Faust/Cenni su la vita e su le opere di Volfango Goethe

Cenni su la vita e su le opere di Volfango Goethe

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Johann Wolfgang von Goethe - Faust (1808)
Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1857)
Cenni su la vita e su le opere di Volfango Goethe
Pregiatissimo signore Le Monnier Parte prima
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CENNI

SU LA VITA E SU LE OPERE DI VOLFANGO GOETHE,1


(Dalla Foreing Review.)


Un uomo che all’età di ventidue anni appena si trovò a capo della letteratura europea e che in un’età più che ottuagenaria riverito quale patriarca della filosofia e della poesia alemanna, ha saputo conservare nelle sue venerabili mani lo scettro letterario che i suoi connazionali gli porsero e che i forestieri non gli contesero; un uomo che raccolse a sè l’ammirazione di tutti i partiti letterari, e ottenne gli stessi omaggi dagli Schlegel e dai Coleridge; un ingegno potente che tutto abbraccia, tutto comprende, e il misticismo e la filosofia e il dramma e la critica e le ispirazioni della lirica e lo scetticismo della storia; questo rappresentante del secolo decimonono e della Germania contemporanea, merita pure un esame profondo, merita, se non fosse altro, uno studio spassionato pel fenomeno che ci offre l’estensione svariata delle sue cognizioni e l’universalità della sua gloria. Egli tiene a’ dì nostri in Germania lo stesso posto che occupava Voltaire in Francia verso la fine del secolo decimottavo.2 Goethe, simile in questo al [p. 8 modifica]filosofo di Ferney, serve ad esprimerci un’epoca, serve, per così dire, d’organo ai pensieri di un’immensa popolazione, è una molla impellente per una quantità di nobili ingegni che procurano di seguire la via ch’egli ha aperta, di tener dietro agli eccitamenti ch’egli ha dato. Senza dubbio, nell’Alemagna, in quella terra nativa della metafisica e delle astrattezze, presso quel popolo tanto appassionato alle commozioni popolarmente poetiche, e più che alle raffinatezze di una leggiera socievolezza, sensibile ai prestigi dell’immaginazione e alle scoperte dell’erudizione, il dittatore della letteratura e della poesia non deve splendere delle stesse doti, non macchiarsi degli stessi difetti, de’ quali Voltaire, fedele al suo tempo e al suo paese, ne diede un esempio pur troppo luminoso. Ma questa stessa dissomiglianza gli avvicina ognor più: quanto maggiore è la differenza della loro posizione, tanto più deve diversificar l’indole del loro ingegno: sì l’uno che l’altro trovansi assisi sullo stesso trono, sono rivestili dello stesso potere, ma hanno attributi diversi; sono come re di due opposte nazioni.

Voltaire era capo di setta: Goethe, eclettico per natura e per elezione, non s’attiene ad alcun partito, non dispiega alcun vessillo. Al patriarca de’ filosofi francesi si possono attribuire tutti gli errori, i difetti tutti che sono propri dei capi di fazione: Goethe, siccome sensatamente osservò madama di Staël, si compiacque di combattere sempre alla lor volta tutte le esagerazioni più contraddicenti fra loro: egli non può essere accusato di aver mai adulato persone, corpi morali, setta veruna. Voltaire apparteneva ad un’età di conflitti, di distruzione: Goethe nacque immediatamente dopo di lui, nacque mentre s’apriva l’aurora di un’età più ragionevole, meno appassionata, più avida di pace e di moderazione, più amante d’imparzialità che suscettiva di fanatismo. Nel filosofo francese si scorge tutta la rabbia dell’iconoclasta: la sua ironia distrugge, lacera il suo epigramma. V’ha in Goethe una maggiore dignità; egli non [p. 9 modifica]aspira nè a creare nè a distruggere, ma solo a decidere come giudice, o a commuovere come poeta. Il primo colla sua irosa influenza annunciava l’uragano che stava per iscuotere gli stati, l’ardente febbre che corrodeva le nazioni: nelle opere del secondo si rivelano il potere eclettico, il bisogno di trascegliere e apprezzare le diverse dottrine, l’imparzialità luminosa che segna il carattere di una nuova età.

Goethe, che i propri connazionali soprannominarono l’Apollo Musagete, ed egli diè infatti il primo movimento a tutti gl’ingegni, e favorì i progressi intellettuali del suo paese da cinquant’anni in qua, Goethe non può essere sì facilmente compreso nell’insieme delle sue opere, e nell’intimo de’ suoi pensieri: quanto più le modificazioni del suo modo di pensare sono fuggevoli e variabili, quanto più il velo che lo ricopre è fitto od è trasparente, tanto meno è permesso ad un osservatore leggiero di penetrare ne’ misteri del suo ingegno. Per molti lettori tutto il suo prestigio consiste nella melodia di uno stile elegante, semplice, flessibile, colorito e svariato. Il contadino alemanno canta le canzoni di Goethe: l’uom di mondo avidamente scorre quelle sue pagine pittoresche: il filosofo indaga, scrutina, per così dire, la chiave magistrale che dà vita agli enigmi di cui abbondano le sue opere. Tra gli ammiratori di quest’uomo maraviglioso voi noverate gl’ingegni più profondi e le menti più frivole. Il segreto della sua eccellenza sta forse nella sola varietà, sta forse in quell’arte tutta sua propria di porgere un pascolo ed un allettamento a tutti i gusti? Noi non lo crediamo. Goethe, da quanto ne sembra, non ha mai pensato a farsi cortigiano de’ suoi lettori: ei gli sorprende piuttosto che vezzeggiarli; gli solletica in vece di blandirli. Egli pel primo perseguitò colle sue Satire alla maniera di Aristofane la frivola sentimentalità degli imitatori del Werther. Egli pel primo pose in ridicolo gl’informi abbozzi de’ contraffattori del suo Goetz di Berlichingen. Appena l’esaltazione germanica si mostrò piegata verso [p. 10 modifica]un eccesso, videsi Goethe porre nella bilancia il peso del suo gran nome e l’autorità del suo ingegno, all’oggetto di ristabilire l’equilibrio e ricondurre l’impero della ragione. A che dunque dobbiamo attribuire quella sua flessibilità che punto non deriva dal desiderio di piacere, nè dalla voglia di accattarsi un’aura di favore? Questo è ciò che noi vogliamo accuratamente esaminare: sta qui il nodo dell’enigma, qui sta la vera spiegazione del genio di Goethe.

Egli è artista: artista nel significato più nobile di questa parola. Tutte le voci della natura trovano un eco nella sua anima. Accusato di panteismo da alcuni pensatori più corti di veduta che sagaci nel giudicare, Goethe non fu mai insensibile alle commozioni che l’uomo, la società, il mondo fisico e morale possono comunicarci. L’aura che lo ispira è da lui côlta dal mondo intiero, e le metamorfosi della sua intelligenza non sono state altro che la manifestazione successiva delle sue diverse inspirazioni. Può dirsi del suo ingegno come di una tela tocca dal maestrevole pennello di Paolo Veronese, che a mano a mano che veniva coverta di tinte svariatissime e a foschi passaggi, riflettevano queste l’intiera natura in tutte le sue scene e sotto tutti gli aspetti che gli accidenti della luce e dell’ombra fanno ad essa subire.

La purezza grandiosa dell’età greca, l’energico tramestío del medio evo, la civiltà dei moderni tempi, quest’uomo tutto ha compreso. Leggete l’elegante ritratto di Voltaire scritto da Goethe, e voi vedrete con quale penetrativa, con quale lindura lo scrittore tedesco seppe associarsi ai pensieri ed agli affetti dello scrittore francese che stese il Candido e l’Uom Mondano: scorrete il suo Dramma cavalleresco,3 e vi parrà udire il tintinnio delle lance sulle corazze e il rumor roco del ponte levatojo innalzato sulle sue pesanti catene. L’ultima opera che egli ha prodotto fu l’Intermezzo del Faust: in questo suo breve lavoro egli [p. 11 modifica]volle nuovamente provare la flessibilità e l’universalità del suo estro, consociando in un quadro fantastico le ricordanze dell’età gotica cavalleresca colle lontane tradizioni dei Pelasghi e de’ Greci: nulla v’ha di più bizzarro di questa pittura a contrasti: da un lato i cori solenni delle giovani donzelle e de’ sacerdoti di Micene e d’Argo: da un altro tutto il trambusto guerriero della gerarchia feudale: qui il gentilesimo colla fatale influenza del destino: là il cristianesimo inselvatichito dai Barbari, coi suoi misteri d’amore e co’ suoi ruvidi costumi: qua una poesia tutta marchiata che s’avvicina per la sua nudità, semplicità e grandiosità di forme all’arte statuaria: là una poesia cristiana, pittoresca, semi-velata, ora vezzosa e pudica, ora torva e infernale. Tale è l’indole dell’ingegno di Goethe, in cui, come in un comune santuario, tutte le credenze e tutte le idee vengono ad annicchiarvisi e vi s’accordano. In questi ultimi anni Goethe pubblicò un’opera che intitolò Divano, composta di poesie alla foggia orientale, nelle quali fece traspirare l’estro asiatico, e dove la potenza del monoteismo maomettano si trova vivamente tratteggiata: bizzarro contrasto, pensando che questo stesso scrittore che colla sua penna di fuoco rese immortali nella sua giovinezza le fantasticherie di un giovane amatore, sfrenato, alunno della moderna sentimentalità,4 abbia saputo nella sua vecchiezza toccar la cetra dell’arabo Hafiz per riprodurre gli affanni voluttuosi e le mistiche passioni dell’Oriente.

Alla mirabile flessibilità di artista, specchio perspicuo dell’universo, s’aggiunga la straordinaria perfezione che caratterizza le sue opere. Non mai, come accade sovente a’ suoi connazionali più dotti, egli trascura lo stile per sacrificarlo al pensiero. Il pensiero gli si offre sempre avido, luminoso, splendido d’accessorii bellissimi, magistrale ad un tempo ed ornato. Egli seppe coltivar l’arte sua con una perseveranza invidiabile. Egli scoperse tutti i prestigi di [p. 12 modifica]lei, e ne pose in opera tutti i segreti. Le più minute bellezze della lingua sono da Goethe trascelte e adoperate con cura, con amore, a simiglianza di quelle metopi greche, le di cui minime parti attestano tuttora la finita gastigatezza dello scarpello dell’artefice che le ha scolpite.

Questa arrendevolezza di mente congiunta a tanta perfezione di lavoro erano le qualità indispensabili per signoreggiare il secolo, a cui Goethe impose la legge del suo grande ingegno. Figli di una civiltà inoltrata, noi abbiamo gusti sì dilicati che vanno sino alla schifiltà, e la bellezza della man d’opera, ci și perdoni quest’espressione volgare, è il primo merito che ci attrae l’attenzione e ci promuove l’elogio. Nati in un’epoca turbinosa, noi vedemmo l’Europa tramutar più volte di aspetto: tutti i principii rimescolati, tutte le dottrine ribollendo, per così dire, in un comune crogiuolo hanno presentato al nostro sguardo il caos più stravagante. La vita degli stati, dopo il 1780, è stata una vita di sforzo, di lotta, di tormentoso svolgimento, di vie tentate da ogni banda, di conflitto fra tutte le diverse influenze sociali, di soggezione alla loro possanza contrastante. Ecco quello che l’ingegno e le opere di Goethe riprodussero con una fedeltà ammirabile. La felice sua tempra d’animo si prestò a tutte le idee di perfezionamento senza mai accoglierne gli eccessi. Egli ebbe, come il suo secolo, i suoi interni conflitti, le sue dubbiezze, le sue utopie, i suoi interni dolori, i suoi anni d’angosciosa incredulità, i suoi trasporti verso le libere idee, i suoi ritorni all’ordine, alla religione. Un Francese, di cui il nome suona famoso negli Annali della diplomazia, diceva scorgendo Goethe: «Ha la figura d’un uomo che sofferse molte angosce.» Egli avea torto, diceva Goethe stesso in una delle sue opere; quel Francese doveva dire di me: «Ecco un uomo che ha saputo lottare con energia.»5 E difatti la vita di questo scrittore non fu che una vita di sforzi diretti a raggiungere la per[p. 13 modifica]fezione morale e l’eccellenza d’artista: per questo il suo ingegno s’aggrandi cogli anni: per questo gli ultimi frutti della sua vecchiaia rassomigliano ai frutti di una virile maturità.

Ognun vede quanto riuscir debba interessante e istruttivo il seguire nell’avventurata e svariata sua via un ingegno sì mobile e sì ardito, come mobile e audace fu l’epoca a cui egli appartiene. I progressi di questa alacrissima mente tennero una strada paralella ai progressi del suo tempo. Il suo ingegno si svolse col sommuoversi del secolo decimottavo, e si aperse fra l’effervescenza e lo strepito: l’espressione della disperazione e della rivolta, costituì il suo primo trinfo. In seguito, sollevandosi a grado a grado frammezzo alle politiche turbazioni, frammezzo ai combattimenti della guerra e della filosofia, si trasse sino alle più alte regioni della poesia e dell’arte, e finì coll’accordare e fondere in un composto sublime la divozione filantropica di Fénélon, colla sagacia d’Hume; la splendidezza sarcastica di Voltaire, con quello spirito consolante di fede ne’ più bei destini dell’umanità, la tollerante soavità di un apostolo, colla fina penetrativa di un pensatore moderno.

Collochiamoci al punto da cui partiva l’ingegno di Goethe nella sua più verde età. L’aspetto del mondo incivilito era tristo e minaccioso. La frale decrepitezza d’alcuni stati, gli eccessi del fanatismo, i vani sforzi di riordinamento in chi reggeva le nazioni, le violente idee de’ nuovi settari di Diderot e Voltaire, empievano gl’intelletti meditabondi di terrore e malinconia. «Io veggo (dice l’Amleto di Shakespeare) io veggo in seno a’ vecchi rami dell’albero sociale una linfa di morte scorrere sordamente: l’albero sta per corrodersi: il veleno che lo consuma nascosto al comun guardo, a me solo si rivela: voi lo vedrete agire!...»6 Quest’umore venefico, esiziale, circolava pur troppo nel [p. 14 modifica]corpo sociale. L’acume filosofico, reso stanco dalle pericolose astrallezze di Locke, aveva finalmente prodotto una morale pratica, caritatevole, semplice, benevola, ma umile, terrestre, mondana. Alcuni che s’abusavano dello spirito di santità del vero culto evangelico attelando una pompa orgogliosa avevano offerta un’esca perniciosa all’incredulità e l’avevano quasi provocata ad acri rappresaglie: il protestantismo nella sua lotta ostinata contro il culto cattolico era andato a finire in un gretto deismo spoglio di solennità, d’influenza, l’ideale. La poesia non più soffolta dall’aura religiosa era languidamente caduta. Diventata or satirica, or didattica, avea cessato d’essere un oracolo: essa non era più altro che un sollazzo, un giuoco, un mestiere. In Francia la gelida freddezza di Saint-Lambert, la spiritosa eleganza di Voltaire non rimpiazzavano per nulla l’estro ispirato dei veri sacerdoti della poesia. In Italia, non si noveravano che de’ rimatori o de’ frivoli eruditi. In Inghilterra, Johnson, greve dittatore d’una letteratura in letargo, offriva alla pubblica ammirazione la gonfiezza de’ suoi eterni periodi, gli uni simili agli altri, e sempre tanto triviali di pensieri, quanto monotoni nella loro orditura. Alcuni verseggiatori eleganti, alcuni poeti di second’ordine gode vano dell’aura popolare: Gray, il di cui ingegno non oltre passò mai un laborioso meccanismo di parole e di ritmo, era riputato il principe del Parnaso Goldsmith, un po’ più naturale, ma privo di nerbo e di profondità, era disprezzato e negletto. Ci volle nient’altro che mezzo secolo, perchè la sua vera eccellenza, la sua caustica ingenuità, i suoi vezzi campestri, ottenessero quel posto onorevole e que’ tributi d’elogio che meritavansi. In Germania lo spi rito filosofico si destava: ma i Rammler, i Rabener, i Gellert, scrittori eleganti e aggraziati, usurpavano il posto che ap parteneva a’ più elevati ingegni. Il solo paese d’Europa, ove si manifestava veramente un vivo fervor di pensiero, era la Francia, la terra di Rousseau e di Voltaire. Di là partivano tutte le idee che scotevano l’Europa: di là l’entusiasmo, [p. 15 modifica]l’indignazione, le grida di furore contro tutto quanto sapea di vecchiezza. L’eloquenza focosa di quegli scrittori recava le vampe da per tutto: immenso ne fu l’incendio, e i suoi chiarori c’illuminano e ci spaventano ancora. Ma in quell’epoca di terribili ardimenti qual mestizia profonda doveva apprendersi all’anima di un uomo meditativo? La procella s’addensava: preparavansi le rovine. “Noi non siamo soltanto, diceva Schiller con un’audacia felice, noi non siamo gli uomini della nostra terra, ma siamo gli uomini del nostro tempo.„ Come sfuggire alla dolorosa influenza che qui svelammo? Il giovane Goethe non potè scamparla: egli l’espresse con tutta l’energia che gli era propria, e la sua voce che parve l’eco di un comune dolore, penetrò tutti gli animi.

Werther comparve. Era l’espressione dell’inquietezza generale, tal quale l’avea provata in tutte le sue più riposte latèbre il cuore di un giovane e di un poeta. Era la disperazione di una generazione posta sul margine di un abisso, disperazione che la potenza di commuovere, tutta particolare a un grande ingegno, rendeva più terribile e più contagiosa, analizzandola o servendole d’organo. Udiamo lo stesso Goethe nelle curiose memorie della sua vita intitolate Poesia e Verità,7 darci contezza della sua situazione d’animo, allorchè descrisse i patimenti del giovine Werther.

«Frammezzo a studi sterilissimi, privo di ogni eccilamento, di ogni vivido affetto, io conduceva un vivere di languidezza. Parevami che lo scopo della mia vita non fosse raggiunto; e il mio orgoglio si rivoltava contro un destino discorde da’ miei desiderii, contro una vita senza aspettative, senza onore. L’intima conoscenza e il gusto deciso ch’io aveva per l’inglese letteratura che non mai cessava di studiare e d’approfondire, accrescevano ognor più l’intensità delle mie tristi meditazioni. Nessun popolo al mondo conobbe meglio dell’inglese che sia dolor morale: nessuno [p. 16 modifica]meglio di quegli scrittori seppe analizzarlo e dipingerlo: questo affannoso affetto lasciò la sua impronta sulla poesia e sulla filosofia inglese, il di cui carattere e il di cui merito particolare sta appunto in questa mestizia severa e virile, le di cui inspirazioni vestono tanta grandezza e profondità ad un tempo.

»Nella più avventurosa posizione che immaginare si possa, accade che la privazione di attività, congiunta a una viva bramosia di agire, ci precipita verso un tremendo bisogno, verso il bisogno di morire, verso la sete del nulla. Noi chiediamo alla vita assai più di quello che essa può darci, e quest’eccessivo tributo che noi preleviamo da essa, non potendo essere ne durevole, nè conforme all’immensa avidità del nostro sentire, noi cerchiamo di sbarazzarci, insensati che siamo! di una vita che non corrisponde più all’altezza e all’imperiosità capricciosa de’ nostri pensieri. Io so quanti tormenti mi siano costate siffatte idee speculative; io so quali sforzi dovetti fare per liberarmi dal costante loro predominio: il successo che ottenne il mio Werther mi provò in seguito che queste stesse mie idee, benchè inferme elleno fossero, pure non mi erano personali. Io non nasconderò adunque nè questi dolori ch’io divideva cogli uomini del mio tempo, nè le mie meditazioni sul suicidio, meditazioni che occuparono una gran parte della mia gioventù.

»Tutto, lo confesso, parevami monotono nella vita. In preda alla noia, insensibile all’amore, io più non udiva quella voce soave della natura che a determinati intervalli ne chiama a fruire delle sue metamorfosi maravigliose. Io non potrei meglio rassomigliare il mio stato che a quello di un’infelice creatura, il di cui orecchio colto da malattia ha smarrito il potere di udire il suono. Lessing, uno de’ nostri critici più distinti, si corrucciava contro la perpetua verzura di primavera: egli avrebbe voluto che, almanco per cangiare, le foglie, in vece del loro costante verdeggiare, vestissero le tinte della porpora o dell’azzurro del [p. 17 modifica]cielo. Io conobbi un Inglese che s’appiccò per togliersi dalla seccatura di doversi vestir tutti i giorni; e un buon giardiniere che appoggiato sulla sua vanga esclamava con un fare di desolazione veramente ingenua: Dovrò io veder sempre quelle nuvole maledette passar da un capo all’altro del cielo?

»Spesse volte il potere di questo mal morale si accorda in proporzione colle qualità e colle virtù degli infelicissimi che ne son vittime. Le blandizie de’ grandi, il frivolo capriccio delle amicizie, degli amoretti, tutti i casi dell’umana vita scuotono un’anima troppo irritabile e troppo febbrile: deboli sempre ne’ nostri combattimenti co’ vizj noi ci troviam bersagliati da questo interminato conflitto. Noi ricadiamo incessantemente negli stessi errori: spesse fiate le sventure che c’imaginiamo sono attaccate alle nostre stesse virtudi, e nell’impotenza in cui ci sentiamo di segregar queste da quelle, tratti a disperazione dalla nostra incurabile debolezza, noi ci determiniamo a trionfar della vita, togliendocela con un pugnale.

»Tali erano i pensieri la di cui pericolosa atmosfera inebbriava la mia fantasia offuscata. Io era giunto persino a meditare a lungo su i mezzi diversi che tristamente stanno in mano dell’uomo per liberarsi dall’esistenza. La morte di Ottone eccitava sopra tutto la mia ammirazione: vinto costui, ma ancor padrone di una parte di mondo, pensa egli con animo addolorato alle vittime che la di lui ambizione manderà quanto prima a morder la polve nei campi di battaglia: egli risolve di non commettere questo nuovo misfatto, risolve di uscir spontaneo dalla vita, di rinunciare all’impero ed alla luce del giorno. I suoi amici convocati a una gran festa sono ben lontani dal penetrare quest’infausto disegno del loro principe, del loro eroe. All’indomani della festa egli è trovato giacente nel suo letto, con placido aspetto e con un ferro nel seno. Tra i suicidi, pensava fra me, quest’è forse quello che ha maggiormente manifestato, in chi lo ha commesso, forza d’animo e libertà di mente. [p. 18 modifica]

»Io possedeva un’assai bella raccolta d’armi antiche, e fra le altre un pugnale di elegante struttura, riccamente ornato, e la di cui punta aguzza trattata da mano ferma, avrebbe in un istante compiuto ciò che Shakespeare chiamava il grand’atto romano.8 Più d’una volta io lo posai sul mio seno: la forza mancommi: e non tardai a riconoscere che questa sete della morte non era in me che la fantasticheria di una lugubre svogliatezza. lo ne risi meco stesso, e fui da quel momento guarilo. Malgrado questa crisi, gli stessi sentimenti d’incurabile noia m’affliggevano ancora. Io sentiva il bisogno di un lavoro poetico, a cui consegnare pel mio stesso riposo questi tristi pensieri: era il solo mezzo per dare ad essi tutto lo sfogo che mi parea necessario. In quel punto s’era diffusa la notizia della morte del nostro giovane Jerusalem: il piano di Werther fu ben tosto abbozzato: quel romanzo concepito in un getto, d’un getto pure fu scritto; e i fantasmi che conturbavano la mia giovanezza presero in quel libro una realtà d’esistenza che valse a compiere la mia guarigione.»

Per tal guisa il Werther, a cui tanti critici apposero per censura riprovevole una falsa sentimentalità di pensiero e di stile, era un’opera eminentemente vera rispetto al suo autore e al suo tempo. L’appassionato lamento, di cui Goethe rendevasi l’eco, usciva, per così dire, dal seno dell’Europa soffrente. Una quantità di voci imitatrici risposero alla proposta. Tutte le nazioni ebbero il loro Werther. Allora improvvisamente emerse una progenie di scrittori lamentosi e funerei, e la Germania sopra tutto ripete ancora le lugubri grida di questi kafitmænner, uomini di vaglia, spiriti forti, siccome essi stessi appellavansi. Ma il loro potere non era altro che impotenza: la loro forza non era che vil fiacchezza. Goethe, che aveva pel primo mandato questo grido indefinito di dolore, pel primo pure si accorse del ridicolo che s’accompagnava agli sforzi dei suoi [p. 19 modifica]discepoli: egli cangiò di strada e creò il suo Goetz di Berlichinghen.

Sempre malcontento del presente, Goethe non cerca più un asilo nell’abisso dell’eterno riposo: il suo sguardo si retrovolge ai secoli passati, tempi di forza e di energia, età di ferro e di bronzo. Egli non getta su i secoli che più non sono altro che meste ricordanze, uno sguardo di rammarico e di dolore. È un nuovo svolgimento di uno stesso pensiero, o, a dir meglio, è una nuova espressione data al malessere che esagitava l’Europa. A somiglianza del Werther che avea dato il primo segnale di una sentimentalità scettica, di una affettazione pittoresca, e di una mestizia universale, Goetz di Berlichinghen fece sbucciare una serie infinita di drammi cavallereschi, i di cui titoli sono già caduti nell’obblio. Ma l’influenza efficace di queste due opere si estese più da lungi: Byron inspirossi alle lamentazioni di Werther: Walter Scott esordì nella sua letteraria carriera con una traduzione del dramma di Goethe. Senza dubbio questo primo lavoro della giovanezza di Walter Scott svolse e decise l’indole del suo intelletto: ed ella è cosa che pur merita esser notata, questa cioè, che tutte le opere su cui la gloria di quel moderno romanziere sì fondo, siano state quelle da lui consacrate a dipingere siffatti costumi, a porre in iscena quelle vecchie abitudini che l’estro del poeta alemanno aveva pel primo tratte alla luce. Sotto l’influenza di questi due saggi del giovane Goethe due nuove strade s’apersero: l’una per gli analizzatori del cuore umano, chiamati a riprodurre nella complicata e sfumata loro varietà le intime miserie dell’incivilimento: l’altra per gl’ingegni a sufficienza forniti di sensività e d’immaginazione, all’oggetto di poter far rivivere il passato in tutte le sue minutezze e in tutta la sua integralità.

Qui ha fine la prima epoca letteraria di Goethe; in questa si scorge tutta la sua fervenza entusiastica e la scontentezza che sommoveva la società contemporanea. L’entusiasmo e la causticità vi si confondono insieme: la noia del presente, [p. 20 modifica]la vaga repetizione del passato, la disperazione di un migliore avvenire, vi traspaiono magistralmente. Una forza irregolare si fa in queste sue prime opere riconoscere. Noi vedremo ora aprirsi per Goethe una nuova èra nella quale tutti questi elementi pieni di fuoco si classificheranno e si coordineranno da sè stessi.

Per lo spazio di sei intieri anni, Goethe s’adoperò infaticabilmente a comporre quella sua singolare opera che doveva servir d’espressione al secondo sviluppo del suo pensiero: quest’opera, in diversa guisa giudicata e spesso male interpretata, divenne l’oggetto di critiche virulente. L’alunnato di Wilhelm Meister presenta un enigma famigliare, un simbolo poetico, coperto e velato da forme di dire casalinghe: è un trattato di filosofia e di estetica rivestito di spoglie volgari e comuni. Tanto in Germania che in Inghilterra la pubblicazione di questo libro fu accompagnata da un lungo sussurro che significava un’aspettativa delusa. Come! (essi dicevano) l’autor facondo di Werther sì degno di dipingere le scene più stucchevoli della vita comune? Quale decadimento! quale argomento di stupore! Agli uni quest’opera pareva immortale, agli altri sembrava putisse di pedantismo e sopra tutto d’annoiatura. I critici inglesi trovavano che nulla in questo romanzo facea rammentare gli usi del gentil mondo, nè i costumi eleganti. Il poeta e filosofo spiritualista Novallis, discopriva in Meister una tendenza al materialismo, ed una abnegazione delle fantasie soprannaturali; abnegazione che egli altamente riprovava. La è pur cosa difficile quella di piacere a tutti! Goethe aveva trovato in vece il segreto di non piacere ad alcuno. Qui s’accusava di misticismo, là di deismo, e persino di ateismo. Finalmente Federico Schlegel s’avvisò di esprimere in un saggio critico la sua opinione su Meister, e rivelò lo spirito di quest’opera. Fu allora sciolto l’enigma, e la pubblica voce cangiando graduatamente acclamò per la Germania Wilhelm Meister siccome uno dei capi lavori del suo autore. [p. 21 modifica]

Non giudichiamolo dal lato dell’arte: accontentiamoci di considerare quest’opera come un documento prezioso che può servire alla storia intellettuale di Goethe. La disperazione è il marchio caratteristico delle sue opere precedenti: questa nuova opera trabocca di speranze. Questo giovine ingegno, che non vedeva nel mondo altro che un enigma non dicifrabile, ne ha pur trovata la soluzione. Tutto si è rischiarato, tutto si è classificato, tutto calmossi al suo sguardo. Egli si lamentava perchè nulla gli offriva la vita che fosse bastevolmente elevato, nobile, grande: finalmente ha scoperto che l’ideale non manca in questo mondo, frammezzo agli oggetti ed alle occupazioni che paiono le più volgari. L’estro focoso, ma errante di un’esaltazione sfrenata non si smarrisce più, nè si stanca a fantastici voli. Esso appurossi senza perder forza: conservò il suo potere diventando più utile. Dal grembo di elementi confusi in una minacciosa narchia, la pace e l’armonia nacquero all’improvviso. Tale è lo scioglimento dell’enigma che Wilhelm Meister porse ai critici: per indovinarlo e comprenderlo non bastava sguardare questo bizzarro racconto colle regole ordinarie, bisognava conoscere Goethe e il suo secolo.

L’universo intiero, il fiorellino più umile, il grano d’arena, la goccia di pioggia che splende sull’ali dell’augello, hanno tutte il loro interesse, tutte vestono un carattere d’ideale poetico. Diciam meglio, la vita sì angusta e sì triviale che si conduce nelle città germaniche di terzo ordine, l’esistenza sì minuta, sì prosaica, in apparenza, che in queste si trae, racchiude de’ germi di poesia, di affetto, di drammatico interesse, di patetica sublimità, d’immortale eroismo. L’uomo è dovunque lo stesso: dovunque lo spirito e la materia, il mondo fisico ed il morale, l’essere ed il fare coincidono fra loro e si confondono in un’armonia misteriosa. Guardate a quel tedesco villaggio dove pose Goethe la scena del suo romanzo. Nulla v’ha di più comune de’suoi costumi: nulla di meno fantastico delle [p. 22 modifica]sue abitudini. Là vengono a far convegno un filosofo scettico per nome Serno; un mercante di corte vedute, detto Werner; degli uomini di mondo la cui mente pur culta si rifiuta a tutte le illusioni del misticismo, siccome lo sono Lottario e suo zio; una civettina briosa e cascante, appellata Filina; un filarmonico cieco ed entusiasta; finalmente una creatura che sembra starsi sospesa tra i limiti dell’ideale e del reale, la giovane Mignon. Frammezzo a questi personaggi che rappresentano, per così esprimerci, tutti gli anelli della catena sociale, dal più vil prosaismo al misticismo più etereo, trovasi il povero Wilhelm. È questi l’artiere, è Goethe: egli fa il suo alunnato: s’istruisce nella conoscenza del mondo e degli uomini: egli vede come in questo inmenso quadro trovino la lor picchia le indefinite varietà umane; come delle mezze tinte quasi impercettibili accostino gli uni agli altri i colori più opposti, e questi gli separino dai più vicini: egli studia il mutuo loro riflettersi, e le complicate loro influenze; egli impara a conoscere che la bontà dell’Altissimo racchiuder seppe sotto umili spoglie germi di felicità, di grandezza e di speranza. Tutto e nel mondo e nella società acquista ai suoi occhi un’importanza ed una significazione profonda. Nei mimici giocherelli dell’infanzia travede il nascere e lo svilupparsi delle arti, in que’ loro fantocci trova una lezione d’arte drammatica; nelle querele e nelle amicizie villerecce coglie sempre nuove rivelazioni dell’animo umano. Egli crede, medita, spera, ha fiducia in Dio.

Il prodigio operato dall’ingegno di Goethe fu quello di aver mischiato tutti questi caratteri senza confonderli: fu quello d’avere con un felice uso di mezze tinte e chiaro scuri trasformato questa scena, tanto mutabile, varia e complicata, in un tutto splendido ed armonico. In questo suo lavoro, come nel mondo che abitiamo, tutto è contrasto, ma nulla si urta: un trapasso insensibile riconcilia, per così dire, fra loro le dissonanze più opposte. Faccende, meditazioni, passioni, sogni, chimere, illusioni, [p. 23 modifica]infantilità, generosità, eroismo, errori, pentimenti, persino rimorsi, tutto ciò che agita la vita umana vi occupa il naturale suo posto e conserva il più profondo significato.

Ecco l’opera che de’ critici moderni hanno sì altamente, sì crudelmente anatemizzato, siccome rozza, triviale, assurda e leggiera. Vi si rammentano, eglino dissero, degli oggetti volgari: gli eroi trascelti seggono spesso a un banchetto di gozzoviglia: i confetti che si danno a’ fanciulli e l’armadio che racchiude queste preziose provvigioni sono un oggetto di predilezione de’ più giovani personaggi. In sèguito ad accuse tanto gravi venne recato il giudizio che l’opera non offriva alcun senso, alcun interesse: si giunse persino da cosi fatte osservazioni a presupporre un magistrale ascendente esercitato dalla gastronomía sull’estro di Goethe e su i suoi stessi connazionali in generale. Schlegel frattanto, il più dotto e il più sagace filosofo tedesco, deliziavasi alla lettura di questo libro puerile: l’infelice regina di Prussia non cessava mai di rileggerlo: essa aveva tolto per motto di conforto nel suo esiglio i seguenti versi estratti da tal libro: — «O tu, che non bagnasti giammai delle tue lacrime i cibi dei tuoi banchetti, nè il letto del tuo dolore; o tu, che giammai non vegliasti nell’oscurità e nei patimenti aspettando il ritorno del di lento a venire; va, tu non conosci la celeste speranza, tu non conosci l’angelico avvenire.»9 — La sventurata regina di Prussia nulla avea di triviale, di volgare, nel pensiero e nella condotta: la è cosa difficile quella di credere che l’unico libro nel quale ella trovava la consolazione e la calma fosse bruttato di sì gravi difetti.10 E realmente è questa una delle opere più consolanti e più meritevoli di essere letta: la morale ne è tanto più elevata quanto più lo stile è famigliare. Alcuni lavori drammatici, siccome il Clavizzo e lo Stella [p. 24 modifica]si riferiscono alla prima epoca poetica di Goethe: altri lavori, come l’Ifigenia, il Tasso e l’Egmont si riferiscono alla seconda epoca, di cui qui tenemmo parola. Il Faust, creazione sublime, è un’opera drammatica diretta a snudare quello scetticismo distruttivo, e quella gigantesca potenza della filosofia del dubbio, il di cui risultato è la disperazione ed il nulla. A misura che Goethe progrediva negli anni, una speranza più mistica e consolante s’insignoriva dell’animo di lui. Una terz’epoca incomincia a questo punto della sua vita: è questa l’epoca della sua vecchiezza. I colori del poeta diventano più soavi e più eterei; ogni ricordanza di terrene passioni sembra che da lui s’allontani. Egli scrive allora le Memorie intorno alla sua vita, Memorie censurate per la soverchia famigliarità di stile: egli compone poesie tenere e graziose, saggi di estetica notevoli per profondità e per calma di pensiero, l’Intermezzo di Faust, di cui già parlammo, e la continuazione di Meister col titolo di Wanderjahre, bizzarro frammento ancor più enigmatico pe’ suoi lettori dello stesso Lehrjare o l’Alunnato di Wilhelm.11

Dal suo paesetto volgare ed agreste d’onde Wilhelm trasse l’istruzion sua intorno a tutto ciò che vi ha di utile nella vita, egli passa in una nuova regione, nella regione dei simboli e delle allegorie. La prima di queste opere ci presenta i casi volgari della vita; la seconda ci rivela la prospettiva delle idee religiose e morali. Aerea utopia, ma di un grande significato, essa è pel secolo decimonono presso a poco ciò che la Regina delle Fate fu pel secolo decimosettimo.12 Trasparenza e leggerezza formano la tessitura di quest’opera: una sensatezza virile ne costituisce l’orditura. Si trova in essa un misto di gaiezza e di purità, [p. 25 modifica]di forza e di quiete, di grazia e di fuoco che caratterizzano particolarmente la maniera di Goethe. Il pensiero è quello sempre d’un uomo assennato, lo stile è quello di un poeta: tutto ciò che gli uomini discutono e approfondiscono nell’età in cui viviamo, è adombrato in quest’allegoria espressiva e perspicua: la fede filosofica e religiosa dello scrittore si trova in essa scolpita a caratteri immortali.

Noi seguimmo Goethe nelle tre epoche del suo bell’ingegno: nell’aura procellosa e terribile che gl’inspirò il Werther, nel campo famigliare della vita domestica, finalmente nel campo delle finzioni puramente poetiche, scevre d’ogni umana fralezza. L’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso del poeta si ravvisano in questi tre campi: non ci resta ora che di contrapporre de’ frammenti cavati da opere diverse, frammenti contrastanti fra loro ed atti a porre in miglior luce l’osservazione da noi fatta della progressione delle maniere diverse di questo autore. Agli occhi del giovane Werther la vita non è che un triste sogno:

«Quest’è quello che parecchi hanno pensato: e questo sentimento crudele lacera il mio cuore. Vedete in quali angusti confini il poter dell’uomo è imprigionato: vedete ove si fermano le sue indagini, ove ha fine il suo agire. Quanti e quali sforzi unicamente eletti all’oggetto di soddisfare a’ nostri bisogni! quanti patimenti ci costa il prolungare questa povera vita! quante mortali dubbiezze sulla nostra destinazione! Noi ci crediam certi e sicuri di alcune verità, e la nostra certezza non è che la certezza di un sogno. Un ridente prospetto ci sta dinanzi, eppur non è altro che una chimera; noi dipingiamo di variate tinle le mura della nostra carcere e ci crediam liberi.

»I fanciulli non sanno ciò che loro abbisogna: tutti i pensatori ne convengono. Ma gli uomini adulti lo sanno essi? Sanno essi ove vanno e d’onde vengono? Hanno essi una nozione più giusta delle cose? Ditemi, chi li governa? la verga, un frusto di pan biscotto e un abito nuovo. Poveri fanciulli! [p. 26 modifica]

»Tra queste due classi di ragazzi, i più felici, debbo io dirlo, sono i veri ragazzi, quelli che vivono contenti della sorte loro, che esistono giorno per giorno senza pensiero dell’indomane. Felici, fra gli uomini, quelli che ad essi rassomigliano! Il loro fantoccio gli basta. Fanno essi l’inchino al cassetto rispettato, ove la madre loro rinchiude il pan ghiotto: divorano la briciola che lor si porge, e colle gote enfiate esclamano: ancora! — Fortunati mortali! Eglino s’hanno dei titoli pomposi per tutta loro occupazione, delle sonore perifrasi per qualificare ogni loro passioncella: uditeli; è pel genere umano e per l’avvenire che eglino s’affaccendano! E l’uom che vede tutto questo, quegli che nella sua profonda umiltà riconosce quanto poco vale l’uomo che sente il suo ardore di vivere e la sua impotenza ad esser felice; quegli si raccoglie in sè stesso, e nutrendo ne’ penetrali dell’anima il dolce sentimento del suo esser libero, si consola nella sua servitù pensando che questo carcere mondano egli può abbandonarlo quando vorrà.»

Quest’apologia del suicidio, apologia fondata sul cattivo destino dell’uomo, sulla sua schiavitù sulla terra, sull’incertezza delle sue azioni e la vanità dei suoi progetti, costituisce tutta la filosofia di Werther. Lasciamo ora che lo stesso scrittore si confuti in uno splendido squarcio che noi ricaviamo dal suo Alunnato di Wilhelm Meister.

«Perchè l’uomo è tanto infelice in questa vita? È pel motivo che egli non si sente soddisfatto da ciò che è reale: egli aspira a migliori destini: tutto ciò che egli pensa e desidera non è in armonia cogli oggetti che lo circondano. Egli soffre, agita la sua catena. La sua vita è il perpetuo cercare d’una felicità che i suoi sforzi, che l’età sua, che i suoi tesori non valgono ad acquistargli.» Un solo uomo vi arriva; ed è quegli la di cui simpatia universale si estende a tutti gli oggetti, è quegli che rimane commosso dall’armonia sublime dell’universo: è il Poeta. Sensibile a tutti i dolori, accessibile a tutti i gaudii [p. 27 modifica]dell’umanità, egli consola i primi, accresce e purifica gli altri. Vate, uom savio, uom divino, egli è l’ammaestratore e consolatore del mondo. Egli ha le ali dell’uccello: posa sulle vette più sublimi, si libra sull’ampiezza de’ mari, pianta il suo nido negli odorosi boschetti, trasvola sulle città tumultuose e le inebbria del suo canto. Mentre gli altri assonnano, egli solo vigila. Egli sguarda il passato nei suoi rapporti col presente, il presente ne’ suoi rapporti coll’avvenire. Questa schiatta sublime dei veri poeti si spegne; ma fuvvi un tempo in cui ella attraevasi la venerazione del mondo. Allora la loro voce partiva dal romito ritiro, come la voce dell’usignuolo che s’ode in grembo alle boscaglie, e ciascuno soffermavasi per udirla. Eglino sedevano a tutti i focolari, e a tutti i banchetti erano accolti ospitalmente. Ricchi di pensiero e di melodia, eglino non avevano al mondo altra opulenza. L’eroe gli ascoltava; il conquistatore ammiravali: assiso sul suo carro di trionfo, egli sentiva che lo strepito della sua possanza e della sua gloria in breve passerebbe, ma sapea che le labbra ispirate del poeta potevano esse sole consacrarlo nella memoria dell’avvenire. Primi pontefici crearono i vati gl’Iddii: eglino ci elevarono sino al loro trono celeste; abbassarono sino a noi la celeste possanza. Il solo mezzo che valga a fuggire i dolori della vita sta nel rassomigliarli nella loro vocazione sublime, sta nel sollevarsi oltre i patimenti dell’umanità senza dipartirci da questa, sta nel simpatizzare con essa mediante una profonda e universale benivolenza.»

Goethe considerato qual poeta e moralista, offre in sè stesso l’esempio mirabile e il modello quasi ideale del Poeta da lui descritto. I popoli lo riveriscono, i re traggono a visitarlo. Egli vive famigliarmente coi principi, e la vispa fanciulla del popolo canta le sue odi. In un’età turbinosa e incoerente, la di cui vita costituisce una nobile e generosa anomalia, egli non può essere imputato nè di vil sommessione, nè di avidità disonorevole, nè di intrighi secreti: il suo santuario e la sua elegante solitudine pulla hanno [p. 28 modifica]d’austero o di misantropico. I suoi puri costumi sono marchiati di dignità e di gentilezza; le sue maniere tengono di una civiltà raffinatissima, senza che un sol vestigio di corruzione o di digradamento si lascin neppur travedere. Omaggio sia reso a quest’uomo, la cui vita e le cui parole, il di cui ingegno e le opere compongono una sì commovente e sì peregrina armonia!

Noi ammirammo l’intelligenza di Goethe e la vedemmo svolgersi a noi dinanzi: noi non ci siamo curati che di tratteggiare sommariamente il carattere del suo ingegno. Questo artista dotato della facoltà di tutto comprendere, tutto riprodurre, seppe graduatamente perfezionarsi collo studio, colla meditazione, col soffrire le acerbità della vita. Egli seppe raccogliere ed accordare tutti i gravi dettati che la storia ci ba tramandati. L’alto e fecondo suo intelletto s’insignorì di tutto ciò che l’antichità ci ha trasmesso in fatto di tradizioni, di tutto ciò che l’incivilimento ne largisce in fatto di lumi e di tecnici perfezionamenti. Alla sua flessibilità naturale egli seppe aggiungere una quantità di sussidi e cognizioni quasi infinita: per un vero prodigio gli scritti di tanto uomo sono perspicui nella loro dizione, ingenui nella loro facondia e splendidezza.

Anche quando le allegorie ed i simboli traspaiono dal suo pennello creatore, Goethe sa conservarsi semplice e lucido. Nelle sue dipinture v’ha sempre della calma e del riposo: il suo calore è dolce e penetrativo: il suo stile è infinitamente arrendevole, ma sempre chiaro: i suoi personaggi, come Faust, Filina, Cloercben, il Tasso, Mefistofeles, Mignon, agiscono liberamente e sembrano vivere nella propria loro vita. Essi non veggonsi, come gli eroi di Byron, di Rousseau, di Richter, portare il marchio incancellabile degli autori che gli hanno creati. Sono in vece creature simili a quelle immaginate da Omero, da Shakespeare, da Richardson; sono veri esseri vivi e viventi, sono personaggi ben rilevati. Goethe gli governa, gli classifica, gli fa parlare, operare, pensare come gli torna più a grado. [p. 29 modifica]Giammai fu egli veduto, ad imitazione de’ contraffattori di Walter-Scott, raccogliere de’ materiali insignificanti, grossolani, minuziosi che la storia presenta al soccorso di alcuni incidenti ad artificio accordati, attelarci allo sguardo uno sterile panorama, composto, se ci è lecita la frase, di ritagli e di raschiature che le cronache offrono all’erudito. Egli ha senza dubbio i suoi difetti; ha quelli del suo paese, quelli talvolta del suo tempo: ma ne ha però tutta la profondità, l’energia, l’elevatezza. Egli è forse l’uomo che a’ nostri giorni comprese meglio lo spirito dell’età in cui viviamo.







Note

  1. Giovanni Volfango Goethe nacque a Francoforte sul Meno, il di 28 agosto 1749, da un vecchio jurisperito di questa città, e mori a Veimar il 22 marzo 1832. Questi Cenni sono tolti dal fascicolo XV, dicembre 1830, dell’Indicatore Lombardo.
  2. Quando fu scritto questo articolo, l’Europa non era ancora dolente per la morte del Goethe.
  3. Goetz di Berlichingen.
  4. Werther.
  5. Es sic recht sauer werden lassen.
  6. There’s something rotten in the state.
    You shall ec. - Hamlet., att. III.
  7. Dichtung und Warheit.
  8. Les us do what’s great, what’s noble
    In the ligh Roman fashion. — Cleopatra.

  9. Wilhelm Meister, cap. XIII.
  10. Lo stesso Goethe rammenta con giusto orgoglio questo fatto nell’opera periodica intitolata Kunst und alterthum. Anno 1324.
  11. Wanderjahre significa anni di viaggio: Lehrjahre anni d’alunnato. Il Wanderjahre corrisponde al viaggio, o giro per la Francia che usano fare gli artigiani francesi.
  12. Taery Ozueen, poema di Spencer.