il fuso; Amor se ’l guarda, e ride.
Mirasi Jole con la destra imbelle,
Per ischerno, trattar l’armi omicide:
E in dosso ha il cuojo del leon, che sembra
24Ruvido troppo a sì tenere membra.

IV.


     D’incontro è un mare; e di canuto flutto
Vedi spumanti i suoi cerulei campi.
Vedi nel mezzo un doppio ordine instrutto
28Di navi, e d’arme: e uscir dall’arme i lampi.
D’oro fiammeggia l’onda: e par che tutto
D’incendio marzial Leucate avvampi.
Quinci Augusto i Romani, Antonio quindi
32Trae l’Oriente, Egizj, Arabi, ed Indi.

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V.


     Svelte nuotar le Cicladi diresti
Per l’onde, e i monti coi gran monti urtarsi:
L’impeto è tanto, onde quei vanno e questi
36Co’ legni torreggianti ad incontrarsi.
Già volar faci, e dardi: e già funesti
Vedi di nova strage i mari sparsi.
Ecco (nè punto ancor la pugna inchina)
40Ecco fuggir la barbara Reina.

VI.


     E fugge Antonio! e lasciar può la speme
Dell’imperio del mondo ov’egli aspira?
Non fugge no, non teme il fier non teme;
44Ma segue lei che fugge, e seco il tira.
Vedresti lui simile ad uom che freme
D’amore, a un tempo, e di vergogna e d’ira,
Mirar alternamente or la crudele
48Pugna ch’è in dubbio, or le fuggenti vele.

VII.


     Nelle latébre poi del Nilo accolto
Attender pare in grembo a lei la morte:
E nel piacer d’un bel leggiadro volto
52Sembra che il duro fato egli conforte.
Di cotai segni variato e scolto
Era il metallo delle regie porte.
I due guerrier, poichè dal vago obbietto
56Rivolser gli occhj, entrar nel dubbio tetto.

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VIII.


     Qual Meandro fra rive oblique e incerte
Scherza, e con dubbio corso or cala or monta:
Queste acque ai fonti, e quelle al mar converte:
60E mentre ei vien, sè che ritorna, affronta:
Tali, e più inestricabili conserte
Son queste vie: ma il libro in se le impronta:
Il libro, don del Mago; e d’esse in modo
64Parla, che le risolve, e spiega il nodo.

IX.


     Poichè lasciar gli avviluppati calli,
In lieto aspetto il bel giardin s’aperse.
Acque stagnanti, mobili cristalli,
68Fior varj e varie piante, erbe diverse,
Apriche collinette, ombrose valli,
Selve e spelonche in una vista offerse:
E quel che il bello, e il caro accresce all’opre,
72L’arte che tutto fa, nulla si scopre.

X.


     Stimi (sì misto il culto è col negletto)
Sol naturali e gli ornamenti, e i siti.
Di natura arte par, che per diletto
76L’imitatrice sua scherzando imiti.
L’aura, non ch’altro, è della Maga effetto,
L’aura che rende gli alberi fioriti:
Co’ fiori eterni eterno il frutto dura,
80E mentre spunta l’un, l’altro matura.

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XI.


     Nel tronco istesso, e tra l’istessa foglia
Sovra il nascente fico invecchia il fico.
Pendono a un ramo, un con dorata spoglia,
84L’altro con verde, il novo e il pomo antico.
Lussureggiante serpe alto, e germoglia
La torta vite, ov’è più l’orto apríco:
Quì l’uva ha in fiori acerba, e quì d’or l’have
88E di pirópo, e già di nettar grave.

XII.


     Vezzosi augelli infra le verdi fronde
Temprano a prova lascivette note.
Mormora l’aura, e fa le foglie e l’onde
92Garrir, che variamente ella percote:
Quando taccion gli augelli, alto risponde;
Quando cantan gli augei, più lieve scote:
Sia caso od arte, or accompagna ed ora
96Alterna i versi lor la musica ora.

XIII.


     Vola fra gli altri un che le piume ha sparte
Di color varj, ed ha purpureo il rostro;
E lingua snoda in guisa larga, e parte
100La voce sì, ch’assembra il sermon nostro:
Quest’ivi allor continuò con arte
Tanta il parlar, che fu mirabil mostro.
Tacquero gli altri ad ascoltarlo intenti,
104E fermaro i susurri in aria i venti.

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XIV.


     Deh mira (egli cantò) spuntar la rosa
Dal verde suo modesta e verginella;
Che mezzo aperta ancora, e mezzo ascosa,
108Quanto si mostra men, tanto è più bella.
Ecco poi nudo il sen già baldanzosa
Dispiega: ecco poi langue, e non par quella,
Quella non par che desiata innanti
112Fu da mille donzelle e mille amanti.

XV.


     Così trapassa al trapassar d’un giorno
Della vita mortale il fiore, e ’l verde:
Nè perchè faccia indietro April ritorno,
116Si rinfiora ella mai, nè si rinverde.
Cogliam la rosa in sul mattino adorno
Di questo dì, chè tosto il seren perde:
Cogliam d’Amor la rosa: amiamo or quando
120Esser si puote riamato amando.

XVI.


     Tacque, e concorde degli augelli il coro,
Quasi approvando, il canto indi ripiglia;
Raddoppian le colombe i bacj loro:
124Ogni animal d’amar si riconsiglia:
Par che la dura quercia, e ’l casto alloro,
E tutta la frondosa ampia famiglia,
Par che la terra e l’acqua, e formi e spiri
128Dolcissimi d’Amor sensi e sospiri.

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XVII.


     Fra melodia sì tenera, e fra tante
Vaghezze allettatrici e lusinghiere
Va quella coppia; e rigida e costante
132Se stessa indura ai vezzi del piacere.
Ecco tra fronde e fronde il guardo innante
Penetra, e vede, o pargli di vedere:
Vede pur certo il vago, e la diletta,
136Ch’egli è in grembo alla donna, essa all’erbetta.

XVIII.


     Ella dinanzi al petto ha il vel diviso,
E il crin sparge incomposto al vento estivo.
Langue per vezzo: e ’l suo infiammato viso
140Fan biancheggiando i bei sudor più vivo.
Qual raggio in onda, le scintilla un riso
Negli umidi occhj tremulo e lascivo.
Sovra lui pende: ed ei nel grembo molle
144Le posa il capo, e ’l volto al volto attolle.

XIX.


     E i famelici sguardi avidamente
In lei pascendo, or si consuma e strugge.
S’inchina, e i dolci bacj ella sovente
148Liba or dagli occhj, e dalle labbra or sugge:
Ed in quel punto ei sospirar si sente
Profondo sì, che pensi, or l’alma fugge
E in lei trapassa peregrina. Ascosi
152Mirano i due guerrier gli atti amorosi.

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XX.


     Dal fianco dell’amante, estranio arnese,
Un cristallo pendea lucido e netto.
Sorse, e quel fra le mani a lui sospese,
156Ai misterj d’Amor ministro eletto.
Con luci ella ridenti, ei con accese,
Mirano in varj oggetti un sol oggetto:
Ella del vetro a se fa specchio: ed egli
160Gli occhj di lei sereni a sè fa speglj.

XXI.


     L’uno di servitù, l’altra d’impero
Si gloria: ella in se stessa, ed egli in lei.
Volgi, dicea, deh volgi, il cavaliero
164a me quegli occhj, onde beata bei:
Chè son, se tu no ’l sai, ritratto vero
Delle bellezze tue gl’incendj miei.
La forma lor, le meraviglie appieno,
168Più che ’l cristallo tuo, mostra il mio seno.

XXII.


     Deh, poichè sdegni me, com’egli è vago
Mirar tu almen potessi il proprio volto:
Chè ’l guardo tuo, ch’altrove non è pago,
172Gioirebbe felice in se rivolto.
Non può specchio ritrar sì dolce imago:
Nè in picciol vetro è un paradiso accolto.
Specchio t’è degno il Cielo, e nelle stelle
176Puoi riguardar le tue sembianze belle.

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XXIII.


     Ride Armida a quel dir: ma non che cesse
Dal vagheggiarsi, o da’ suoi bei lavori.
Poichè intrecciò le chiome, e che ripresse
180Con ordin vago i lor lascivi errori,
Torse in anella i crin minuti, e in esse,
Quasi smalto su l’or, consparse i fiori:
E nel bel sen le peregrine rose
184Giunse ai nativi giglj, e ’l vel compose.

XXIV.


     Nè il superbo pavon sì vago in mostra
Spiega la pompa delle occhiute piume:
Nè l’Iride sì bella indora e inostra
188Il curvo grembo e rugiadoso al lume.
Ma bel sovra ogni fregio il cinto mostra,
Che neppur nuda ha di lasciar costume.
Diè corpo a chi non l’ebbe; e, quando il fece
192Tempre mischiò ch’altrui mescer non lece;

XXV.


     Teneri sdegni, e placide e tranquille
Repulse, e cari vezzi, e liete paci,
Sorrisi, parolette, e dolci stille
196Di pianto, e sospir tronchi, e molli bacj;
Fuse tai cose tutte, e poscia unille,
Ed al foco temprò di lente faci:
E ne formò quel sì mirabil cinto,
200Di ch’ella aveva il bel fianco succinto.

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XXVI.


     Fine alfin posto al vagheggiar, richiede
A lui commiato, e ’l bacia, e si diparte.
Ella per uso il dì n’esce, e rivede
204Gli affari suoi, le sue magiche carte.
Egli riman; chè a lui non si concede
Por orma, o trar momento in altra parte:
E tra le fere spazia e tra le piante,
208Se non quanto è con lei, romito amante.

XXVII.


     Ma quando l’ombra co’ silenzj amici
Rappella ai furti lor gli amanti accorti;
Traggono le notturne ore felici
212Sotto un tetto medesmo entro a quegli orti.
Ma poichè volta a più severi uficj
Lasciò Armida il giardino, e i suoi diporti;
I duo, che tra i cespuglj eran celati,
216Scoprirsi a lui pomposamente armati.

XXVIII.


     Qual feroce destrier ch’al faticoso
Onor dell’arme vincitor sia tolto:
E lascivo marito, in vil riposo,
220Fra gli armenti e ne’ paschi erri disciolto;
Se ’l desta o suon di tromba, o luminoso
Acciar, colà tosto annitrendo è volto;
Già già brama l’arringo, e l’uom sul dorso
224Portando, urtato riurtar nel corso.

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XXIX.


     Tal si fece il Garzon, quando repente
Dell’arme il lampo gli occhj suoi percosse.
Quel sì guerrier, quel sì feroce ardente
228Suo spirto a quel fulgor tutto si scosse:
Benchè tra gli agj morbidi languente,
E tra i piaceri ebbro e sopito ei fosse.
Intanto Ubaldo oltra ne viene, e ’l terso
232Adamantino scudo ha in lui converso.

XXX.


     Egli al lucido scudo il guardo gira;
Onde si specchia in lui qual siasi, e quanto,
Con delicato culto adorno, spira
236Tutto odori e lascivie il crine e ’l manto:
E ’l ferro, il ferro aver non ch’altro, mira
Dal troppo lusso effeminato a canto.
Guernito è sì che inutile ornamento
240Sembra, non militar fero instrumento.

XXXI.


     Qual’uom da cupo e grave sonno oppresso
Dopo vaneggiar lungo in se riviene;
Tal ei tornò nel rimirar se stesso:
244Ma se stesso mirar già non sostiene.
Giù cade il guardo: e timido e dimesso
Guardando, a terra la vergogna il tiene.
Si chiuderebbe e sotto il mare e dentro
248Il foco, per celarsi, e giù nel centro.

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XXXII.


     Ubaldo incominciò parlando allora:
Va l’Asia tutta, e va l’Europa in guerra:
Chiunque pregio brama, e Cristo adora,
252Travaglia in arme or nella Siria terra.
Te solo, o figlio di Bertoldo, fuora
Del mondo, in ozio, un breve angolo serra;
Te sol dell’universo il moto nulla
256Move, egregio campion d’una fanciulla!

XXXIII.


     Qual sonno, o qual letargo ha sì sopita
La tua virtute? o qual viltà l’alletta?
Su su, te il campo, e te Goffredo invita:
260Te la fortuna, e la vittoria aspetta.
Vieni, o fatal guerriero, e sia finita
La ben comincia impresa: e l’empia setta,
Che già crollasti, a terra estinta cada
264Sotto l’inevitabile tua spada.

XXXIV.


     Tacque; e ’l nobil Garzon restò per poco
Spazio confuso, e senza moto e voce.
Ma poi che diè vergogna a sdegno loco,
268Sdegno guerrier della ragion feroce,
E che al rossor del volto un novo foco
Successe che più avvampa, e che più coce;
Squarciossi i vani fregj, e quelle indegne
272Pompe, di servitù misera insegne.

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XXXV.


     Ed affrettò il partire, e della torta
Confusione uscì del laberinto.
Intanto Armida della regal porta
276Mirò giacere il fier custode estinto.
Sospettò prima, e si fu poscia accorta
Ch’era il suo caro al dipartirsi accinto:
E ’l vide (ahi fera vista!) al dolce albergo
280Dar frettoloso fuggitivo il tergo.

XXXVI.


     Volea gridar: dove, o crudel, me sola
Lasci? ma il varco al suon chiuse il dolore:
Sicchè tornò la flebile parola
284Più amara indietro a rimbombar sul core.
Misera, i suoi diletti ora le invola
Forza e saper del suo saper maggiore.
Ella se ’l vede, e invan pur s’argomenta
288Di ritenerlo, e l’arti sue ritenta.

XXXVII.


     Quante mormorò mai profane note
Tessala maga con la bocca immonda:
Ciò ch’arrestar può le celesti rote,
292E l’ombre trar della prigion profonda,
Sapea ben tutto: e pur oprar non puote,
Ch’almen l’Inferno al suo parlar risponda.
Lascia gl’incanti, e vuol provar se vaga
296E supplice beltà sia miglior maga.

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XXXVIII.


     Corre, e non ha d’onor cura o ritegno.
Ahi dove or sono i suoi trionfi e i vanti?
Costei d’Amor, quanto egli è grande, il regno
300Volse e rivolse sol col cenno innanti:
E così pari al fasto ebbe lo sdegno,
Ch’amò d’esser amata, odiò gli amanti:
Sè gradì sola, e fuor di sè in altrui
304Sol qualche effetto de’ begli occhj sui.

XXXIX.


     Or negletta e schernita, e in abbandono
Rimasa, segue pur chi fugge e sprezza:
E procura adornar co’ pianti il dono
308Rifiutato per se di sua bellezza.
Vassene; ed al piè tenero non sono
Quel gelo intoppo e quella alpina asprezza,
E invia per messaggieri innanzi i gridi:
312Nè giunge lui pria ch’ei sia giunto ai lidi.

XL.


     Forsennata gridava: o tu che porte
Teco parte di me, parte ne lassi;
O prendi l’una o rendi l’altra, o morte
316Dà insieme ad ambe: arresta, arresta i passi,
Sol che ti sian le voci ultime porte,
Non dico i bacj; altra più degna avrassi
Questi da te. Chè temi, empio, se resti?
320Potrai negar, poi che fuggir potesti.

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XLI.


     Dissegli Ubaldo allor: già non conviene
Che d’aspettar costei, Signor, ricusi.
Di beltà armata, e de’ suoi preghi or viene
324Dolcemente nel pianto amaro infusi.
Qual più forte di te, se le Sirene
Vedendo ed ascoltando a vincer t’usi?
Così ragion pacifica Reina
328De’ sensi fassi, e se medesma affina.

XLII.


     Allor ristette il Cavaliero: ed ella
Sovraggiunse anelante e lagrimosa:
Dolente sì che nulla più, ma bella
332Altrettanto però quanto dogliosa.
Lui guarda, e in lui s’affisa, e non favella:
O che sdegna, o che pensa, o che non osa.
Ei lei non mira, e se pur mira, il guardo
336Furtivo volge e vergognoso e tardo.

XLIII.


     Qual musico gentil, prima che chiara
Altamente la lingua al canto snodi;
All’armonia gli animi altrui prepara
340Con dolci ricercate in bassi modi:
Così costei, che nella doglia amara
Già tutte non oblia l’arti e le frodi;
Fa di sospir breve concento in prima,
344Per dispor l’alma in cui le voci imprima.

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XLIV.


     Poi cominciò: non aspettar ch’io preghi,
Crudel, te, come amante amante deve:
Tai fummo un tempo: or se tal esser neghi,
348E di ciò la memoria anco t’è greve;
Come nemico almeno ascolta: i preghi
D’un nemico talor l’altro riceve.
Ben quel ch’io chieggio è tal che darlo puoi,
352E integri conservar gli sdegni tuoi.

XLV.


     Se m’odj, e in ciò diletto alcun tu senti,
Non ten’vengo a privar: godi pur d’esso.
Giusto a te pare, e siasi; anch’io le genti
356Cristiane odiai (nol nego) odiai te stesso.
Nacqui Pagana: usai varj argomenti,
Chè per me fosse il vostro imperio oppresso:
Te perseguii, te presi, e te lontano
360Dall’arme trassi in loco ignoto e strano.

XLVI.


     Aggiungi a questo ancor quel ch’a maggiore
Onta tu rechi, ed a maggior tuo danno:
T’ingannai, t’allettai nel nostro amore;
364Empia lusinga, certo, iniquo inganno,
Lasciarsi corre il virginal suo fiore;
Far delle sue bellezze altrui tiranno:
Quelle ch’a mille antichi in premio sono
368Negate, offrire a novo amante in dono.

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XLVII.


     Sia questa pur tra le mie frodi: e vaglia
Sì di tante mie colpe in te il difetto,
Che tu quinci ti parta, e non ti caglia
372Di questo albergo tuo già sì diletto.
Vattene: passa il mar: pugna, travaglia:
Struggi la fede nostra; anch’io t’affretto.
Chè dico nostra? ah non più mia; fedele
376Sono a te solo, idolo mio crudele.

XLVIII.


     Solo ch’io segua te mi si conceda:
Picciola fra’ nemici anco richiesta;
Non lascia indietro il predator la preda:
380Va il trionfante, il prigionier non resta.
Me fra l’altre tue spoglie il campo veda,
Ed all’altre tue lodi aggiunga questa;
Che la tua schernitrice abbia schernito,
384Mostrando me sprezzata ancella a dito.

XLIX.


     Sprezzata ancella, a chi fo più conserva
Di questa chioma, or ch’a te fatta è vile?
Raccorcierolla: al titolo di serva
388Vuò portamento accompagnar servile.
Te seguirò, quando l’ardor più ferva
Della battaglia, entro la turba ostíle.
Animo ho bene, ho ben vigor che baste
392A condurti i cavalli, a portar l’aste.

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L.


     Sarò qual più vorrai scudiere o scudo:
Non fia che in tua difesa io mi risparmi.
Per questo sen, per questo collo ignudo,
396Pria che giungano a te, passeran l’armi.
Barbaro forse non sarà sì crudo,
Che ti voglia ferir per non piagarmi;
Condonando il piacer della vendetta
400A questa, qual si sia, beltà negletta.

LI.


     Misera, ancor presumo? ancor mi vanto
Di schernita beltà che nulla impetra?
Volea più dir; ma l’interruppe il pianto,
404Che qual fonte sorgea d’alpina pietra.
Prendergli cerca allor la destra o ’l manto,
Supplichevole in atto, ed ei s’arretra.
Resiste, e vince: e in lui trova impedita
408Amor l’entrata, il lagrimar l’uscita.

LII.


     Non entra Amor a rinovar nel seno,
Che ragion congelò, la fiamma antica.
V’entra pietate in quella vece almeno,
412Pur compagna d’Amor, benchè pudíca:
E lui commove in guisa tal ch’a freno
Può ritener le lagrime a fatica.
Pur quel tenero affetto entro ristringe,
416E quanto può gli atti compone, e infinge.

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LIII.


     Poi le risponde: Armida, assai mi pesa
Di te; sì potess’io, come il farei,
Del mal concetto ardor l’anima accesa
420Sgombrarti; odj non son, nè sdegni i miei:
Nè vuò vendetta: nè rammento offesa:
Nè serva tu, nè tu nemica sei.
Errasti, è vero, e trapassasti i modi,
424Ora gli amori esercitando, or gli odj.

LIV.


     Ma che? son colpe umane, e colpe usate.
Scuso la natia legge, il sesso, e gli anni.
Anch’io parte fallii: se a me pietate
428Negar non vuò, non fia ch’io te condanni.
Fra le care memorie ed onorate
Mi sarai nelle gioje, e negli affanni:
Sarò tuo cavalier, quanto concede
432La guerra d’Asia, e con l’onor la fede.

LV.


     Deh! che del fallir nostro or quì sia il fine;
E di nostre vergogne omai ti spiaccia:
Ed in questo del mondo ermo confine
436La memoria di lor sepolta giaccia.
Sola, in Europa e nelle due vicine
Parti, fra l’opre mie questa si taccia.
Deh non voler che segni ignobil fregio
440Tua beltà, tuo valor, tuo sangue regio.

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LVI.


     Rimanti in pace; i’ vado: a te non lice
Meco venir; chi mi conduce il vieta.
Rimanti, o va per altra via felice,
444E come saggia i tuoi consiglj acqueta.
Ella, mentre il guerrier così le dice,
Non trova loco torbida inquieta:
Già buona pezza in dispettosa fronte
448Torva il riguarda, alfin prorompe all’onte.

LVII.


     Nè te Sofia produsse, e non sei nato
Dell’Azzio sangue tu: te l’onda insana
Del mar produsse, e ’l Caucaso gelato,
452E le mamme allattar di tigre Ircana.
Che dissimulo io più? l’uomo spietato
Pur un segno non diè di mente umana.
Forse cambiò color? forse al mio duolo
456Bagnò almen gli occhj, o sparse un sospir solo?

LVIII.


     Quali cose tralascio, e quai ridico?
S’offre per mio: mi fugge, e m’abbandona.
Quasi buon vincitor, di reo nemico
460Oblia le offese, e i falli aspri perdona.
Odi come consiglia, odi il pudíco
Senocrate d’Amor come ragiona.
O Cielo, o Dei, perchè soffrir questi empj,
464Fulminar poi le torri, e i vostri tempj?

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LIX.


     Vattene pur, crudel, con quella pace
Che lasci a me: vattene iniquo omai;
Me tosto ignudo spirto, ombra seguace
468Indivisibilmente a tergo avrai.
Nuova furia co’ serpi e con la face
Tanto t’agiterò quanto t’amai.
E s’è destin ch’esca del mar, che schivi
472Gli scoglj e l’onde, e ch’alla pugna arrivi:

LX.


     Là tra ’l sangue e le morti egro giacente
Mi pagherai le pene, empio guerriero.
Per nome Armida chiamerai sovente
476Negli ultimi singulti; udir ciò spero.....
Or quì mancò lo spirto alla dolente;
Nè quest’ultimo suono espresse intero:
E cadde tramortita, e si diffuse
480Di gelato sudore, e i lumi chiuse.

LXI.


     Chiudesti i lumi, Armida: il Cielo avaro
Invidiò il conforto a’ tuoi martírj.
Apri, misera, gli occhj; il pianto amaro
484Negli occhj al tuo nemico or chè non miri?
O s’udir tu ’l potessi, o come caro
T’addolcirebbe il suon de’ suoi sospiri!
Dà quanto ei puote; ei prende (e tu nol credi)
488Pietoso in vista gli ultimi congedi.

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LXII.


     Or che farà? dee su l’ignuda arena
Costei lasciar così tra viva e morta?
Cortesia lo ritien, pietà l’affrena,
492Dura necessità seco ne ’l porta.
Parte, e di lievi zefiri è ripiena
La chioma di colei che gli fa scorta.
Vola per l’alto mar l’aurata vela:
496Ei guarda il lido; e ’l lido ecco si cela.

LXIII.


     Poi ch’ella in se tornò, deserto e muto,
Quanto mirar potè, d’intorno scorse.
Ito se n’è pur, disse, ed ha potuto
500Me quì lasciar della mia vita in forse?
Nè un momento indugiò: nè un breve ajuto
Nel caso estremo il traditor mi porse?
Ed io pur anco l’amo? e in questo lido
504Invendicata ancor piango, e m’assido?

LXIV.


     Che fa più meco il pianto? altr’arme, altr’arte
Io non ho dunque? ahi seguirò pur l’empio:
Nè l’abisso, per lui riposta parte,
508Nè il Ciel sarà per lui sicuro tempio.
Già ’l giungo, e ’l prendo, e ’l cor gli svello, e sparte
Le membra appendo, ai dispietati esempio.
Mastro è di ferità: vuò superarlo
512Nell’arti sue; ma dove son? che parlo?

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LXV.


     Misera Armida, allor dovevi, e degno
Ben era, in quel crudele incrudelire
Che tu prigion l’avesti: or tardo sdegno
516T’infiamma, e movi neghittosa a l’ire.
Pur se beltà può nulla, o scaltro ingegno,
Non fia vuoto d’effetto il mio desire.
O mia sprezzata forma, a te s’aspetta
520(Chè tua l’ingiuria fu) l’alta vendetta.

LXVI.


     Questa bellezza mia sarà mercede
Del troncator dell’esecrabil testa.
O miei famosi amanti, ecco si chiede
524Difficil sì, da voi, ma impresa onesta.
Io che sarò d’ampie ricchezze erede,
D’una vendetta in guiderdon son presta.
S’esser compra a tal prezzo indegna io sono,
528Beltà, sei di natura inutil dono.

LXVII.


     Dono infelice, io ti rifiuto: e insieme
Odio l’esser Reina, e l’esser viva,
E l’esser nata mai; sol fa la speme
532Della dolce vendetta ancor ch’io viva.
Così in voci interrotte irata freme,
E torce il piè dalla deserta riva,
Mostrando ben quanto ha furor raccolto,
536Sparsa il crin, bieca gli occhj, accesa il volto.

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LXVIII.


     Giunta agli alberghi suoi chiamò trecento,
Con lingua orrenda, deità d’Averno.
S’empie il Ciel d’atre nubi, e in un momento
540Impallidisce il gran pianeta eterno:
E soffia, e scuote i gioghi alpestri il vento:
Ecco già sotto i piè mugghiar l’Inferno.
Quanto gira il palagio, udresti irati
544Sibili, ed urli, e fremiti, e latrati.

LXIX.


     Ombra più che di notte, in cui di luce
Raggio misto non è, tutto il circonda;
Se non se in quanto un lampeggiar riluce
548Per entro la caligine profonda.
Cessa alfin l’ombra, e i raggj il Sol riduce
Pallidi, nè ben l’aura anco è gioconda:
Nè più il palagio appar, nè pur le sue
552Vestigia, nè dir puossi: egli quì fue.

LXX.


     Come immagin talor d’immensa mole
Forman nubi nell’aria, e poco dura,
Chè ’l vento la disperde, o solve il Sole;
556Come sogno sen va, ch’egro figura;
Così sparver gli alberghi, e restar sole
L’alpi, e l’orror che fece ivi natura.
Ella sul carro suo, che presto aveva,
560S’assise, e come ha in uso, al Ciel si leva.

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LXXI.


     Calca le nubi, e tratta l’aure a volo,
Cinta di nembi, e turbini sonori;
Passa i lidi soggetti all’altro Polo,
564E le terre d’ignoti abitatori;
Passa d’Alcide i termini, nè ’l suolo
Appressa degli Esperj, o quel de’ Mori;
Ma su i mari sospeso il corso tiene,
568Insin che ai lidi di Soria perviene.

LXXII.


     Quinci a Damasco non s’invia, ma schiva
Il già sì caro della patria aspetto,
E drizza il carro all’infeconda riva,
572Ove è tra l’onde il suo castello eretto.
Qui giunta, i servi e le donzelle priva
Di sua presenza, e sceglie ermo ricetto,
E fra varj pensier dubbia s’aggira;
576Ma tosto cede la vergogna all’ira.

LXXIII.


     Io n’andrò pur, dice ella, anzi che l’armi
Dell’Oriente il Re d’Egitto muova:
Ritentar ciascun’arte, e trasmutarmi
580In ogni forma insolita mi giova,
Trattar l’arco, e la spada, e serva farmi
De’ più potenti, e concitargli a prova;
Pur che le mie vendette io veggia in parte,
584Il rispetto e l’onor stiasi in disparte.

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LXXIV.


     Non accusi già me, biasmi se stesso
Il mio custode e zio, che così volse;
Ei l’alma baldanzosa, e ’l fragil sesso
588Ai non debiti ufficj in prima volse.
Esso mi fè donna vagante, ed esso
Spronò l’ardire, e la vergogna sciolse;
Tutto si rechi a lui ciò che d’indegno
592Fei per amore, o che farò di sdegno.

LXXV.


     Così risolse: e cavalieri, e donne,
Paggj, e sergenti frettolosa aduna,
E ne’ superbi arnesi, e nelle gonne
596L’arte dispiega, e la regal fortuna,
E in via si pone, e non è mai ch’assonne,
O che si posi al Sole, od alla Luna,
Sin che non giunge ove le schiere amiche
600Coprian di Gaza le campagne apriche.