Gerusalemme liberata/Canto ottavo
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Narra a Goffredo del signor de’ Dani |
CANTO OTTAVO.
Già cheti erano i tuoni e le tempeste,
E cessato il soffiar d’Austro e di Coro:
E l’alba uscia della magion celeste
4Colla fronte di rose, e co’ piè d’oro.
Ma quei che le procelle avean già deste,
Non rimaneansi ancor dall’arti loro;
Anzi l’un d’essi, ch’Astagorre è detto,
8Così parlava alla compagna Aletto:
II.
Mira, Aletto, venirne (ed impedito
Esser non può da noi) quel cavaliero,
Che dalle fere mani è vivo uscito
12Del sovran difensor del nostro impero.
Questi, narrando del suo Duce ardito
E de’ compagni ai Franchi il caso fero,
Paleserà gran cose: onde è periglio
16Che si richiami di Bertoldo il figlio.
III.
Sai quanto ciò rilevi, e se conviene
Ai gran principj oppor forza ed inganno.
Scendi tra i Franchi dunque, e ciò ch’a bene
20Colui dirà, tutto rivolgi in danno:
Spargi le fiamme e ’l tosco entro le vene
Del Latin, dell’Elvezio, e del Britanno:
Movi l’ire e i tumulti, e fà tal’opra,
24Che tutto vada il campo alfin sossopra.
IV.
L’opra è degna di te: tu nobil vanto
Ten desti già dinanzi al signor nostro.
Così le parla: e basta ben sol tanto,
28Perchè prenda l’impresa il fero mostro.
Giunto è sul vallo de’ Cristiani intanto
Quel cavaliero, il cui venir fu mostro:
E disse lor: deh sia chi m’introduca
32Per mercede, o guerrieri, al sommo Duca.
V.
Molti scorta gli furo al Capitano,
Vaghi d’udir del peregrin novelle.
Egli inchinollo, e l’onorata mano
36Volea baciar che fa tremar Babelle.
Signor, poi dice, che con l’Oceano
Termini la tua fama, e con le stelle,
Venirne a te vorrei più lieto messo....
40Qui sospirava, e soggiungeva appresso:
VI.
Sveno, del Re de’ Dani unico figlio,
Gloria e sostegno alla cadente etade,
Esser tra quei bramò, che ’l tuo consiglio
44Seguendo, han cinto per Gesù le spade:
Nè timor di fatica, o di periglio,
Nè vaghezza del regno, nè pietade
Del vecchio genitor, sì degno affetto
48Intepidir nel generoso petto.
VII.
Lo spingeva un desio d’apprender l’arte
Della milizia faticosa e dura
Da te sì nobil mastro: e sentia in parte
52Sdegno e vergogna di sua fama oscura;
Già di Rinaldo il nome in ogni parte
Con gloria udendo in verdi anni matura:
Ma più ch’altra cagione, il mosse il zelo
56Non del terren, ma dell’onor del Cielo.
VIII.
Precipitò dunque gl’indugi, e tolse
Stuol di scelti compagni audace e fero:
E dritto inver la Tracia il cammin volse
60Alla Città che sede è dell’impero:
Quì il Greco Augusto in sua magion l’accolse:
Quì poi giunse in tuo nome un messaggiero:
Questi appien gli narrò come già presa
64Fosse Antiochia, e come poi difesa.
IX.
Difesa incontra al Perso, il qual con tanti
Uomini armati ad assediarvi mosse,
Che sembrava che d’arme, e d’abitanti
68Voto il gran regno suo rimaso fosse.
Di te gli disse, e poi narrò d’alquanti
Sinch’a Rinaldo giunse, e quì fermosse:
Contò l’ardita fuga, e ciò che poi
72Fatto di glorioso avea tra voi.
X.
Soggiunse alfin come già il popol Franco
Veniva a dar l’assalto a queste porte:
E invitò lui ch’egli volesse almanco
76Dell’ultima vittoria esser consorte.
Questo parlare, al giovenetto fianco
Del fero Sveno, è stimolo sì forte,
Ch’ognora un lustro pargli infra’ Pagani
80Rotare il ferro, e insanguinar le mani.
XI.
Par che la sua viltà rimproverarsi
Senta nell’altrui gloria, e se ne rode:
E chi’l consiglia, e chi’l prega a fermarsi,
84O che non esaudisce, o che non ode.
Rischio non teme, fuorchè ’l non trovarsi
De’ tuoi gran rischj a parte e di tua lode:
Questo gli sembra sol periglio grave;88Degli altri o nulla intende, o nulla pave.
XII.
Egli medesmo sua fortuna affretta;
Fortuna che noi tragge, e lui conduce:
Peroch’appena al suo partire aspetta
92I primi rai della novella luce.
È per miglior la via più breve eletta;
Tale ei la stima, ch’è Signore, e Duce:
Nè i passi più difficili o i paesi
96Schivar si cerca de’ nemici offesi.
XIII.
Or difetto di cibo, or cammin duro
Trovammo, or violenza, ed or aguati;
Ma tutti fur vinti i disagj, e furo
100Or uccisi i nemici, ed or fugati.
Fatto avean ne’ periglj ogni uom sicuro
Le vittorie, e insolenti i fortunati:
Quando un dì ci accampammo ove i confini
104Non lunge erano omai de’ Palestini.
XIV.
Quivi, da’ precursori, a noi vien detto
Ch’alto strepito d’arme avean sentito:
E viste insegne e indizj, onde han sospetto
108Che sia vicino esercito infinito.
Non pensier, non color, non cangia aspetto,
Non muta voce il Signor nostro ardito;
Benchè molti vi sian ch’al fero avviso
112Tingan di bianca pallidezza il viso.
XV.
Ma dice: oh quale omai vicina abbiamo
Corona o di martirio, o di vittoria:
L’una spero io ben più; ma non men bramo
116L’altra, ove è maggior merto, e pari gloria.
Questo campo, o fratelli, ove or noi siamo,
Fia tempio sacro ad immortal memoria:
In cui l’età futura addíti e mostri
120Le nostre sepolture, o i trofei nostri.
XVI.
Così parla; e le guardie indi dispone,
E gli ufficj comparte, e la fatica.
Vuol ch’armato ognun giaccia, e non depone
124Ei medesmo gli arnesi, o la lorica.
Era la notte ancor nella stagione
Ch’è più del sonno e del silenzio amica;
Allor che d’urli barbareschi udissi
128Romor che giunse al cielo ed agli abissi.
XVII.
Si grida all’arme, all’arme; e Sveno, involto
Nell’arme, innanzi a tutti oltre si spinge:
E magnanimamente i lumi e ’l volto
132Di color, d’ardimento, infiamma e tinge.
Ecco siamo assaliti, e un cerchio folto
Da tutti i lati ne circonda e stringe:
E intorno un bosco abbiam d’aste e di spade,
136E sovra noi di strali un nembo cade.
XVIII.
Nella pugna inegual (perocchè venti
Gli assalitori sono incontra ad uno)
Molti d’essi piagati, e molti spenti
140Son da cieche ferite all’aer bruno.
Ma il numero degli egri e de’ cadenti
Fra l’ombre oscure non discerne alcuno.
Copre la notte i nostri danni, e l’opre
144Della nostra virtute insieme copre.
XIX.
Pur sì fra gli altri Sveno alza la fronte,
Ch’agevol è che ognun vedere il possa:
E nel bujo sue prove anco son conte
148A chi vi mira, e l’incredibil possa.
Di sangue un rio, d’uomini uccisi un monte
D’ogn’intorno gli fanno argine, e fossa:
E dovunque ne va sembra che porte
152Lo spavento negli occhj, e in man la morte.
XX.
Così pugnato fu, finchè l’albóre
Rosseggiando nel Ciel già n’apparia.
Ma poi che scosso fu il notturno orrore
156Che l’orror delle morti in se copria,
La desiata luce a noi terrore
Con vista accrebbe dolorosa e ria;
Chè pien d’estinti il campo, e quasi tutta
160Nostra gente vedemmo omai distrutta.
XXI.
Duomila fummo, e non siam cento; or quando
Tanto sangue egli mira e tante morti,
Non so se ’l cor feroce al miserando
164Spettacolo si turbi, e si sconforti;
Ma già no ’l mostra; anzi la voce alzando,
Seguiam, ne grida, que’ compagni forti
Ch’al Ciel, lunge dai laghi Averni e Stigj,
168N’han segnati col sangue alti vestigj.
XXII.
Disse; e lieto, cred′io, della vicina
Morte, così nel cor come al sembiante,
Incontro alla barbarica ruina
172Portonne il petto intrepido e costante.
Tempra non sosterrebbe, ancor che fina
Fosse, e d’acciajo nò, ma di diamante,
I feri colpi ond′egli il campo allaga:176E fatto è il corpo suo solo una piaga.
XXIII.
La vita nò, ma la virtù sostenta
Quel cadavero indomito e feroce.
Ripercuote percosso, e non s’allenta;180Ma quanto offeso è più, tanto più noce:
Quando ecco, furiando, a lui s’avventa
Uom grande c’ha sembiante e guardo atroce,
E dopo lunga ed ostinata guerra,
184Con l’aita di molti, alfin l’atterra.
XXIV.
Cade il Garzone invitto (ahi caso amaro!)
Nè v’è fra noi chi vendicare il possa.
Voi chiamo in testimonio, o del mio caro
188Signor sangue ben sparso e nobil’ossa,
Ch’allor non fui della mia vita avaro,
Nè schivai ferro, nè schivai percossa;
E se piaciuto pur fosse là sopra
192Ch’io vi morissi, il meritai con l’opra.
XXV.
Fra gli estinti compagni io sol cadei
Vivo: nè vivo forse è chi mi pensi.
Nè de’ nemici più cosa saprei
196Ridir, sì tutti avea sopiti i sensi.
Ma poichè tornò il lume agli occhj miei,
Ch’eran d’atra caligine condensi,
Notte mi parve; ed allo sguardo fioco
200S’offerse il vacillar d’un picciol foco.
XXVI.
Non rimaneva in me tanta virtude
Ch’a discerner le cose io fossi presto;
Ma vedea come quei ch’or apre, or chiude
204Gli occhj, mezzo tra ’l sonno e l’esser desto:
E ’l duolo omai delle ferite crude
Più cominciava a farmisi molesto:
Chè l’inaspria l’aura notturna e ’l gelo,
208In terra nuda e sotto aperto Cielo.
XXVII.
Più e più ognor s’avvicinava intanto
Quel lume, e insieme un tacito bisbiglio:
Sicch’a me giunse, e mi si pose accanto.
212Alzo allor, bench’appena, il debil ciglio,
E veggio due vestiti in lungo manto
Tener due faci, e dirmi sento: o figlio,
Confida in quel Signor ch’a’ pii sovviene,
216E con la grazia i preghi altrui previene.
XXVIII.
In tal guisa parlommi; indi la mano,
Benedicendo, sovra me distese:
E susurrò con suon devoto e piano
220Voci allor poco udite, e meno intese.
Sorgi, poi disse, ed io leggiero e sano
Sorgo, e non sento le nemiche offese:
(Oh miracol gentile!) anzi mi sembra
224Piene di vigor novo aver le membra.
XXIX.
Stupido li riguardo, e non ben crede
L’anima sbigottita il certo e il vero:
Onde l’un d’essi a me: di poca fede,
228Che dubbi? o che vaneggia il tuo pensiero?
Verace corpo è quel che in noi si vede:
Servi siam di Gesù, che ’l lusinghiero
Mondo, e ’l suo falso dolce abbiam fuggito,
232E quì viviamo in loco aspro e romito.
XXX.
Me per ministro a tua salute eletto
Ha quel Signor che in ogni parte regna:
Chè per ignobil mezzo oprar effetto
236Maraviglioso ed alto ei non isdegna.
Nè men vorrà che sì resti negletto
Quel corpo in cui già visse alma sì degna:
Lo qual con essa ancor, lucido e leve
240E immortal fatto, riunir si deve.
XXXI.
Dico il corpo di Sveno, a cui fia data
Tomba a tanto valor conveniente,
La quale a dito mostra ed onorata
244Ancor sarà dalla futura gente.
Ma leva omai gli occhj alle stelle, e guata
Là splender quella come un Sol lucente:
Questa co’ vivi raggj or ti conduce
248Là dove è il corpo del tuo nobil Duce.
XXXII.
Allor vegg’io che dalla bella face,
Anzi dal Sol notturno un raggio scende
Che dritto là dove il gran corpo giace,
252Quasi aureo tratto di pennel, si stende:
E sovra lui tal lume e tanto face,
Ch’ogni sua piaga ne sfavilla e splende:
E subito da me si raffigura
256Nella sanguigna orribile mistura.
E sovra lui tal lume e tanto face, |
XXXIII.
Giacea prono non già, ma come volto
Ebbe sempre alle stelle il suo desire,
Dritto ei teneva inverso il Cielo il volto,
260In guisa d’uom che pur là suso aspire.
Chiusa la destra, e ’l pugno avea raccolto,
E stretto il ferro, e in atto è di ferire:
L’altra sul petto in modo umile e pio
264Si posa, e par che perdon chieggia a Dio.
XXXIV.
Mentre io le piaghe sue lavo col pianto,
Nè però sfogo il duol che l’alma accora;
Gli aprì la chiusa destra il vecchio santo,
268E ’l ferro che stringea trattone fuora:
Questa, a me disse, ch’oggi sparso ha tanto
Sangue nemico, e n’è vermiglia ancora,
È, come sai, perfetta: e non è forse
272Altra spada che debba a lei preporse.
XXXV.
Onde piace là su, che s’or la parte
Dal suo primo signore acerba morte,
Oziosa non resti in questa parte;
276Ma di man passi in mano ardita e forte,
Che l’usi poi con egual forza ed arte;
Ma più lunga stagion con lieta sorte:
E con lei faccia, perchè a lei s’aspetta,
280Di chi Sveno le uccise aspra vendetta.
XXXVI.
Soliman Sveno uccise, e Solimano
Dee per la spada sua restarne ucciso.
Prendila dunque, e vanne ove il Cristiano
284Campo fia intorno all’alte mura assiso:
E non temer che nel paese estrano
Ti sia il sentier di novo anco preciso;
Chè t’agevolerà per l’aspra via
288L’alta destra di lui ch’or là t’invia.
XXXVII.
Quivi egli vuol che da cotesta voce,
Che viva in te servò, si manifesti
La pietate, il valor, l’ardir feroce
292Che nel diletto tuo Signor vedesti;
Perchè a segnar della purpurea Croce
L’arme, con tale esempio, altri si desti:
Ed ora, e dopo un corso anco di lustri
296Infiammati ne sian gli animi illustri.
XXXVIII.
Resta che sappia tu chi sia colui
Che deve della spada esser erede.
Questi è Rinaldo il giovinetto, a cui
300Il pregio di fortezza ogn’altro cede.
A lui la porgi, e dì, che sol da lui
L’alta vendetta il Cielo e ’l mondo chiede.
Or mentre io le sue voci intento ascolto,
304Fui da miracol novo a se rivolto.
XXXIX.
Chè là dove il cadavero giacea,
Ebbi improvviso un gran sepolcro scorto,
Che sorgendo rinchiuso in se l’avea,
308Come non so, nè con qual’arte sorto:
E in brevi note altrui vi si sponea
Il nome, e la virtù del guerrier morto.
Io non sapea da tal vista levarmi,
312Mirando ora le lettre, ed ora i marmi.
XL.
Quì, disse il vecchio, appresso ai fidi amici
Giacerà del tuo Duce il corpo ascoso;
Mentre gli spirti amando in Ciel felici
316Godon perpetuo bene e glorioso.
Ma tu col pianto omai gli estremi uficj
Pagato hai loro, e tempo è di riposo.
Oste mio ne sarai sinch’al viaggio
320Mattutin ti risvegli il novo raggio.
XLI.
Tacque; e per lochi ora sublimi or cupi
Mi scorse, onde a gran pena il fianco trassi;
Sinch’ove pende da selvagge rupi
324Cava spelonca raccogliemmo i passi.
Questo è il suo albergo: ivi fra gli orsi e i lupi,
Col discepolo suo, sicuro stassi;
Chè difesa miglior ch’usbergo e scudo,
328È la santa innocenza al petto ignudo.
XLII.
Silvestre cibo, e duro letto porse
Quivi alle membra mie posa e ristoro.
Ma poi ch’accesi in Oriente scorse
332I raggj del mattin purpurei e d’oro;
Vigilante ad orar subito sorse
L’uno e l’altro Eremita, ed io con loro.
Dal santo vecchio poi congedo tolsi,
336E quì, dov’egli consigliò, mi volsi.
XLIII.
Quì si tacque il Tedesco; e gli rispose
Il pio Buglione: o cavalier, tu porte
Dure novelle al campo e dolorose,
340Onde a ragion si turbi e si sconforte:
Poichè genti sì amiche e valorose
Breve ora ha tolte, e poca terra assorte:
E in guisa d’un baleno il Signor vostro
344S’è in un sol punto dileguato, e mostro.
XLIV.
Ma che? felice è cotal morte e scempio,
Via più ch’acquisto di provincie e d’oro:
Nè dar l’antico Campidoglio esempio
348D’alcun può mai sì glorioso alloro.
Essi del Ciel nel luminoso tempio
Han corona immortal del vincer loro.
Ivi, cred’io, che le sue belle piaghe
352Ciascun lieto dimostri, e se n’appaghe.
XLV.
Ma tu ch’alle fatiche, ed al periglio
Nella milizia ancor resti del mondo;
Devi gioir de’ lor trionfi, e ’l ciglio
356Render, quanto conviene, omai giocondo.
E perchè chiedi di Bertoldo il figlio,
Sappi, ch’ei fuor dell’oste è vagabondo;
Nè lodo io già che dubbia via tu prenda,
360Pria che di lui certa novella intenda.
XLVI.
Questo lor ragionar nell’altrui mente
Di Rinaldo l’amor desta, e rinnova:
E v’è chi dice: ahi fra Pagana gente
364Il giovinetto errante or si ritrova:
E non v’è quasi alcun che non rammente,
Narrando al Dano, i suoi gran fatti a prova;
E dell’opere sue la lunga tela
368Con istupor gli si dispiega, e svela.
XLVII.
Or quando del garzon la rimembranza
Avea gli animi tutti inteneriti;
Ecco molti tornar che, per usanza,
372Eran d’intorno a depredare usciti.
Conducean questi seco in abbondanza
E mandre di lanuti, e buoi rapiti,
E biade ancor, benchè non molte, e strame
376Che pasca de’ corsier l’avida fame.
XLVIII.
E questi di sciagura aspra e nojosa
Segno portar, che in apparenza è certo:
Rotta del buon Rinaldo e sanguinosa
380La sopravvesta, ed ogni arnese aperto.
Tosto si sparse (e chi potria tal cosa
Tener celata?) un romor vario, e incerto.
Corre il volgo dolente alle novelle
384Del guerriero, e dell’arme, e vuol vedelle.
XLIX.
Vede, e conosce ben l’immensa mole
Del grande usbergo, e ’l folgorar del lume,
E l’armi tutte, ove è l’augel ch’al Sole
388Prova i suoi figlj e mal crede alle piume:
Chè di vederle già primiere o sole,
Nelle imprese più grandi, ebbe in costume:
Ed or, non senza alta pietate ed ira,
392Rotte e sanguigne ivi giacer le mira.
L.
Mentre bisbiglia il campo, e la cagione
Della morte di lui varia si crede;
A se chiama Aliprando il pio Buglione,
396Duce di quei che ne portar le prede,
Uom di libera mente, e di sermone
Veracissimo e schietto, ed a lui chiede:
Dì come, e donde tu rechi quest’arme,
400E di buono o di reo nulla celarme.
LI.
Gli rispose colui: Di quì lontano
Quanto in due giorni un messaggiero andria,
Verso il confin di Gaza, un picciol piano
404Chiuso tra colli alquanto è fuor di via:
E in lui d’alto deriva, e lento e piano,
Tra pianta e pianta, un fiumicel s’invia:
E d’arbori e di macchie, ombroso e folto,
408Opportuno alle insidie il loco è molto.
LII.
Quì greggia alcuna cercavam che fosse
Venuta ai paschi dell’erbose sponde;
E in sull’erbe, miriam, di sangue rosse
412Giacerne un guerrier morto in riva all’onde.
All’arme, ed all’insegne ogn’uom si mosse:
Chè furon conosciute, ancorchè immonde.
Io m’appressai per discoprirgli il viso;
416Ma trovai ch’era il capo indi reciso.
LIII.
Mancava ancor la destra: e ’l busto grande
Molte ferite avea dal tergo al petto:
E non lontan con l’Aquila, che spande
420Le candide ali, giacea il voto elmetto.
Mentre cerco d’alcuno a cui dimande,
Un villanel sopraggiungea soletto:
Che indietro il passo, per fuggirne, torse
424Subitamente che di noi s’accorse.
LIV.
Ma seguitato e preso, alla richiesta
Che noi gli facevamo, alfin rispose
Che ’l giorno innanzi uscir della foresta
428Scorse molti guerrieri, onde ei s’ascose:
E ch’un d’essi tenea recisa testa
Per le sue chiome bionde, e sanguinose,
La qual gli parve, rimirando intento,
432D’uom giovinetto, e senza peli al mento.
LV.
E che ’l medesmo poco poi l’avvolse
In un zendado dall’arcion pendente.
Soggiunse ancor, ch’all’abito raccolse
436Ch’erano i cavalier di nostra gente.
Io spogliar feci il corpo, e sì men dolse,
Che piansi nel sospetto amaramente:
E portai meco l’arme, e lasciai cura
440Ch’avesse degno onor di sepoltura.
LVI.
Ma se quel nobil tronco è quel ch’io credo,
Altra tomba, altra pompa egli ben merta.
Così detto, Aliprando ebbe congedo,
444Perocchè cosa non avea più certa.
Rimase grave, e sospirò Goffredo;
Pur nel tristo pensier non si raccerta:
E con più chiari segni il monco busto
448Conoscer vuole, e l’omicida ingiusto.
LVII.
Sorgea la notte intanto, e sotto l’ali
Ricopriva del Cielo i campi immensi:
E ’l sonno ozio dell’alme, oblio de’ mali,
452Lusingando sopía le cure, e i sensi;
Tu sol punto, Argillan, d’acuti strali
D’aspro dolor, volgi gran cose, e pensi:
Nè l’agitato sen, nè gli occhj ponno
456La quiete raccorre, o ’l molle sonno.
LVIII.
Costui pronto di man, di lingua ardito,
Impetuoso, e fervido d’ingegno,
Nacque in riva del Tronto, e fu nutrito,
460Nelle risse civil, d’odio e di sdegno.
Poscia, in esiglio spinto, i colli e ’l lito
Empì di sangue, e depredò quel regno,
Sinchè nell’Asia a guerreggiar sen venne,
464E per fama miglior chiaro divenne.
LIX.
Alfin questi sull’alba i lumi chiuse:
Nè già fu sonno il suo queto e soave;
Ma fu stupor, ch’Aletto al cor gl’infuse,
468Non men che morte sia, profondo e grave.
Sono le interne sue virtù deluse,
E riposo dormendo anco non ave;
Chè la furia crudel gli s’appresenta
472Sotto orribili larve, e lo sgomenta.
LX.
Gli figura un gran busto, ond’è diviso
Il capo, e della destra il braccio è mozzo:
E sostien con la manca il teschio inciso,
476Di sangue e di pallor, livido e sozzo.
Spira, e parla spirando il morto viso,
E ’l parlar vien col sangue, e col singhiozzo:
Fuggi Argillan, non vedi omai la luce?
480Fuggi le tende infami, e l’empio Duce.
LXI.
Chi dal fero Goffredo, e dalla frode
Ch’uccise me, voi cari amici affida?
D’astio dentro il fellon tutto si rode,
484E pensa sol come voi meco uccida.
Pur, se cotesta mano a nobil lode
Aspira, e in sua virtù tanto si fida,
Non fuggir nò: plachi il Tiranno esangue
488Lo spirto mio col suo malvagio sangue.
LXII.
Io sarò teco ombra, di ferro e d’ira
Ministra, e t’armerò la destra e ’l seno.
Così gli parla; e nel parlar gli spira
492Spirito novo di furor ripieno.
Si rompe il sonno: e sbigottito ei gira
Gli occhj gonfj di rabbia e di veleno:
Ed armato ch’egli è, con importuna
496Fretta, i guerrier d’Italia insieme aduna.
LXIII.
Gli aduna là dove sospese stanno
L’arme del buon Rinaldo, e con superba
Voce, il furore e ’l conceputo affanno
500In tai detti divulga, e disacerba:
Dunque un popolo barbaro e tiranno
Che non prezza ragion, che fe non serba,
Che non fu mai di sangue e d’or satollo,
504Ne terrà ’l freno in bocca, e ’l giogo al collo?
LXIV.
Ciò che sofferto abbiam d’aspro e d’indegno
Sette anni omai sotto sì iniqua soma,
È tal, ch’arder di scorno, arder di sdegno
508Potrà da quì a mill’anni Italia e Roma.
Taccio, che fu dall’arme e dall’ingegno
Del buon Tancredi la Cilicia doma,
E ch’ora il Franco a tradigion la gode:
512E i premj usurpa del valor la frode.
LXV.
Taccio, ch’ove il bisogno e ’l tempo chiede
Pronta man, pensier fermo, animo audace;
Alcuno ivi di noi primo si vede
516Portar fra mille morti o ferro, o face.
Quando le palme poi, quando le prede
Si dispensan nell’ozio e nella pace,
Nostri non sono già, ma tutti loro
520I trionfi, gli onor, le terre, l’oro.
LXVI.
Tempo forse già fu, che gravi e strane
Ne potevan parer sì fatte offese;
Quasi lievi or le passo: orrenda immane
524Ferità leggierissime le ha rese.
Hanno ucciso Rinaldo, e con le umane
L’alte leggi divine han vilipese.
E non fulmina il Cielo? e non l’inghiotte
528La terra entro la sua perpetua notte?
LXVII.
Rinaldo han morto, il qual fu spada e scudo
Di nostra fede; ed ancor giace inulto?
Inulto giace: e sul terreno ignudo
532Lacerato il lasciaro, ed insepulto.
Ricercate saper chi fosse il crudo?
A chi puote, o compagni, esser occulto?
Deh chi non sa quanto al valor Latino
536Portin Goffredo invidia, e Baldovino?
LXVIII.
Ma chè cerco argomenti? Il Cielo io giuro,
Il Ciel che n’ode, e ch’ingannar non lice;
Ch’allor che si rischiara il mondo oscuro,
540Spirito errante il vidi ed infelice.
Che spettacolo, oimè, crudele e duro!
Quai frode di Goffredo a noi predice!
Io ’l vidi, e non fu sogno: e ovunque or miri,
544Par che dinanzi agli occhj miei s’aggiri.
LXIX.
Or che faremo noi? dee quella mano,
Che di morte sì ingiusta è ancora immonda,
Reggerci sempre? o pur vorrem lontano
548Girne da lei dove l’Eufrate inonda?
Dove a popolo imbelle in fertil piano
Tante ville e città nutre, e feconda:
Anzi a noi pur; nostre saranno, io spero,
552Nè co’ Franchi comune avrem l’impero.
LXX.
Andianne, e resti invendicato il sangue
(Se così parvi) illustre ed innocente.
Benchè se la virtù, che fredda langue,
556Fosse ora in voi, quanto dovrebbe, ardente;
Questo, che divorò pestifero angue
Il pregio e ’l fior della Latina gente,
Daria con la sua morte, e con lo scempio
560Agli altri mostri memorando esempio.
LXXI.
Io io vorrei, se ’l vostro alto valore,
Quanto egli può, tanto voler osasse,
Ch’oggi per questa man nell’empio core,
564Nido di tradigion, la pena entrasse.
Così parla agitato, e nel furore
E nell’impeto suo ciascuno ei trasse.
Arme arme freme il forsennato, e insieme
568La gioventù superba arme arme freme.
LXXII.
Rota Aletto fra lor la destra armata,
E col foco il velen ne’ petti mesce.
Lo sdegno, la follia, la scellerata
572Sete del sangue ogn’or più infuria, e cresce;
E serpe quella peste, e si dilata,
E degli alberghi Italici fuor n’esce:
E passa fra gli Elvezj, e vi s’apprende,
576E di là poscia anco agl’Inglesi tende.
LXXIII.
Nè sol l’estrane genti avvien che muova
Il duro caso, e ’l gran pubblico danno:
Ma le antiche cagioni all’ira nuova
580Materia insieme, e nutrimento danno.
Ogni sopito sdegno or si rinnuova:
Chiamano il popol Franco empio e tiranno:
E in superbe minacce esce diffuso
584L’odio, che non può starne omai più chiuso.
LXXIV.
Così nel cavo rame umor che bolle
Per troppo foco, entro gorgoglia e fuma:
Nè capendo in se stesso, alfin s’estolle
588Sovra gli orli del vaso, e inonda, e spuma.
Non bastano a frenar il volgo folle
Que’ pochi, a cui la mente il vero alluma.
E Tancredi, e Camillo eran lontani,
592Guglielmo, e gli altri in podestà soprani.
LXXV.
Corrono già precipitosi all’armi
Confusamente i popoli feroci:
E già s’odon cantar bellici carmi
596Sediziose trombe in fere voci.
Gridano intanto al pio Buglion che s’armi,
Molti di qua di là nunzj veloci;
E Baldovino innanzi a tutti armato
600Gli s’appresenta, e gli si pone a lato.
LXXVI.
Egli ch’ode l’accusa, i lumi al Cielo
Drizza, e pur come suole, a Dio ricorre:
Signor, tu che sai ben con quanto zelo
604La destra mia dal civil sangue abborre;
Tu squarcia a questi della mente il velo,
E reprimi il furor che sì trascorre:
E l’innocenza mia, che costà sopra
608È nota, al mondo cieco anco si scopra.
LXXVII.
Tacque: e, dal Cielo infuso, ir fra le vene
Sentissi un novo inusitato caldo:
Colmo d’alto vigor, d’ardita spene
612Che nel volto si sparge, e ’l fa più baldo,
E da’ suoi circondato, oltre sen viene
Contra chi vendicar credea Rinaldo:
Nè perchè d’arme e di minacce senta
616Fremito d’ogni intorno, il passo allenta.
LXXVIII.
Ha la corazza indosso, e nobil veste
Riccamente l’adorna oltra ’l costume:
Nudo è le mani e ’l volto, e di celeste
620Maestà vi risplende un novo lume:
Scuote l’aurato scettro; e sol con queste
Arme acquetar quegl’impeti presume.
Tal si mostra a coloro, e tal ragiona:
624Nè come d’uom mortal la voce suona.
LXXIX.
Quali stolte minacce, e quale or odo
Vano strepito d’arme? e chi ’l commove?
Così quì riverito, e in questo modo
628Noto son io dopo sì lunghe prove?
Ch’ancor v’è chi sospetti, e chi di frodo
Goffredo accusi, e chi le accuse approve?
Forse aspettate ancor ch’a voi mi pieghi,
632E ragioni v’adduca, e porga preghi?
LXXX.
Ah non sia ver che tanta indegnitate
La terra, piena del mio nome, intenda:
Me questo scettro, me delle onorate
636Opre mie la memoria, e ’l ver difenda:
E per or la giustizia alla pietate
Ceda, nè sovra i rei la pena scenda.
Agli altri merti or questo error perdono,
640Ed al vostro Rinaldo anco vi dono.
LXXXI.
Col sangue suo lavi il comun difetto
Solo Argillan, di tante colpe autore:
Che mosso a leggierissimo sospetto,
644Sospinti gli altri ha nel medesmo errore.
Lampi e folgori ardean nel regio aspetto,
Mentre ei parlò, di maestà d’orrore;
Talchè Argillano attonito e conquiso
648Teme (chi ’l crederia?) l’ira d’un viso.
LXXXII.
E ’l volgo, ch’anzi irriverente, audace
Tutto fremer s’udia d’orgoglj e d’onte;
E ch’ebbe al ferro, all’aste ed alla face
652Che ’l furor ministrò, le man sì pronte;
Non osa (e i detti alteri ascolta, e tace)
Fra timor e vergogna alzar la fronte:
E sostien ch’Argillano, ancorchè cinto
656Dell’arme lor, sia da’ ministri avvinto.
LXXXIII.
Così leon, ch’anzi l’orribil coma
Con muggíto scotea superbo e fero;
Se poi vede il maestro onde fu doma
660La natia ferità del core altero;
Può del giogo soffrir l’ignobil soma,
E teme le minacce, e ’l duro impero:
Nè i gran velli, i gran denti, e l’unghie ch’hanno
664Tanta in se forza, insuperbire il fanno.
LXXXIV.
È fama che fu visto, in volto crudo
Ed in atto feroce e minacciante
Un alato guerrier tener lo scudo
668Della difesa al pio Buglion davante:
E vibrar fulminando il ferro ignudo,
Che di sangue vedeasi ancor stillante.
Sangue era forse di città, e di regni
672Che provocar del Cielo i tardi sdegni.
LXXXV.
Così, cheto il tumulto, ognun depone
L’arme, e molti con l’arme il mal talento.
E ritorna Goffredo al padiglione,
676A varie cose, a nove imprese intento:
Ch’assalir la cittate egli dispone,
Pria che ’l secondo, o ’l terzo dì sia spento:
E rivedendo va l’incise travi,
680Già in machine conteste orrende, e gravi.