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CANTO DECIMOSESTO. | 169 |
LXV.
Misera Armida, allor dovevi, e degno
Ben era, in quel crudele incrudelire
Che tu prigion l’avesti: or tardo sdegno
516T’infiamma, e movi neghittosa a l’ire.
Pur se beltà può nulla, o scaltro ingegno,
Non fia vuoto d’effetto il mio desire.
O mia sprezzata forma, a te s’aspetta
520(Chè tua l’ingiuria fu) l’alta vendetta.
LXVI.
Questa bellezza mia sarà mercede
Del troncator dell’esecrabil testa.
O miei famosi amanti, ecco si chiede
524Difficil sì, da voi, ma impresa onesta.
Io che sarò d’ampie ricchezze erede,
D’una vendetta in guiderdon son presta.
S’esser compra a tal prezzo indegna io sono,
528Beltà, sei di natura inutil dono.
LXVII.
Dono infelice, io ti rifiuto: e insieme
Odio l’esser Reina, e l’esser viva,
E l’esser nata mai; sol fa la speme
532Della dolce vendetta ancor ch’io viva.
Così in voci interrotte irata freme,
E torce il piè dalla deserta riva,
Mostrando ben quanto ha furor raccolto,
536Sparsa il crin, bieca gli occhj, accesa il volto.