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CANTO OTTAVO. 269

LXXXIII.


     Così leon, ch’anzi l’orribil coma
Con muggíto scotea superbo e fero;
Se poi vede il maestro onde fu doma
660La natia ferità del core altero;
Può del giogo soffrir l’ignobil soma,
E teme le minacce, e ’l duro impero:
Nè i gran velli, i gran denti, e l’unghie ch’hanno
664Tanta in se forza, insuperbire il fanno.

LXXXIV.


     È fama che fu visto, in volto crudo
Ed in atto feroce e minacciante
Un alato guerrier tener lo scudo
668Della difesa al pio Buglion davante:
E vibrar fulminando il ferro ignudo,
Che di sangue vedeasi ancor stillante.
Sangue era forse di città, e di regni
672Che provocar del Cielo i tardi sdegni.

LXXXV.


     Così, cheto il tumulto, ognun depone
L’arme, e molti con l’arme il mal talento.
E ritorna Goffredo al padiglione,
676A varie cose, a nove imprese intento:
Ch’assalir la cittate egli dispone,
Pria che ’l secondo, o ’l terzo dì sia spento:
E rivedendo va l’incise travi,
680Già in machine conteste orrende, e gravi.

Fine del canto ottavo