Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
170 | LA GERUSALEMME |
LXVIII.
Giunta agli alberghi suoi chiamò trecento,
Con lingua orrenda, deità d’Averno.
S’empie il Ciel d’atre nubi, e in un momento
540Impallidisce il gran pianeta eterno:
E soffia, e scuote i gioghi alpestri il vento:
Ecco già sotto i piè mugghiar l’Inferno.
Quanto gira il palagio, udresti irati
544Sibili, ed urli, e fremiti, e latrati.
LXIX.
Ombra più che di notte, in cui di luce
Raggio misto non è, tutto il circonda;
Se non se in quanto un lampeggiar riluce
548Per entro la caligine profonda.
Cessa alfin l’ombra, e i raggj il Sol riduce
Pallidi, nè ben l’aura anco è gioconda:
Nè più il palagio appar, nè pur le sue
552Vestigia, nè dir puossi: egli quì fue.
LXX.
Come immagin talor d’immensa mole
Forman nubi nell’aria, e poco dura,
Chè ’l vento la disperde, o solve il Sole;
556Come sogno sen va, ch’egro figura;
Così sparver gli alberghi, e restar sole
L’alpi, e l’orror che fece ivi natura.
Ella sul carro suo, che presto aveva,
560S’assise, e come ha in uso, al Ciel si leva.