Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
CANTO OTTAVO. | 263 |
LXV.
Taccio, ch’ove il bisogno e ’l tempo chiede
Pronta man, pensier fermo, animo audace;
Alcuno ivi di noi primo si vede
516Portar fra mille morti o ferro, o face.
Quando le palme poi, quando le prede
Si dispensan nell’ozio e nella pace,
Nostri non sono già, ma tutti loro
520I trionfi, gli onor, le terre, l’oro.
LXVI.
Tempo forse già fu, che gravi e strane
Ne potevan parer sì fatte offese;
Quasi lievi or le passo: orrenda immane
524Ferità leggierissime le ha rese.
Hanno ucciso Rinaldo, e con le umane
L’alte leggi divine han vilipese.
E non fulmina il Cielo? e non l’inghiotte
528La terra entro la sua perpetua notte?
LXVII.
Rinaldo han morto, il qual fu spada e scudo
Di nostra fede; ed ancor giace inulto?
Inulto giace: e sul terreno ignudo
532Lacerato il lasciaro, ed insepulto.
Ricercate saper chi fosse il crudo?
A chi puote, o compagni, esser occulto?
Deh chi non sa quanto al valor Latino
536Portin Goffredo invidia, e Baldovino?