Filippo Chiappini

Francesco Sabatini (filologo) Indice:Francesco Sabatini - Il volgo di Roma - 1890.pdf Gaetanaccio Intestazione 14 luglio 2024 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Il volgo di Roma


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GAETANACCIO.


In una botteguccia di caffè, dove io càpito qualche volta, vengono la sera alcuni vecchi popolani, romani di Roma, i quali, sorbito il lor gotto, si trattengono quivi a far conversazione finchè vien l’ora d’andarsene a letto. A sentire le loro chiacchiere c’è da fare le matte risate. Se fra loro cade il discorso su qualche benefattore dell’umanità, che presta il denaro all’un per cento.... la settimana, essi borbottano fra i denti: «Ce vorebbe Ghetanaccio pe’ ddaje ’ na lezzione, comme se la merita!» Se parlano di un impiegato, magari d’un usciere, che avanza di grado per intercessione di san Martino, essi da capo: «Ce vorebbe Ghetanaccio pe’ mmette in piazza quela robba che pporta in fronte!» Così se discorrono di padroni di case, che ad ogni scadenza rincarano il fitto agli inquilini; di venditori di commestibili, che fanno ballar la stadera quando incontrano il compratore inesperto; d’osti ribaldi che [p. 10 modifica]vendono un vino che non è vino, torna sempre sulle loro bocche il nome di Gaetanaccio: «Ce vorebbe lui pe’ ddaje ’ na susta; ce vorebbe lui pe’ cconsolalli. Ma nun c’è rimedio. Ghetanaccio è mmorto, e un antro uguale nu’ ne viè’ ppiù».

Avendo io nella sopraddetta bottega udito ripetere le mille volte cotesto nome di Gaetanaccio nei discorsi di quei popolani, mi venne voglia di saper chi egli fosse, e così fu che mi diedi a cercare le sue memorie, e mi venne fatto di trovarne qualcuna.

Gaetano Santangelo, conosciuto col nomignolo di Ghetanaccio, era un burattinaio che visse in Roma tra la fine del secolo passato e il cominciare del nostro. Nato in Borgo Vecchio, all’ombra della gran cupola, da una coppia di genitori che stavano a quattrini come sant’Onofrio a calzoni, egli andava girando per la città, recandosi sulle spalle un castello di legno, o, come si dice, un casotto, nel quale, con certi mostricciattoli, che si fabbricava da se stesso, dava in piazza le sue rappresentazioni. Il popolo stava ad ascoltarlo a bocca spalancata.

Egli sapeva imitare tutte le voci, non che degli uomini, ma anche degli animali; sapeva recitare tutti i dialetti, sapeva parodiare tutti i linguaggi, sapeva trovare in ogni cosa il lato ridicolo; se fingeva di piangere, il suo pianto pareva vero; se rideva, bisognava rider con lui.

Ma ciò che soprattutto lo rendeva gradito [p. 11 modifica]erano le satire, le arguzie e le facezie che gli germogliavano sulle labbra, senza che l’una aspettasse l’altra. Con queste droghe egli condiva le sue commediole, che componeva da se stesso, e recitava a soggetto, desumendone gli argomenti da scandali o da pettegolezzi, che gli venivano raccontati, o da fatti di cui egli stesso era stato testimonio e, spesse volte, anche parte.

Il suo casotto era una gogna, sulla quale egli metteva in ridicolo ogni sorta di persone.

Nessuno, che avesse un debito da pagare al popolo, poteva sottrarsi alla sua mordacità, nemmeno il Governo, contro il quale lanciava spessissimo le sue satire, senza curarsi del danno che gliene potesse sopravvenire.

Lo menavano in prigione? Egli ci andava volentierissimo, pur di levarsi il ruzzo dal capo.

Il suo personaggio principale era Rugantino, maschera romanesca, della quale non veggo far motto nè dal Muzzi, nè da altri, che hanno scritto delle maschere italiane.1

Rugantino è la caricatura dello sgherro romanesco. La sua figura è oltremodo ridicola: statura bassa, testa grossissima appiccata sopra un busto tozzo e scontraffatto, braccia sottili, mani somiglianti a pale di remo, con cui potrebbe allacciarsi le scarpe senza inchinarsi, gambe [p. 12 modifica]tisiche come le braccia, inarcate all'indietro in forma di O, natte disseminate in tutta la persona. Veste una giubba di panno rosso con falde corte a coda di rondine, corpetto e calzoni corti dello stesso colore, scarpe con fibbie, cappello altissimo a forma d'incudine, ai fianchi una fascia nella quale porta infilati due coltellacci. Rugantino mostra nel suo vestiario che la sua schiatta non può vantare l'antichità di Pantalone e del Dottor bolognese, e ch'essa risale appena al principio del secolo scorso. Egli parla il vernacolo romanesco, e ogni tratto ripete l'esclamazione : « Sangue d'un dua ! » Sempre minaccioso, dice che gli uomini gli paiono mosche, che con un pugno sfonda il cielo, con un calcio subissa la terra ; ma poi .... non c'è poltrone che, mostrandogli i denti, non sia capace di spolverargli la schiena.

Per conoscere meglio il carattere di Rugantino, bisogna vederlo in una scenetta di Gaetanaccio.

Rugantino sta in cantina ; vien uno, e lo chiama :

Rugantino !

Chi mme vo' ?

Viè' ssu.

Nun posso.

Viè' ssu, tte dico.

Nun posso : sto a vvotà' er vino.

C'è uno che tte vo' dda' ' na cortellata.

È ggiovene o vvecchio ? [p. 13 modifica]

È ggiovene.

È arto o bbasso?

È arto: pare un gigante!

Ecchime che vviengo.

Rugantino vien fuori, e trova un romanesco che, appena lo vede, gli salta addosso e gli dà un carico di legnate.

Rugantino grida, piange, si raccomanda, e finalmente cade per terra mezzo tramortito. Rimasto solo si alza, si scuote come un cane uscito dall’acqua, ed esclama con voce minacciosa: «Si mme n’accojeva una, ridèmio!»

Gaetanaccio introduceva nelle sue commedie anche il Pulcinella, dandogli la parola per mezzo della pivetta, strumento usato dai burattinai, quando non fanno parlar Pulcinella in dialetto napoletano.

La pivetta è formata da due pezzi di latta riuniti da un cordone, attraverso ai quali passando la voce, acquista un suono stridulo e ridicolo, somigliante al chiocciare di una gallina.

Sebbene Gaetanaccio fosse abilissimo nel cacciarsi in gola e ricacciarne cotesto strumento, pure accadde più d’una volta che il medesimo gli s’incastrò nelle fauci, talchè per estrarnelo, dovette ricorrere all’opera del chirurgo.

Com’egli da sè solo recitava tutte le parti, così da sè solo reggeva e muoveva tutti i suoi burattini, talvolta cinque o sei insieme, con tanta maestria, che quei mostricciattoli tra le sue [p. 14 modifica]mani sembravano uomini vivi. Bastava vedere una loro mossa per isbellicarsi dalle risa.

Quando Gaetanaccio attraversava le vie della città col suo casotto sulle spalle era un correre, un affollarsi di gente da tutte le parti. Al suono della sua pivetta si fermavano non solo gli artigiani, i rivenduglioli, i carrettieri, ma anche le persone della più civil condizione. L’accigliato causidico, il severo esculapio, il superbo professore di lettere non avevano difficoltà di mescolarsi fra i suoi uditori. Perfino i signori, i signori di baldacchino, fermavano spesso le loro carrozze pel gusto di assistere alle sue rappresentazioni.

I suoi motti passavano di bocca in bocca, e molti di essi si ripetevano anche nelle conversazioni di persone per bene: dico molti e non tutti, perchè il suo linguaggio, bisogna pur dirlo, era alle volte improntato da una certa libertà aristofanesca, che non poteva apprezzarsi da persone costumate, che avessero un culto pel galateo.

Non senza perchè il basso popolo lo chiamava col nome di Gaetanaccio.

Comunque sia, una gran parte delle sue arguzie avrebbe meritato di esser raccolta, e se alcuno ci fosse stato che avesse fatto questo lavoro, noi avremmo adesso un grazioso volume che, pel suo genere, potrebbe stare a paro con le Scaramucciane di Tiberio Fiorilli, e coi Brighelleschi di Atanasio Zannoni.

[p. 15 modifica]Io ho udito raccontare alcune delle sue scene e delle sue facezie da quei vecchi popolani che ho nominato pocanzi; e sebbene essi dicano che non sono delle migliori, pure mi piace di riferirle per dare un’idea del carattere di cotesto romanesco, che fu il sollazzo dei nostri nonni.

Gaetanaccio andò una mattina a comprarsi due baiocchi di salame in una pizzicheria posta sulla piazza di San Carlo al Corso.

Quel pizzicagnolo, abituato alla frode, lo servì così male, che non gli diede nemmeno la metà di quel che doveva.

Gaetanaccio stizzito gli promise di fargliela scontare.

Dopo alcune ore egli tornò sulla medesima piazza e piantò il suo casotto avanti alla pizzicheria. Suona la pivetta, s’affolla la gente, si alza il sipario.

Esce fuori Rugantino piangendo dirottamente perchè, essendogli nati tre figli, una zingara gli ha predetto che il primo di essi deve ammazzare, il secondo dev’essere ammazzato e il terzo deve fare il ladro.

Poveri fiji mii, grida Rugantino, tutt’e ttre hanno d’anna’ a ffini’ mmale!...

Mentre Rugantino sta singhiozzando, gli comparisce un Genio, un burattino con due ali di gallina, il quale gli dice:

Rugantino, non piangere, se tu darai ascolto alle mie parole, i tuoi figli finiranno bene.

[p. 16 modifica]Da vero, sor coso mio? Parlate, sbiferate, ch’io ve sto a ssenti’ co’ ddu’ parmi d’orecchie.

Il primo de’ tuoi figli è inclinato ad ammazzare? Mettilo a fare il medico, così seconderà la sua inclinazione, e nessuno gli dirà niente.

Sangue d’un dua! Che bella pensata! È vvero, sa’, li medichi ammazzeno, e gnisuno li manna in galera.

Il secondo dev’essere ammazzato? Mettigli un fucile in spalla, mandalo a combattere per la patria, e così morirà onorato.

Bene! Benone! Questa puro me piace. Accusi quer povero fijo farà vvede’ ar monno che ccià ’n de le vene er sangue de su’ patre. Ma er terzo, sor coso mio, er terzo ch’ha da fa’ e’ lladro, comme l’accommidamo?

Mettilo a fare il pizzicarolo, e ruberà a man salva.

Oh cche omo, oh cche omo, che ssete voi! Avete raggione. Que’ lladraccio llà incontro, che mme sta a gguardà’, stammatina pe’ ddu’ buecchi de salame, me n’ha ddate du’ lesche, che ssi’ ammazzato!

A questa scappata i popolani, che attorniavano il casotto, proruppero in una salva di fischi all’indirizzo del pizzicagnolo, il quale, quatto quatto, si ritirò in bottega e si chiuse dentro, temendo di esser preso a sassate.

Nel 1823, quando i Francesi andarono in Ispagna per rimettere sul trono Ferdinando VII, venne in Roma la notizia che, appena comparsi, essi [p. 17 modifica]avevano riportato una solenne vittoria sui ribelli spagnuoli, e li avevano costretti a deporre le armi. L’ambasciatore di Spagna, ch’era qui in Roma presso la Corte pontificia, gongolando dalla gioia, fece cantare il Te Deum nella chiesa di Monserrato; ma, che è, che non è, dopo alcuni giorni si venne a sapere che quella notizia era falsa, e che i Francesi, anzichè una vittoria, avevano avuto una sconfitta.

Gaetanaccio, lesto come un razzo, si presentò sotto il palazzo dell’ambasciata di Spagna, e improvvisò una commediola.

Egli immaginò che Rugantino avesse una serva per nome Vittoria.

Mentre questa stava in cucina ad attendere alle sue faccende, veniva Pulcinella e scaricava su Rugantino una tempesta di bastonate.

Rugantino, colto all’improvviso, non sapendo a chi raccomandarsi, andava girando per la scena gridando: «Vittoria! Vittoria!»

La graziosa trovata del burattinaio piacque ai liberali, e fece torcere il naso ai codini.

Quando Leone XII emanò l’editto che ordinava agli osti di porre un cancelletto sulle porte delle loro botteghe, talchè nessuno potesse entrarvi e trattenersi a bere, Gaetanaccio rimase sconcertato, non sapendo più dove passare le sue ore d’ozio.

Egli allora la prese col papa.

Da quel momento, in tutte le sue commedie, [p. 18 modifica]Rosetta altercava con Rugantino, e gli diceva tutta arrabbiata: «Coraccio de leone! coraccio de leone!» Dàgli oggi, dàgli domani, i birri capirono l’allusione, e portarono il burattinaio in domo Petri, dove son le finestre senza vetri.

Rimesso in libertà, egli si guardò bene dal ripetere quelle parole; ma, morto il papa, tornò da capo.

Coraccio de leone, diceva Rosetta a Rugantino, coraccio de leone, mo’ cche lo posso di'.

Inviperito contro un giudice, che lo aveva fatto stare al fresco parecchi giorni, per alcuni motti pronunciati contro il Governo, appena uscito dal carcere andò a dileggiarlo avanti la sua casa.

Rugantino faceva da giudice.

Entrava Rosetta per presentare una querela.

C’è il giudice?

Ècchime qua. Nu’mme vedete?

Ah! Ah! Voi siete il giudice? E chi vi ci ha fatto?

Chi mme cià ffatto e cchi nu’ mme cià ffatto, a vvoi nun v’ha da interessa’. So’ er giudice.

Guarda lì, chi hanno fatto giudice! Un somaro calzato e vestito.

Dico, sora sposa, stam’attenta come parlamo, sinnò fo un fischio e vve fo mette in catorbia.

Avete ragione, scusate....

E vve fo ttaja’ la linguaccia.... sangue d’un dua!

Così dicendo, Rugantino veniva sul davanti [p. 19 modifica]della scena, e gonfiandosi come un tacchino soggiungeva: «Che bella cosa! Ieri stavo a piazza Navona a vvenne’ le callalèsse, e oggi?... so’ ggiudice!»

Spesso e volentieri Gaetanaccio dava il cardo ai nobili spiantati, che, malgrado i lor debiti, vanno attorno con un sussiego da disgradarne l’imperatore del Celeste impero, e guardando noi, poveri plebeucci, con un occhio di compassione, come se vivessimo per grazia delle signorie loro illustrissime.

Rugantino, servitore presso uno di questi tali, chiedeva a Sua Eccellenza i suoi salari arretrati.

E che, gli rispondeva il padrone, dubiti forse di me? Il tuo salario corre.

È vvero, replicava Rugantino, er salario curre, ma curre tanto, che nu’ lo posso arrivà.

Se Gaetanaccio pigliava l’abbrivo nel criticare i costumi dei nobili, gliene venivano sulla bocca di così nuove e pungenti, che gliele avrebbe invidiate lo stesso Belli.

Rugantino, servitore in una casa signorile, andava disperato in cerca di una balia per la sua padrona.

Perché, gli domandava Pulcinella, li signori fanno allevare i figli dalle balie?

Che nu’ lo sai? gli rispondeva Rugantino, perché imparino da piccinini a succhià er sangue de la povera ggente.

Rugantino, uscendo di casa, incontra Pulcinella.

[p. 20 modifica]Che hai, Purcinella, che tte vedo co’ le paturgne?

Lasciami stare. Ho da dare trenta scudi al padrone di casa.

Te disperi pe’ ttanto poco? Te li presto io.

Da vero?

Adesso te li vado a ppija’.

Rugantino va via, e ritorna.

Purcinella mio, m’arincresce. Ciavevo trenta scudi ggiusti, ma mmi’ moje n’ha spesi quinnici ..

Ci vuo’ pazienza. Dammene quindici.

Adesso te li vado a ppija’.

Rugantino va via, e torna di nuovo.

Purcinella mio, mi’ moje adesso propio n’ha spesi antri tredici; ce ne so’ arimasti dua soli.

Dammene due.

Adesso te li vado a ppija’.

Rugantino va e torna per la terza volta.

Purcinella mio, i’ ’ sto momento è vvienuto er carbonaro, che mmʼavanzava tre scudi; me n’amanca uno pe’ ppagallo. Me lo presti?

Pulcinella, tornando da un lungo viaggio, trova la casa piena di Pulcinelletti.

Meravigliato, domanda a sua moglie:

Chi sono ’ sti scorfani?

Non li vedi? sono i tuoi figli.

Li miei figli?! Io non li conosco.

Come! Non li conosci?

Non li conosco, perchè quando sono partito, questi non c’erano.

[p. 21 modifica]Moglie e marito cominciano a litigare, si riscaldano, s’infuriano, e, per finir la questione, vanno dal giudice.

Il giudice dice a Pulcinella:

Caro Pulcinella, tu sei un uomo ragionevole?

Gnorsì.

Immagina di essere il proprietario di un terreno.

Gnorsì.

Immagina che un uomo, andando alla mola con un sacco di grano sulle spalle, attraversi il tuo terreno.

Gnorsì.

In quel sacco v’è un buco, e da quel buco esce il grano.

Gnorsì.

Il grano caduto nasce....

Gnorsì.

Fa le spighe....

Gnorsì.

Quando le spighe sono mature, l’uomo del sacco viene per raccoglierle.

Gnornò.

— Come! Gnornò? Gnornò, perchè il terreno è mio, e mio deve essere il grano.

Bravo Pulcinella. Tu ti sei giudicato da te stesso. Tua moglie è il tuo terreno, e i bambini sono il grano che vi è nato, i bambini dunque son tuoi.

Pulcinella, persuaso, si piglia in collo i [p. 22 modifica]Pulcinelletti che gli gridano attorno: «papà, papà», saluta il giudice, e se ne va via.

Fra le quinte continuano le grida «papà, papà» e.... cala il sipario.

Sempre perseguitato dal suo padrone di casa, Gaetanaccio si divertiva a metterlo in beffe nelle sue commedie.

Ecco una scena a questo proposito.

Rugantino sta ad abitare in una soffitta, nella quale piove da tutte le parti. Ha la moglie ammalata e una nidiata di figli che si muoiono dalla fame, quando ecco viene il padrone di casa:

Eccoci qua, caro Rugantino; son venuto a sentire se siete comodo di pagarmi i tre mesi, che mi dovete.

Sor Agapito mio, nun vedete s’in che stato m’aritrovo? Mi’ moje sta co’ la frebbe, ’ ste crature da jeri in qua nun se so’ sdiggiunate.

Mi dite da vero? Voi mi lacerate il cuore.

Ma io pure son padre di famiglia, io pure ho degli obblighi....

- Avete raggione. Ma adesso che vv’ho da dà? quello che nun ciò? Si avete pacenza quarc’antro ggiorno....

Pazienza, pazienza! ne ho avuta tanta, che non ne posso aver più. Ecco qua la sentenza del tribunale, che vi condanna allo sfratto.

Sor Agapito mio....

Non c’è misericordia. Ho condotto meco i [p. 23 modifica]cursori, e adesso vi farò mettere sulla strada questi quattro stracci.

Sor Agapito mio, nu’ lo fate pe’ mme, fatelo pe’ sta povera ciurcinata, fatelo pe’ ’ st’anime ’ nnocente. Fiji mii, vienite cqua, bbuttatev’a li piedi de quest’omo, pregatelo vojantri.

I bambini attorniano il padrone di casa, e piangono in coro. Il sor Agapito esclama: «Basta, basta.... M’avete intenerito. l’accordo una dilazione. Ritornerò fra un quarto d’ora».

A proposito del sor Agapito, Gaetanaccio una volta gli fece uno scherzo da prendersi con le molle.

Egli si trovava senza un quattrino, quando intese che il sor Agapito saliva le scale per venire ad esigere la pigione: non sapendo come salvarsi, prese il partito di fingersi morto.

Si stese sul letto, e comandò alla moglie ed ai figli di mettersi a piangere e a gridare con quanto fiato avevano in gola. Il sor Agapito, appena entrato, domanda:

Che è stato?

Ch’è stato? gli risponde la moglie di Gaetanaccio, nu’ lo vedete? È mmorto mi’ marito.

È morto! esclama il bon omo, ah birbone! ah ladro! è morto senza pagarmi? Oh poveretto me! e adesso su chi mi rifò? Che levo a questa pezzente, che non ha nemmeno il fiato? Ah cane.... assassino.... m’ha rovinato.

Così dicendo il padrone di casa se ne andò via, soffiando come una bufala.

[p. 24 modifica]Passata la bufera, Gaetanaccio si alzò dal letto, prese il casotto, e se ne andò difilato sotto le finestre del sor Agapito, ove rappresentò per filo e per segno tutto il fatto ch’era seguito in sua casa. Mentre il sor Agapito di stracci ripeteva le parole: «Che levo a questa pezzente, che non ci ha nemmeno il fiato?» e Rugantino dal letto diceva a parte: «Che ssi’ ’mmazzato! sitte venni la masseria de’ lletto a ’n buecco ar capo, diventi più ricco de Turlonia»; il vero sor Agapito s’affacciò alla finestra, e, vedendo Gaetanaccio che vivo e verde lo stava cuculiando in mezzo alla strada: «Ah galeotto, gli gridò, me l’hai fatta. Ma non son chi sono se non ti mando in galera» . E Gaetanaccio, facendo capolino tra le tele del suo casotto: «Nun v’arabbiate, gli rispose, che un desti giorni ve sardo».

Certi frizzi, ch’ei ripeteva spessissimo, quantunque uditi le mille volte, provocavano sempre la risata.

Nell’atto che Rugantino bastonava sua moglie, veniva il diavolo per ispaventarlo. Rugantino gli diceva:

Che vv’impicciate de li fatti mii? Ciavete moje voi?

Brum, brum, gli rispondeva il diavolo crollando la testa.

- Nun ce l’avete? replicava Rugantino. Ma cquela llì nun è ttesta da scápolo.

[p. 25 modifica]Altra volta Rugantino, vedendo il diavolo, gli domandava:

Sete ammojato?

Brum, brum.

Sete vedovo?

Brum, brum.

E cquele cimarelle chi vve l’ha mmesse?

Conchiuso il matrimonio tra Pulcinella e Colombina, Rugantino diceva agli sposi: «A l’anello nun ce pensate, chè cce penso io. Ce so’ l’orefici der Pellegrino, che, bbona grazzia loro, quanno me vedeno, se metteno tutti cor bastone su la porta».

Il Pellegrino, fino a pochi anni fa, era in Roma la via degli orefici.

Al tempo di Gaetanaccio si faceva la giostra al teatro Corea,2 divertimento graditissimo alla plebaglia romanesca, sempre vaga di spettacoli che mettono a pericolo la vita degli uomini.

Gaetanaccio, che sapeva imitar molto bene il muggir della bufala e l’abbaiare dei cani, alcune volte poneva fine alla sua rappresentazione con la parodia di quell’incivile spettacolo.

Una bufala con uno zecchino appiccicato sulla fronte aggiravasi per la scena mugghiando ferocemente. I giostratori l’affrontavano e ne venivano atterrati; Rugantino, che stava a vedere, gridava indispettito: «Eh mannatece l’ommini, sangue d’un dua!» Così dicendo si slanciava in [p. 26 modifica]mezzo alla scena, e andava incontro alla bufala tentando di carpirle lo zecchino. Qui Gaetanaccio faceva mostra della sua grande abilità nel muovere i fantocci.

Dopo un lungo armeggiare Rugantino si dava alla fuga; la bufala infuriata lo inseguiva, lo raggiungeva, e postagli la testa sotto le reni, lo alzava in aria e gli faceva fare un capitombolo.

Rugantino, rialzandosi tutto rattrappito, diceva alla bestia: «Grazzie, sor abbate».

Colle sue recite all’aria aperta Gaetanaccio si procurava da vivere. Al fine della rappresentazione usciva dal suo casotto e andava attorno colla sua coppola3 in mano a chieder l’obolo agli ascoltanti. Si crederebbe che i quattrini dovessero piovere da tutte le parti, ma non era così. Tutti ridevano alle sue facezie, tutti lo lodavano, tutti l’ammiravano; ma, quand’era l’ora di metter mano alla tasca, chi di qua chi di là, la folla si dileguava, la piazza diventava un deserto.

«Regazzi, egli diceva, nun ve n’annate, che io campo de questo. Signori m’ariccommanno.....» Era un gran che se di cento persone, che avevano riso alla sua commedia, otto o dieci lo rimunerassero con una vile moneta.

Una mattina, fatta una recita sulla piazza di Pasquino, non vi raccolse tanto denaro da [p. 27 modifica]potersi comprare la colazione. Ciò l’indispetti, e giurò di vendicarsi.

La mattina appresso ritornò sulla stessa piazza, posò il casotto, abbassò le tele, che lo circondavano, e si nascose dietro di esse, ponendosi come il solito a sonar la pivetta per chiamar gente.

La gente accorreva, e Gaetanaccio dentro il casotto seguitava a sonare. Quando egli vide che la folla era grande, che tutte le finestre si erano aperte, che tutti i bottegai erano corsi sulle porte delle loro botteghe, zitto zitto rialzò le tele, le arrotolò, si ripose il casotto sulle spalle, e se ne andò via.

I curiosi, rimasti con un palmo di naso, abbassarono gli occhi, e videro ..... Videro che al suo posto egli aveva lasciato un segno della sua collera del giorno innanzi, un segno così grande, così spettacoloso, che poteva servir di concime a una piantagione di cavoli.

I giorni più tristi per Gaetanaccio erano quelli in cui venivano proibiti i pubblici spettacoli: tristi i venerdì, più triste l’avvento, tristissima la quaresima; ma sopra ogni altro triste e doloroso fu per lui l’anno santo, che fu celebrato nel 1825.

Appena il pontefice Leone XII aprì la porta santa della Basilica Vaticana, il povero burattinaio, interdetto nell’esercizio della sua professione, si trovò alle prese colla fame, e costretto a domandar l’elemosina. Fatto un fascio dei suoi burattini, se ne andava di piazza in piazza, e, stendendoli [p. 28 modifica]per terra sopra un tovagliuolo, li indicava ai passanti, dicendo con voce piagnucolosa: «Fate la carità a ’sta povera famija ridotta i’ mmezzo a la strada». I Romani, sorridendo, gli gettavano qualche moneta.

Con questo mezzo egli avrebbe potuto tirare innanzi, ma il Governo del papa, il quale voleva che la città fosse compresa di sacra mestizia, gli proibì di mendicare in quel modo ridicolo, che destava l’ilarità anche in coloro che avevano voglia di piangere. Gaetanaccio allora si mise a vendere le corone del rosario, ma questo commercio non gli rese alcun frutto.

Un giorno di quell’anno malaugurato, non avendo pane da mettersi alla bocca, s’impegnò i burattini a un orzarolo di Borgo Vecchio. Finito il tempo della penitenza egli andò a riscattarli, e con gran meraviglia trovò i suoi attori così mal ridotti, che non avevano più faccia da comparire.

Attaccò briga con l’orzarolo, e lo citò avanti al presidente del rione Borgo, chiamandolo responsabile del danno, e volendo esser da lui risarcito, nel qual caso sostenne da se stesso la propria causa con un’eloquentissima perorazione:

«Sapientissimo giudice, egli disse al presidente, osservate in che modo questo perfido gricio4 ha [p. 29 modifica]ridotto i miei capitali. La prima donna non ci ha più la testa, l’amorosa è tutta tarlata, il padre nobile pare fritto nella padella.... Sapientissimo giudice, questo birbone m’ha assassinato, e io spero che voi lo condannerete».

Il presidente non condannò l’orzarolo, ma mosso a pietà del burattinaio gli fece ottenere un’elargizione di denaro, mercè la quale egli ricostrui il suo casotto, e rimise a nuovo la sua compagnia.

Malgrado i suoi modi triviali e i suoi frizzi, non sempre ossequenti alle leggi del galateo, Gaetanaccio era chiamato talvolta a dar le sue rappresentazioni in case private, anche presso famiglie civili, le quali, in grazia del suo spirito, gli menavan buone le scurrilità che per natura gli venivano sulla bocca.

Gli stessi aristocratici, su cui egli aguzzava la lingua, non si peritavano di farlo penetrare nelle loro sale, quando, rosi dalla noia, sentivano il desiderio di passare un’allegra serata.

Maria Luisa, duchessa di Lucca, già regina di Etruria, durante la sua dimora in Roma, volle udirlo parecchie volte.


[p. 30 modifica]Il chiaro filodrammatico romano Luigi Casciani, uomo che per la sua valentia nell’arte della declamazione meritò di essere chiamato l’emulo di Gustavo Modena, ammirando il genio di Gaetanaccio, fece costruire nella propria casa un teatrino di burattini, nel quale si compiaceva di recitare insieme con lui.

Il Casciani invitava i suoi amici a quelle rappresentazioni burattinesche con un biglietto in versi, scritto dal commediografo romano Giovanni Giraud,5 il quale per la sua bizzarria merita di essere riferito:

«Signori,

«I suoi, non che Vossignoria medesima,
Sapran che venerdì trenta corrente
E tutt’i venerdì sino a quaresima
La razza burattina ognor vivente,
Senz’aver nè battesimo, nè cresima,
Qui agir si vede e recitar si sente,
In modo che il fantoccio in volto umano,
Come il volgo suol dir, pare un cristiano.
«Gaetanaccio, delle piazze detto,
È il nostro principale attor nascosto,
L’ascolta a bocca aperta il fanciulletto,
Che non distingue il fumo dall’arrosto,
Ma spesso ai frizzi suoi l’uomo provetto,

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Ridendo prende tra’ fanciulli il posto.
E chi, sia per follia, sia per trastullo,
Qualche volta nel dì non è fanciullo?
«Ma, ritornando a Lei, se favorisca
Qualche sera a goder dello spettacolo,
Co’ suoi o senza i suoi, come gradisca,
Non avrà nel sedere alcun ostacolo,
E decider potrà se si capisca
Chi muove i burattini, arte o miracolo.
La mia casa la sa? Presso il cancello,
Numer undici in via San Bastianello.

«Casciani».


Se Gaetanaccio mentre che visse si fosse compiaciuto delle lodi, tante ne avrebbe avute da potersene gonfiare.

Persino i letterati si mossero a celebrarlo.

Il padre Giambattista Rosani delle Scuole Pie, valorosissimo latinista, lo tolse a soggetto d’un suo carme latino, che recitò nell’Accademia Tiberina, e che pubblicò poi con le stampe.

Iacopo Ferretti, l’infaticabile librettista, tessè il suo elogio in un argutissimo sermone italiano, che si legge nella raccolta dei suoi versi pubblicati in Roma nel 1830. Ma le lodi non sono pane, e Gaetanaccio non cercava che questo.

Se la natura fu con lui generosa nell’acuirgli la mente, non fu egualmente benigna nel formare il suo corpo.

[p. 32 modifica]Egli fu di complessione piuttosto gracile, non ebbe un pelo sul viso, e sulle sue gote mai non apparvero i colori della salute; fin dalla sua gioventù cominciò ad essere tossicoloso, e questo malanno coll’andare del tempo gli si andò sempre aumentando, talmente che alcune volte gl’impediva affatto di vociferare. Ciò non ostante, egli si strascinava per la città col suo casotto sulle spalle anche in mezzo ai rigori dell’inverno, poichè senza ciò sarebbe mancato il pane alla sua famiglia. Negli ultimi anni della sua vita, prima di dar principio alla rappresentazione, egli rimaneva accovacciato nel suo nascondiglio per un buon quarto d’ora e tossiva, tossiva..., mentre al di fuori una turba di sfaccendati, allegra e festante, aspettava con impazienza ch’egli trovasse qualche nuova arguzia, qualche nuova facezia per farla ridere. Sostenne il male finchè potè, e, quando le forze lo abbandonarono del tutto, chiese ricovero all’ospedale di Santo Spirito, ultimo asilo della miseria, ed ivi morì il 26 giugno 1832 in età di 50 anni.

Cosi fini Gaetanaccio, del quale fu detto che se avesse studiato, coltivando in particolar modo l’arte drammatica, avrebbe potuto lasciar di sè memoria durevole; ma io sono d’opinione che il suo ingegno, sottomesso alle regole dell’arte, avrebbe perduto quegli scatti naturali che lo resero singolare. La sua fama si mantenne viva per molto tempo fra i suoi concittadini, ma poi, [p. 33 modifica]come accade, si andò illanguidendo a misura che scomparvero la maggior parte di coloro che lo avevano conosciuto. Ora è un gran che se rimangono alcuni vecchi che si rammentano di lui, e, spariti ancor questi, il suo nome sarà affatto dimenticato.

Filippo Chiappini.




Note

  1. Recentemente ne parlarono: Mezzabotta, Il congresso delle maschere italiane in Roma, p. 18; Sabatini, Spigolature, p. 51.
  2. Cfr. Sabatini, Spigolature, p. 59.
  3. Berretta. La voce romanesca coppola deriva dalla radice cop (coprire), dalla quale derivò coppo, e con oscuramento della o, cupola.
  4. Grigio o Grigione. Questi merciai di fatti scendevano da quella parte della Valtellina abitata dai Grigioni, come i venditori della carne di maiale venivano e vengon tuttora da Norcia, come i lavoratori del pane vengon dal Friuli, e così via via per le altre professioni. Il gricio nella sua industria prese il nome di orzarolo, perchè originariamente cominciò a vender l’orzo, poi vi aggiunse la farina, il pane, le paste; e così scrisse sulla insegna della sua bottega: Arte bianca. Quindi vi aggiunse le civaie, le stoviglie, l’olio, l’aceto, le candele, il sapone e perfino i fuochi artificiali; sicchè a Roma si dice, per termine di paragone: «Essere impicciato come una bottega d’orzarolo dopo il terremoto».
  5. Giraud, Opere inedite e postume, Roma, 1842, tomo XII, P. 67.