Firenze sotterranea/Proemio
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PROEMIO
Ecco un libro, che si ristampa per la quarta volta.
Scopo supremo di chi scrive è, sovente, il giovare altrui, o col diletto o col proseguire alti intendimenti: un libro, che è stato utile, può dirsi risponda al fine nobilissimo, con cui fu pensato, scritto.
Questa Firenze sotterranea fu utile, ottenne lo scopo a cui mirava: rivelare un male profondo, non irrimediabile, avvertire di un grande pericolo.
Su le prime si dubitò, l’uomo dubita sempre di chi non lo adula: son di leggieri accettate la cortigianeria, la menzogna; il vero adombra.
Si deve combattere con le piccole intelligenze; e con le intelligenze, rimpiccolite da pregiudizii. Riescono sempre temuti, invisi, o importuni, coloro che parlano a nome della coscienza. C’è oggi una dittatura delle mediocrità, che soffoca ogni sforzo di uomini liberi, e a cui ogni parola, che si faccia interpetre di immensi dolori umani, sembra pervicace ardimento. Ogni voce che dica giustizia! ha il significato sinistro de’ caratteri, apparsi a un tratto a sfolgorare su le pareti d’oro della sala ove Baldassarre tiene il suo convito.
I miopi della politica vedono su’ lontani orizzonti bagliori sanguigni, che credono l’annunzio d’un incendio — chi sa non sieno l’annunzio di un’aurora!
Noi scrivemmo questo libro con l’animo trepidante; dopo aver vissuto, per mesi e mesi tra i più infelici, i più derelitti, e diciamo pure, i più colpevoli. Ma trovammo sempre alla colpa, all’abbrutimento di certi uomini, di certe classi queste cause: la miseria, l’ignoranza, l’abbandono, la mancanza di simpatia, di bontà, di preveggenza in coloro che si improvvisano e si dichiarano tutori del consorzio civile.
Ah! noi abbiam troppo dimenticato la parola e l’idea, che Iddio scrisse nella luce de’ firmamenti — Fraternità!
La vera eguaglianza non esiste, no, nel mondo; — almeno per ora: — non esiste in questi tempi turbati, che videro, da una parte, sorgere tante statue di marmo o di bronzo e intorno ad esse agitarsi tanti uomini di fango.
Io vivo molto raccolto ne’ miei pensieri e scorgo ciò che vedono soltanto i solitarii. Le meditazioni nella solitudine ispirano le grandi imparzialità. Io ho imparato ad amare, a compatire, a esaltare chi soffre: io non posso negar le miserie, poichè le ho vedute: e la massima colpa che ho riscontrato — mi giova ripeterlo — dopo aver studiati i corrotti, i delinquenti di ogni specie, m’è sembrato e mi sembra tuttora lo spensierato crudele egoismo delle classi, che si dicono da sè superiori — e dovrebbero essere.
Molti pensano rimediare a tutto, a calamità, a miserie infinite, con elargizioni, piccole sottoscrizioni, onde raccolgono oggetti e denari: ma le tempeste di certe anime non possono esser placate, calmate che dal nuovo, limpido irradiamento di una luce d’amore. Non basta il metter piccole dighe qua e là, per paura, a trattener l’impeto minaccioso, clamoroso, sovvertitore della immensa fiumana; non è questione di pane, di carità soltanto; è questione di progresso e di giustizia!
Ripetiamo, mentre porgiamo consigli: manca la simpatia umana.
Ove è tracciato il dovere dei forti?
Nel sostenere il diritto dei deboli.
I piccoli debbono esser sacri ai grandi, i quali intendano come ciò che piange e soffre nell’individuo sanguini poi nel consorzio civile.
Chi soffre oggi e s’agita e si ribella - e i nostri occhi ne vider più volte le cause ineffabili, velati di lacrime - non prepara una rivoluzione, prepara una liberazione!
Come dicevo anni or sono nel mio libro che ora si ristampa e che è ormai diventato un documento di storia dell’uomo — voi foste troppo incuranti di chi soffriva, voi lasciaste troppo che l’infelice e il malvagio si trovassero riuniti in un solo vincolo per la vostra mancanza di equità: — tutti e due irritati, più o meno a torto, di ciò ch’è un’ignominia sociale: il vostro abbandono.
L’uomo malvagio ha per collaboratore fatale l’uomo derelitto, spinto alla disperazione. Certi infelici, nella mancanza di provvidenza sociale, arrivano a dubitare sin della provvidenza divina: doppiamente infelici, poichè non vedono che un raggio dell’infinito risplende sopra tutti gli abissi! Dio è il grande consolatore dell’uomo. Il mondo è oggi, in parte, nelle tenebre, perchè brancola, senza esser più guidato da criteri supremi: — voi volete che i cuori muoiano, poichè gli avete allontanati dalle prime, perenni scaturigini di Vita. Non vi può essere felice riunione d’uomini, senza vincolo morale e senza Dio! La intelligenza umana respinge la idea del nulla.
Noi abbiamo troppo — e ciò rispondo a chi volle proverbiarmi d’aver nel mio libro indicato la Fede come un rimedio a molti mali, un miglioramento, una forza negli ordini civili — noi abbiamo troppo dimenticato ciò che sentirono e pensarono i nostri cari padri. Essi sono entrati, ove la vita si rinnova: di là ci ammoniscono: nelle tombe si distrugge ciò che deve perire dell’uomo, ma l’Idea è immortale: e parla anche dai sepolcri.
Voi, a’ diritti, sostituite le leggi.
Voi avete inventato un termine, che fa raccapriccire: leggi eccezionali!
Perchè uscite dal diritto? Non potete soccorrere, confortare, scemare la miseria: volete sopprimere i miseri. La barbarie — ricordatelo, è un solitario che ve lo dice — si scatena nelle strade, quando il vandalismo è ne’ governi.
Il savio vi consiglia fin la clemenza da anteporre, in certi casi, alla giustizia: poichè la giustizia mira solo alle colpe e la clemenza vede, umanamente, anche il colpevole.
Voi, invece, statuite leggi eccezionali ed inferocite.
La nostra società si perde perchè non crede e non si volge al cielo ove dovrebbe attingere l’ispirazione per dirigersi.
Leggi eccezionali! Ma Dio spesso punisce gli uomini con gli strumenti che essi han fabbricato nella collera, nel desiderio di vendetta: pone la giustizia ove è l’ingiusto: una legge insidiosa colpisce quelli che l’hanno promulgata. Ne sono vittime il giorno, in cui sentono il bisogno della clemenza, della pietà che essi hanno negata, o fatta troppo desiderare. Avreste dovuto avere la bontà virile dei forti.
Voi voleste pene, talvolta irreparabili, sapendo che le applicazioni potevano esser cieche.
Voi avete suscitato l’odio; e in tutte le questioni sociali, in tutti i partiti, dovrebbe esser dominatrice la pietà!
Voi siete quella stessa legge umana, transitoria e fallibile, che ha tentato fermare, su uno strumento di supplizio, la legge eterna, divina. Per voi il miracoloso sepolcro non si è dischiuso; non siete morti, ma siete in una tomba, estranei ormai a tutto ciò che di più puro illumina la ragione e vibra nelle anime....
Nella Prefazione che posi alla terza edizione di questo libro (1885), ho accennato le accuse che gli si mossero.
Ormai che n’è di queste accuse? Ciò ch’è domani del fango d’oggi. Diventato polvere, si dissipa....
Gl’insultatori non sanno quello che dicono: per essere responsabili, dovrebbero essere intelligenti. Alcuni si chiudono gli occhi, e poi negano la luce!
Ma è bene il lasciare che gridino certi artefici d’ignominie. La loro ingiuria si difende per la sua bassezza. L’annullamento di zero è impossibile. Il calunniatore, in fondo, stima il calunniato, che invidia: la calunnia soffre, muore per lo sdegno: aspira all’onore di una smentita: non gliela concedete. Schiaffeggiare il calunniatore proverebbe che ci si accorge di lui. Egli mostrerebbe la ignobile gota calda, dicendo: — Dunque esisto! —
Non ho mai — pur troppo — esagerato certe miserie; non tutte quelle da me vedute, anzi, avrei spazio per raccontare.
Un giorno entro in una delle case, da me descritte nella Firenze sotterranea. Una ragazzetta, tutta stracciata, era seduta sul pavimento umido di un cortiletto; preferiva star lì, anzi che nella lurida, infetta cameruccia, dove poteva esser ricoverata con altre sette od otto persone. La ragazzetta aveva con sè due bambine.
— La mamma? — le chiesi.
— E all’ospedale.... Il babbo ci aveva lasciati per andar con un’altra donna.... Noi non avevamo da mangiare.... Ci siamo nutriti per varii giorni di avanzi, datici in carità.... La mamma, mentre chiedeva l’elemosina, ha incontrato babbo, gli ha chiesto denaro.... Il babbo l’ha percossa.... Essa è caduta in terra, squarciandosi la fronte.... Il babbo fu arrestato.... Io non posso guadagnar nulla, perchè debbo star a guardare le bambine.... —
Tutt’e tre avevano già i segni dell’oftalmia.
Povere vittime!
In altra casa trovo una donna, quasi morente. Ha tre figli piccolini, malaticci. È vedova. L’affanno la strazia. Affetta da mal di cuore, ha le ore contate.
Ogni tanto si alzava da letto e tentava di lavare alcuni panni in una conca. Lavorava, pensando giovare a’ figliuoli, e moriva!
Spirò poche ore dopo ch’io l’aveva veduta.
Ed eccovi un dramma spaventoso, che non potei raccontare, per imprescindibili riguardi, quando pubblicai la prima volta il mio libro.
In uno degli alberghetti da me descritti, stavano due uomini, fra i tipi più noti di quella bieca e sciagurata popolazione. Uno di essi aveva per amante la giovinetta E....
I due uomini si allontanarono una sera, dicendo che avevano lavoro.
II lavoro consisteva nel tentar un furto in una villa, presso Firenze, ove dimorava una cantante inglese.
Il furto riuscì: furono involati oggetti di molto valore.
Però, uno solo degli uomini tornò all’alberghetto.
— O il mio amante? — chiese la ragazza al sopravvenuto.
Costui si strinse nelle spalle.
Poco dopo, la ragazza, leggeva in un giornale la notizia che era stato trovato presso la villa della cantante, in un bosco, il cadavere di un uomo.
Comunicò la notizia al sinistro compagno, che non se ne dette per inteso. Accese il lume e andò tranquillamente a coricarsi, seguìto dalla ragazza. Essa divenne presto l’amica inseparabile di lui.
La Polizia vegliava. L’omicidio era accaduto per disputa, sorta fra i due, circa la spartizione degli oggetti rubati. La ragazza aveva impegnato al Monte alcuni di quegli oggetti. E la sua testimonianza fece condannare all’ergastolo il nuovo amante, l’autore dell’omicidio.
Molti di tali fatti sono narrati nel mio libro, e dimostrano che razza di gente si era lasciata agglomerare, nel punto più centrale, proprio nell’ombilico della città; e quanto spensieratamente si era comportata la connivenza, con tali tristi, di centinaia di famiglie, a ciò condannate soltanto per una colpa: la miseria.
Non è raro, mostruosamente, il caso di madri, tormentatrici dei loro figli. Ve ne hanno di giovanissime. Anni or sono, visitando un carcere, mi fu fatta vedere una donna, di appena ventiquattr’anni, con dolce fisonomia, quando era quieta, irraggiata da un sorriso incantevole. Appena aperta la sua cella, essa, che smaniava, andava da un punto all’altro, ruppe in pianto.
Le domandai perchè si disperava. Mi rispose: — Signore, liberatemi! —
Mi fu raccontato che costei aveva sposato un operaio, giovane, buono, piuttosto debole. Ebbero due figli. Ad un tratto, non si videro più i due bambini. La donna usciva la domenica col marito, sempre gaia, col suo bel sorriso su le labbra. Il marito avea sembiante di una profonda tristezza, a poco a poco apparve sempre più accasciato. Nacquer sospetti. Un delegato entrò nella povera casipola, ove abitavano i coniugi. Nell’aprire una soffitta sentì un odore fetido, nauseabondo. Da quattro mesi stavan chiusi, in mezzo alle immondizie, in quello speco i due bambini. Ogni giorno la madre gettava loro un pezzo di pane e poneva su uno sgabello un bricco pieno d’acqua. Al momento della visita del delegato i bambini si trovavano legati, con corde, da quarantott’ore.
Era stato pure chiuso quella mattina nella soffitta un cane. Il bambino maggiore riusciva a sciogliersi una parte della legatura, ma rimaneva con le braccia avvinte al dorso. In tale positura, attratto dalla fame, si era spenzolato sino alla scodella, che conteneva il pasto per l’animale, e vi aveva accostato la bocca. Ma il cane gli saltava addosso e gli straziava una gota. Era tutto sanguinante.
Il marito, rimproverandosi, accusandosi della sua inerzia, rivelò tutto.
Ogni tanto si parla di sostenere queste e quelle cause di libertà, di civiltà in regioni lontane: si dice vi è compromesso il nostro buon nome. Ma il nostro buon nome, la nostra sicurezza, il nostro progresso civile sono a continuo rischio per le agglomerazioni, che abbiamo consentito si formassero, di delinquenti e di uomini, che condanniamo a vivere con i più malvagi, solo perchè sprovveduti.
Si parla di oppressi, di gente da migliorare e di difendere, noi abbiamo, tra noi, una classe di oppressi, sì negletta, sì bisognosa che sarebbe urgente soccorrere; abbiamo in certe grandi città, coloro che io chiamo i selvaggi d’Europa, gente che prova della legge le pene e non il beneficio: gente che non ha nè vesti per cuoprirsi, nè pane per nutrirsi, nè ricetto ove trovi aria sufficiente a respirare: gente dannata dalla ingiustizia, o dalla imprevidenza di chi dovrebbe pensare a educarla, a raddrizzarla, alla precoce distruzione fisica e — ciò ch’è più irrimediabile per noi che crediamo con tutta la forza del nostro sentimento nella Immortalità — alla distruzione morale.
Un benemerito Comitato ha fatto costruire gruppi di case per gl’indigenti: abbiamo una Società Protettrice dell’Infanzia. Ma ciò non basta. I mali soverchiano di gran lunga i rimedii.
Le opere di parziale carità sono belle e generose: occorre qualche cosa di più della carità: occorre sorga negli uomini, si diffonda, si radichi una maggior idea di giustizia! Occorre si intenda che migliorare, soccorrere i tristi, i traviati, gl’infelici è oggi il massimo punto della questione sociale. L’aiuto non vuol però dire elemosina. È d’uopo stabilire la perfetta eguaglianza. È d’uopo accostarsi a chi soffre, per malattie fisiche, morali, per fuorviamento d’istinti, per miseria, non con la superiorità di chi porge a chi mendica: ma con la pietà, la cordialità di chi si avvicina ad un essere sacro, perchè tocco dalla sventura, ad una vittima, defraudata spesso della sua parte d’educazione, che l’avrebbe tolta al vizio: e verso cui tutti siamo colpevoli. Si deve ricostituire lo spirito cristiano! Per certe classi felici non è una distrazione, una concessione l’alleviar la miseria, l’andare in cerca dei perduti: è un dovere! Chi lo trascura somiglia a chi, mentre si apprende il fuoco alla sua casa, per non darsi briga, aspetta che accorrano a spengerlo coloro, i quali di ciò hanno special incarico. Allorchè arriva il soccorso ufficiale, tutto è sovente distrutto: non vi ha più che la rovina.
Dovete dire voi, cui la vita è facile, a chi soffre, a chi è caduto: fratello, noi non siamo più meritevoli, ma più avventurati di te; noi, in generale, non avemmo come te nè duri principii, nè le tentazioni, nè le ignominie a cui tu fosti esposto sino dalla innocenza: noi non siamo, come te, mai rimasti, senza che alcuno prendesse cura di noi: tu hai lavorato, ti sei ferito, diminuito nel lavoro: tu hai combattuto contro chi difettava di equità, a noi soverchiarono le carezze: tu fosti spinto al male, noi non sapemmo far sufficiente profitto del bene, a cui ci si attraeva con ogni mezzo: tu fosti pervertito, o infelice, noi avemmo il privilegio dell’amore, degli agi: dimentichiamo, poniamo nella bilancia ove sono le diffidenze e gli odii, i risentimenti, la pietà, il rispetto, la simpatia, la gratitudine.
L’aver distrutto l’antico Centro di Firenze fu la più bella tra le opere compiute in servigio della cospicua città, nel secolo. E a molti ne spetta la lode, ma due vanno singolarmente ricordati: il marchese Filippo Torrigiani, assessore per la pulizia municipale, quando ordinato lo sgombro del Ghetto, e che spiegare tanto accorgimento, fra inenarrabili difficoltà; il marchese Pietro Torrigiani, che, come cittadino, come uomo di cuore, come sindaco, con energia mirabile, combattè e superò ostilità d’ogni maniera. Nobilissimo per bontà e grandezza d’animo, a niuno secondo, nel tempo nostro, in amare Firenze, e cercarne, con ogni studio la prosperità, fatto segno di idolatrie, di accuse abiette, di popolare riconoscenza, e di angusta, viva persecuzione settaria; ormai indiscutibilmente benemerito tra noi, e nella posterità, al di sopra d’ogni partito e d’ogni polemica; seppe, distruggendo i casolari immondi, riedificare un quartiere salubre, risanare Firenze dalla sua più turpe deformità: aprire un nuovo centro a’ traffichi, a lieta dimora, ov’era un focolare d’infezione, di miseria, di vizio e di delitto: e uno spaventoso focolare, ove appariva un mistero come certa gente vivesse1.
L’ho detto: si son costruite nuove case per gl’indigenti: e fu amorevole ispirazione. Ci vuole aria, pulizia: in certe dimore l’uomo diventa migliore: vi è una complicità fra certe case cupe, sordide e i tristi pensieri che svegliano: si può ben dire, vi sono case malsane alle coscienze, in ispecie alle coscienze poco illuminate: si può ben dire vi sono dimore scellerate. Il vizio, l’abiezione, il delitto vi diventano contagio.
Nella casa nuova si videro molte famiglie rinnovarsi.
Inoltre, tutto consiglia a sparpagliare una certa popolazione, ad impedirne le agglomerazioni, che già si tornano a formare.
Il problema non è ancora risoluto.
Si sentono molte voci, che implorano. Guai se non sieno ascoltate!
Date le condizioni in cui certi uomini, certe donne, certi fanciulli vivono, più che ammirarsi che sieno corrotti, tristi, è a stupirsi non sien peggiori: ciò prova che nella umana natura alita sempre un soffio divino e l’idea del bene vi può esser attutita, quasi mai interamente distrutta.
Il mondo è stanco d’ingiustizie? È certo che non vi ha sempre pane per chi lavora; vi sono ricchezze, o agiatezze per molti che intrigano ed operano bassamente. È certo che v’ha gente a cui tutto approda, altra cui tutto torna in male. Il mondo è sgomento, atterrito da certi fasti che sono frutti di rapina: da certe legittimità, si dice stabilite, che sono frutto di usurpazioni. Bisogna ricomporre l’equilibrio. Chi sono i colpevoli? Sarebbe stolto e inumano circoscriverli in una sola classe. Ma si dovrebbe ricercare chi è stato primo a comprare le coscienze; a dare l’esempio che non debbon aver alcun merito, o alcun premio, la intelligenza e la virtù; che debbono soggiacere alla fortuna, all’audacia.
Noi non siamo gl’interpetri di un partito, di una fazione: noi non sappiamo odiare: non abbiamo ambizioni, non cupidigie: la nostra vita appartiene tutta all’ideale: noi ci chiamiamo Abnegazione, Patria, Umanità. Noi facciam parte di quel gruppo di uomini, che stanno lontani dall’anfanamento volgare e pensano e vigilano ed ammoniscono e tengon vive le idee. Gli uomini che pensano, sono quelli che preparano l’avvenire. Il pensiero è la più grande forza del mondo: il tempo distrugge i più insigni monumenti, seppellisce le intere metropoli: la Idea sopravvive a tutte le distruzioni, a tutte le persecuzioni. Ricordate gli esempi della storia, anche contemporanea: una nazione di pensatori diventa, al momento propizio, una legione d’eroi.
Si ripetano a coloro, che vacillano, che ebber penuria di educazione, i pii, i forti esempi che avvalorano i timidi, gli oppressi, i dubbiosi, con l’esperienza di chi ha saputo combattere, amare, soffrire! Con certe teorie non si suscita, si uccide l’affetto: l’anima umana è trascinata penosamente per vie limacciose, perchè da incauti le si tarpano le ali. Io dico a certi maestri ed apostoli: Voi sapete corrompere, non educare; confondete le idee, distruggete il buono; e non sapete ispirar la forza morale, che fa accettare sulla terra il sagrificio come un dovere. Si dimentica che l’uomo ha un cuore, che bisogna elevare, coltivare, farne la base della connivenza sociale.... Si sono attizzati tutti gli orgogli, tutti gli egoismi umani, si deve pensare che principio di concordia, di felicità agli uomini può esser solo quella umiltà che consiglia l’abnegazione di sè agli altri: il saper lottare, non soltanto godere: il saper posporre gli appetiti, le proprie tendenze, i desiderii più veementi ad un fine generoso.
Dandoci a scopo supremo la vita terrena e materiale si aggravano, per le aride negazioni, tutti i mali: della sofferenza, che è legge celeste, si fa una disperazione infernale. Le miserie divengono illimitate quando non vi contrapponete speranze infinite.
A guidar l’uomo nell’oceano misterioso delle sue passioni, il filosofo, il cristiano gl’indicano una stella luminosa: cercare la perfezione di sè nell’adempimento de’ più nobili doveri; ma quanti sono attratti dagli albori che vengono di sì alto? Preferiscono brancolare nel buio de’ sozzi istinti, delle disperazioni, degli abbattimenti cui manca ogni conforto, perchè manca ad esse ogni parola dell’anima.
Noi andiamo, e precipitosi, verso l’ignoto: ed io ho fede in questo ignoto: ma dobbiamo avvicinarci ad esso con un grande sentimento di pacificazione nei cuori. Estinguiamo le animosità! Avemmo padri, cui dobbiamo rispondere di splendide tradizioni: ci son figli, cui è debito tracciare la via. Occorre esser arditi continuatori degli uni, guide prudenti degli altri.
I nostri padri fecero rivoluzioni grandi per la guerra, per la insurrezione. La nostra rivoluzione deve esser grande per la pace. Noi non domandiamo soltanto l’affetto, l’unione fra tutti i cittadini, fra tutti i popoli, ma fra tutti gli uomini. Molto fu distrutto: ora si deve riordinare: fondare, creare, produrre, pacificare; sodisfare a tutti i diritti, sviluppare i grandi istinti dell’uomo, provvedere a tutti i nuovi bisogni di una società inquieta e ardente di miglioramento; ecco l’impresa dell’avvenire. E l’avvenire comincia da oggi.
Quando cesseremo di perseguitarci, gli uni gli altri, di odiarci con tanta veemenza? Non sarebbe più espediente l’unirci, il cooperare all’aumento, al trionfo della civiltà? Ci si smarrisce in gare sciagurate e abbiamo milioni di uomini che chiedono lavoro, milioni di fanciulli che chiedono scuole, milioni di infelici che vi domandano un asilo, abbiamo un paese che domanda a certe classi che cosa abbiano fatto della sua gloria, e la rivuole. Cerchiamo una tregua, una pace in cui possano dar tutto il frutto della loro attività gli operai che smuovono un macigno e quelli che inalzano le idee: in cui fortificati e ispirati, i poeti, gli artefici, possano compiere i prodigii delle lor fantasie; in cui il genio italiano torni a folgoreggiare di una luce vivificante, abbagliatrice su le nazioni.
Bisogna rialzare lo spirito dell’uomo, rivolgerlo, ricondurlo verso il giusto, il disinteressato, il grande, verso Dio, verso la coscienza: solamente ivi l’uomo troverà la pace, che cerca ora indarno, con sè stesso e con i suoi simili.
Questo libro Firenze sotterranea è, come ho detto, un documento di storia. I luoghi che descrive sono stati abbattuti, non ne rimangono più neppur le vestigia. La gente di cui parlo, è dispersa o raccolta altrove, ma non così numerosa.
Non ho fatto alcuna modificazione al mio libro; la data che vi è in fondo è il ricordo di un triste periodo: il libro è riprodotto com’era nella prima edizione. Se è un documento di storia, non si alterano i documenti.
I più di noi non lasciano nel mondo maggior traccia di quella che lascia l’ombra di un passante sul suolo. Ma chi scrive di certi argomenti ha un obietto: essere utile. Ora con questo libro io detti una battaglia, che finì con la vittoria; non dico, fu una piccola vittoria. Ma la lotta per la civiltà ha i suoi illustri capitani e i suoi umili soldati.
Il più puro obietto dell’uomo è di lasciare il mondo un po’ migliore di quello che l’ha trovato; un libro che giova risponde a tale obietto, lo scrittore può esser pago di aver recato il suo atomo qual contributo, sia pur minimo, alla umana felicità.
Molti di coloro che pensano, oggi trepidano e soffrono, nel cercare i rimedii a sventure, a degradazioni, a miserie, che non sono irreparabili, la cui fine può esser soltanto nel promuovere, per varie vie, fervidamente, costantemente, la universale unione d’amore fra gli uomini. Al ravvivarsi di questa fiamma, il sentimento fraterno, le tenebre, spariranno.
E a coloro che pensano, e vigilano, e si adoperano, in una angoscia, che deve esser feconda, io dico: — I vostri dolori sono una affermazione; io piango con voi ciò che voi piangete; ciò che voi sperate, io l’attendo! —
- Firenze, dicembre 1899.
Jarro.
Note
- ↑ Dedicavo, nell’agosto 1884, la prima edizione del mio libro a Ubaldino Peruzzi, allora semplice consigliere comunale di Firenze, con queste parole, fra altre:
«Voi, or sono otto anni, come si ricava da ciò che è detto negli ultimi capitoli di questo scritto, tentaste porre un rimedio a’ mali, oggi inciprigniti, che io discuopro e onde la nostra città è deturpata. Storico imparziale, cercando i documenti che attenevano al mio soggetto, trovai memoria della inchiesta da Voi ordinata sulle miserie di Firenze nel 1876. Se rimase senza effetto, non fu colpa vostra: averla ordinata, caldeggiata, tornerà sempre a vostro onore e farà saggio del vostro acume.
«Facile, e Voi lo sapete, è il rimedio al guaio, che oggi travaglia Firenze: a esser il gioiello più sfavillante tra le gemme, che rifulgono nella corona, che cinge l’Italia, richiede ne sia tolta una macchia che molto l’offusca. Nessuno potrà allora pareggiarne gli splendori. - La vostra parola, o signore, scuota gli addormentati; alzate la voce per carità del natio loco!
«E non disdegnate l’omaggio di un uomo libero.»