Fantasia (Serao)/Parte quinta/I
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I.
«Non ho potuto resistere senza te. Ho detto che me ne andavo a caccia e sono venuto a Napoli. Te ne scongiuro, fa che io ti vegga per un momento solo! il tempo di dirti che t’amo più di prima — Andrea».
La risposta tardò ma venne.
«Domattina, alle dieci, fa trovare una carrozza chiusa nel chiostro di Santa Chiara, innanzi alla porta piccola della chiesa. Lo sportello aperto, le tendine abbassate. Vengo, per un momento, per dirti addio — Lucia».
Egli si aggirò tutta la notte nella camera d’albergo, rileggendo quel biglietto buono e crudele, inesplicabile, come colei che lo aveva scritto. Il temperamento saldo di Andrea, dalle sorgenti ricche di vitalità, si era guastato, il sistema nervoso si era corrotto, i muscoli si erano ammalati di fiacchezza. Egli ricercava invano la forza dei suoi pugni, la solidità dei garretti che non piegavano: era diventato debole, come se le gambe non lo potessero sostenere. Questo stomaco, dalle cui meravigliose facoltà digestive dipendeva tutta l’armonia di quell’organismo, aveva perduto l’appetito. Egli era giunto a prendere i gusti di Lucia, i bicchieri d’acqua gelata, quelli appena coloriti di vino, le vivande stuzzicanti, i dolci: le costolette sanguinanti lo nauseavano, come nauseavano lei. Si sentiva infermo. Non sentiva in sè, e attorno a sè che un solo rimedio al suo morbo: Lucia. Ella sola poteva guarirlo, ridare ai suoi polsi fiacchi il vigore, fargli correre furioso e ricco il sangue per le vene, restituirgli quella serenità fisica che viene dall’equilibrio, ridonargli quella gaiezza esuberante, quella contentezza della vita che aveva perdute. Egli era infermo per la mancanza di Lei, per una privazione ingiusta: sentiva che al primo bacio, alla prima giornata d’amore, sarebbe rinato, bello, forte, caldo, sfidante la mala fortuna e il dolore. E, a questa visione, egli chiudeva gli occhi, come abbarbagliato dal sole.
— Lucia, Lucia! — andava ripetendo, pallido, coi capelli disordinati, la camicia aperta al collo, poichè respirava male: egli non pensava ad altro che all’appuntamento del domani e a quello che gli avrebbe detto Lucia, e come lui l’avrebbe dissuasa dal dirgli addio. L’avrebbe dissuasa, n’era certo: perchè, senza Lucia, egli sarebbe morto e non voleva morire. Mille progetti stravaganti gli si affollavano nella fantasia. Sognava d’inginocchiarsi davanti a lei, di dirle tranquillamente: Sono venuto qui per essere ucciso da te. — Avrebbe portato una rivoltella e gliel’avrebbe offerta. Ella non lo poteva uccidere se lo amava. Sognava di non rispondere nulla ai suoi ragionamenti, se non continuamente: Ti amo, ti voglio. — Sognava di tacere sempre, ma di baciarla, di baciarla, di baciarla, sino alla stanchezza mortale delle labbra. Quando l’alba livida di novembre sorse, trovò Andrea con gli occhi ardenti che guardavano ancora le inafferrabili allucinazioni della sua fantasia, con la bocca riarsa. Egli uscì alle sette, per le vie di Napoli, sotto una pioggerella minuta minuta, lasciandosi bagnare. Alle otto era già in carrozza, passeggiando su e giù per Toledo, con le tendine abbassate, lungo disteso, il cappello sugli occhi, facendo suonare ogni cinque minuti il suo cronometro.
La pesante portiera di pelle imbottita, col paramano di ferro chiodato, ricadde dietro la signora, vestita di lutto profondo, di lana nera. Poca gente nella chiesa di Santa Chiara: è una navata sola, tutta allegra di dorature, di larghi finestroni, di pitture fresche e vivaci: un salone, piuttosto che una chiesa. Lucia prese l’acqua benedetta, si segnò profondamente rivolta all’altare maggiore, poi s’inginocchiò davanti all’altare dell’Eterno Padre, miracoloso altare, circondato di ex-voto di cera, di argento, in quadretti rossi e turchini. Essa, genuflessa sullo scalino di marmo, appoggiata la fronte alla balaustra di marmo, parlava mentalmente all’Eterno Padre, dicendogli che se egli aveva voluto così, poiché il destino era quello, poiché lei obbediva ai misteri della Provvidenza, almeno che le desse consiglio in quell’ora suprema. L’Eterno Padre aveva voluto buttarla in quello stato di dolore in cui ella aveva tutto perduto, pace e felicità: ora, la sostenesse, la illuminasse per ritrovare la sua via. Quale era la sua via, dunque, la via della giustizia? Lasciare Andrea perchè egli commettesse qualche eccesso? Darsi a lui, ingannando sempre? Darsi a lui, palesemente? Ella parlava all’Eterno Padre, umilmente, aspettando il lampo divino dello Spirito Santo, che rischiarasse la sua terribile posizione.
— O Padre, o Padre, voi voleste che ciò fosse! Ora aiutatemi voi.
Si levò di lì, dopo tre Pater noster finali. La grazia non era venuta; l’Eterno Padre non le aveva fatto sentire la sua voce: ella si rialzava inutilmente dalla preghiera. Dio, il Padre, non aveva inteso. Attraversò la lunghezza della chiesa e andò, barcollante, a cadere innanzi all’immagine della Madonna, un’antica Madonna delle Grazie, dal viso scialbo e dai grandi, pietosi occhi azzurri, che pare vi guardino, che pare chiamino, che pare seguano il credente che si allontana. Lucia parlava alla Madonna della sua pena, della sua infelicità... e col capo abbassato sulla balaustra, la bocca sul marmo, piangendo e singhiozzando silenziosamente, ella le diceva:
— O Vergine Santissima, voi soffriste come madre, io soffro come donna. Voi non provaste lo strazio di questi dolori, ma dal cielo li vedete e li comprendete. O Vergine Santissima, io fui senza volontà in questo peccato. Dinanzi alla misericordia divina, io sono innocente e infelice. Fui trascinata, vinta, poichè le mie forze erano deboli, poichè le aveva affralite la sventura, inflittami da cielo. O Vergine Santissima, io posso anche ave peccato, ma non sono una malvagia, sono un essere bersagliato, torturato, di cui tutti si fanno zimbello. O Vergine Santissima, come a voi, hanno immerso anche a me nel cuore sette spade di dolore; come voi, sono quindici anni che ho anch’io la truce visione del martirio. O Vergine Santissima, io sono la più alta tribolazione che sia sulla terra. Il mio cuore sanguina, il mio cervello è stretto in una scatola di piombo, i miei nervi sono ritorti da una mano di ferro, la mia bocca è arida. Madonna, aiutatemi voi, consolatemi voi. O Madonna, che non avete conosciuto l’amore umano, pietà di chi lo conosce, immenso, ardente, divorante. O Madonna, che non conoscete il desiderio, pietà di chi lo ha in sè, lungo, insaziato, feroce. O Madonna, ditemelo voi: debbo io darmi ad Andrea?
Ma gli occhi supplici di Lucia si rivolsero invano al volto pallido della Madonna: la Vergine seguitava a guardare, coi medesimi occhi compassionevoli, Lucia che pregava e una femminetta che recitava il rosario e si batteva il petto. Allora Lucia disse la metà del rosario, su quel frammento in lapislazzuli. A un Pater noster si fermò, cavò l’orologio: erano le dieci. Finì per pregare solo con le labbra, distratta, sdegnosa, poichè la grazia divina non era venuta a lei. Tutti l’abbandonavano alla sua sorte, anche Dio, anche la Madonna: povera foglia staccata dall’albero e travolta nel vortice del destino. Era inutile: tutti contro lei, tutti la lasciavano senza difesa, senza soccorso. In quell’ora nera, l’ingratitudine del mondo e l’indifferenza del cielo le furono palesi.
— Fiele e aceto, fiele e aceto: è la bevanda che dettero a Cristo — andava ripetendo tra sè, riaccomodando le pieghe del suo abito nero e abbassandosi il lungo velo di crespo nero sulla faccia.
Di nuovo, avvicinandosi all’altare maggiore, s’inchinò, si segnò, disse un Gloria Patri vago, per abitudine. E fu con un gesto di decisione che ella infilò la porta piccola e lasciò sbattere la portiera.
La carrozza a due cavalli, un landau di nolo, stava ferma ai cinque gradini. Tutto il chiostro, largo, quadrato, era deserto. Guardavano forse le nobili suore, di dietro alle graticciate? Pioveva fino fino; il cocchiere immobile, indifferente, si riparava sotto un ampio ombrello. La carrozza portava la lettera M e il numero 522. Lo sportello verso la chiesa era aperto. Tutto questo vide Lucia. Discese con passo fermo, senza guardarsi intorno, fu di un salto solo nella carrozza. Una voce gridò al cocchiere: A Posilipo — lo sportello si richiuse d’un colpo. La carrozza partì.
— O cara, cara, cara — mormorava Andrea, cercando di abbracciarla.
Ella si sciolse e ridendo ironicamente, gli disse:
— Sapete che la nostra posizione si trova nella Madame Bovary? È un romanzo di Flaubert.
— Io non l’ho letto. Come puoi essere così cattiva a dirmi queste cose?
— Gli è che noi facciamo del dramma borghese o del dramma provinciale, che vale lo stesso.
— Non so niente io: so che ti amo.
— Era tutto quello che volevi dirmi? — domandò lei ghignando.
— O Lucia, sii umana. È vero che io ho perduto ogni spirito, ogni dignità: ma è per amore di te. Pensa quanto ho sofferto in questi tre giorni. Volevo andare a buttarmi dai ponti della Valle, per la disperazione.
— Chi dice di voler suicidarsi non lo fa.
— Ma se ti amo, non voglio morire. O cattiva, non mi hai dato un solo bacio.
— Non vi sono più baci pel nostro amore — sentenziò lei.
Vestita di nero, col velo ancora abbassato, nell’ombra verde delle tendine, senza che si vedessero nè i piedi nascosti sotto la gonna, nè le mani nascoste sotto i guanti, senza un filo di bianco nella sua persona, ella aveva una apparenza tragica. Un vivissimo senso di paura fe’ trasalire Andrea e gli parve di essere perduto, irresistibilmente perduto, per una strega maligna. Ma come ella si mosse e il noto profumo d’ambra si svolse nel piccolo ambiente, quella vivezza di paura scemò, scomparve.
— Che hai? — disse lui, non trovando nulla da dire, disanimato, vedendo svanire i suoi progetti.
— Nulla.
— Mi ami?
— Ti amo — fu la risposta glaciale di Lucia.
— Quanto?
— Non lo so.
— Perchè hai detto che non vi sono più baci pel nostro amore?
— Perchè tu sei come Siebel, maledetto da Mefistofele. Siebel non poteva toccare un fiore, senza che avvizzisse e morisse. Tu mi hai baciata e io avvizzisco e muoio. Non vi sono più fiori per Margherita, non vi sono più baci pel nostro amore.
— Ho compreso — disse Andrea, ma era trasognato, addolorato.
— Era questo che ti volevo dire. Noi dobbiamo lasciarci.
— No — gridò Andrea, in collera.
— Sì: è la dura legge del dovere che lo impone.
— Il dovere è una cosa, l’amore è un’altra.
— Appunto per questo. Ami tu Caterina?
— Amo te — e chiuse gli occhi.
— Ebbene, sei più felice di me, io amo Caterina, io amo Alberto: sono per me due esseri adorabili.
— Tu ami troppe persone — osservò lui, amaramente.
Cercò prenderle una mano; ella si schermì. Fuori, la pioggia cresceva, la carrozza rotolava, senza rumore, sul selciato bagnato di S. Lucia.
— Il mio cuore è largo, Andrea.
— Tu devi amare me solo.
— Non posso. Io amo tua moglie e mio marito, non posso sacrificarli a te. Diciamoci addio.
— Non posso, Lucia. Io debbo amarti, sempre. Tu devi essere mia.
— Mai, mai, mai.
— Ma non hai tu paura di me? — le gridò lui, rosso in viso, furibondo. — Ma credi di potermi dire impunemente tutto questo? Non hai paura che io ti uccida? Non potrei farlo oggi stesso?
— Serviti pure — disse ella, tranquillamente.
— Perdonami, Lucia: sono uno sciocco e un selvaggio. Sei la mia vittima, lo comprendo. Ti rendo infelice e ti maltratto anche. Tutti i torti sono miei. Vuoi tu perdonarmi? Dimmi che mi perdoni.
— Ti perdono — e gli porse la mano, che egli baciò, umilmente, sulla pelle del guanto.
— Sentimi bene, Andrea — riprese ella: — dopo ti persuaderai che io ho ragione. Dolente, ma volenteroso, mi darai l’ultimo addio. Mi ascolti?
— Parla pure. Tu non mi convincerai, perchè ti amo.
— Ti convincerò, lo vedrai. In quello che accade, in questo dramma tumultuoso e tenebroso, io non ho colpa, tu lo sai. Io non cercavo l’amore, io non cercavo te. Avevo sposato Alberto, facendogli sacrifizio di tutta la mia vita, volentieri, con affetto. Ti avevo fuggito prima: ti ho ritrovato poi, due volte, sul mio cammino, col tuo amore crescente, invadente. Non volevo, non volevo, tu sai che io non volevo. Puoi dirlo?
— Sì, posso dirlo: tu non volevi — ripetè Andrea, come un’eco.
— Rendimi questa giustizia. Ho combattuto, palmo a palmo, con te che mi amavi, con l’amore che mi voleva. Ho vegliato, ho pianto, ho chiesto pietà al cielo: muto il cielo, muto il mondo, inesorabile il destino, implacabile statua di bronzo, senza viscere, che le lagrime umane non arriveranno mai a commuovere. È la fatalità che lo ha voluto.
— La fatalità, la fatalità — ripetè Andrea, convinto.
— Ora, io mi sento pura di colpa, quantunque più volte la mia delicata coscienza mi abbia fatto dire che sono un essere malvagio. Con la fatalità non si combatte: noi abbiamo chinato il capo e abbiamo amato. O Andrea, non dovrei dirtelo, ma l’ora è suprema, e qui le anime si debbono rivelare nude di ogni artificio: io ti ho tutto sagrificato...
— Tu sei un angelo...
— No, sono una misera donna che ama e che intende il sacrificio. Pace, tranquillità, doveri coniugali, doveri di amicizia, serenità di coscienza, amore mistico, tutto mi hai preso. Che mi puoi dare tu in cambio?
— Ahimè! io non posso che amarti — egli disse, desolato della propria miseria.
— L’amore non è tutto, Andrea.
— È tutto per me, Lucia.
— Faresti tutto per l’amore?
— Tutto.
— Di’ la verità, parla come se tu fossi in agonìa, per passare innanzi all’Eterno tuo giudice: faresti tutto?
E gli aveva prese le mani, lo guardava negli occhi, fisamente, ardentemente, quasi volesse trargli fuori l’anima. Andrea, semplicemente, nella reddizione completa della sua vita, disse:
— Tutto.
Ella si lasciò baciare tutte due le mani. Pensava. Poi sollevò un poco la tendina verde e guardò nella via. Pioveva sempre, più forte anzi, di traverso, certe gocce come aghi di acciaio, lunghe e acute. Erano a Mergellina. Sotto la pioggia il mare era di un bigio sporco e una bruma avvolgeva la macchia verde della Villa, la macchia brulla del forte Ovo. Non una barca, non una vela sul mare.
— Che desolazione — mormorò Lucia — sulla terra e sul mare! Il nostro amore è malaugurato.
— Lucia, Lucia bella, non dirle queste cose. Non mi hai dato un bacio, da che sei entrata.
— Il bacio è il tuo ritornello. Baciami pure.
Sollevò il velo, lo gettò indietro, si lasciò baciare sulle labbra che restarono chiuse e fredde. Egli si staccò, umiliato:
— Sei senza passione: io ti sono indifferente — le disse.
— Ma non capisci tu, sciagurato, che io non posso appartenerti? Non capisci che salirei alla più alta felicità essendo tua, e che me ne privo? Non capisci tu la rinunzia alla gioventù, alla passione, alla vita, che faccio io? O il disgraziato che non capisce e che mi fa spasimare!
— Io ti ammiro, Lucia. Niuna donna ti vale e io non ti merito.
Il cocchiere si fermò. Erano arrivati a Posilipo, sulla via che passa tra le ville salienti alla collina e le ville digradanti al mare.
— Va ai Bagnoli — gli disse Andrea, dallo sportello.
— Dove mi conduci, Andrea?
— Lontano...
— No: ho da tornare in città. Alberto mi aspetta.
— Non parlarmi di Alberto.
— Parliamone invece. Egli è ammalato. Gli ho detto che andavo a confessarmi. Tu mi devi ricondurre presto a casa.
— Io non voglio ricondurti più — disse egli energicamente.
Lucia lo guardò, interrogandolo; ma un fugace sorriso le aveva carezzato le labbra.
— Tu devi stare con me, tu devi venire con me: io non ti lascio, Lucia.
Ella non rispondeva, contemplandolo, esterrefatta.
— Tu impazzisci, Andrea.
— Non impazzisco, Lucia. Parlo sul serio, la mia volontà è ferma.
La carrozza si fermò, era la spiaggia dei Bagnoli.
— Scendiamo un poco. Qui è deserto e piove: nessuno ci vedrà.
Egli ubbidiente, aprì lo sportello, l’aiutò a scendere, le dette il braccio. La carrozza rimase sulla via, essi discesero sulla spiaggia, sotto la pioggia fine, immergendo i piedi nella sabbia molle. Il paesaggio, deserto, era avvolto nella umidità acquitrinosa. Dinanzi a loro Nisida, l’isola dei galeotti, si faceva nera sul fondo chiaro dell’orizzonte. Lì sotto, il mare era bruno, torbido, come se fossero venute a galla tutte le mostruosità livide del fondo: lontano, verso Baia, diventava di un bianco argenteo e gelato. Alle loro spalle, la trattoria dei Bagnoli aveva tutte le sue finestre chiuse, il pergolato nudo; la facciata gialla si macchiava per la pioggia. Poi, dietro, si allargava, bigia, incassata fra le colline, la pianura dei Bagnoli, dove i soldati vengono a fare le manovre, dove i duellanti napoletani vengono a battersi.
— Pare un paesaggio del nord — disse ella, stringendosi al braccio del suo cavaliere — un paesaggio triste e morto. Non è la Bretagna, poichè la Bretagna ha i suoi scogli irti e i picchi disperati. Non è neppure l’Olanda, poichè la Schelda è bianca, grassa, placida, immersa in una nebbia lattea. È la Danimarca, è Amleto che guarda, con gli occhi pensosi, dove la follìa si concentra, il Baltico che si fa grigio.
Egli stava a sentire, seguendo solo il suono musicale di quella voce che gli vibrava nell’anima. Si bagnavano a quella pioggia sottile, lanceolata, ma non se ne accorgevano.
— Sei mai venuto qui, Andrea, quando il paesaggio era azzurro?
— Oh sì: vedi, lassù, dietro quelle finestre chiuse, in un grande stanzone di osteria, mi son battuto.
— O amore mio, con chi?
— Con Cicillo Cantelmo, un amico.
— Per chi?
— ... per una femmina.
Un silenzio imbarazzante si fece.
— Come io non so nulla della tua vita, Andrea — riprese ella, con dolcezza, attaccandosi sempre più al suo braccio, avviticchiata a lui. — Io ti sono estranea.
— Il passato non è amore. Tutto quello che fu, è morto.
— O amore, io sono morta, io sono morta alla gioia.
— Lasciati portar via da me: sul mio cuore, rinascerai.
— Tu parli oggi come un poeta, Andrea, come un sognatore.
— Sei tu che mi hai insegnato questo linguaggio: io non lo conoscevo: io non avevo mai sognato. Lucia, vientene via con me.
— È tardi, è tardi — riprese lei. — Torniamo, in carrozza, torniamo a Napoli.
Tornarono in carrozza, rientrarono in quel piccol nido verde, separato dal mondo esterno. Erano ambedue tristi. Come presero la via di Fuorigrotta, Lucia trasalì, si rivolse ad Andrea:
— E l’avvenire?
— Non pensarvi: lascialo giungere.
— Tu sei sempre un fanciullo, Andrea.
— No: sono un uomo, lo vedrai. Vuoi tu affidarti?
— Ho paura, ho paura — e si avviticchiò a lui.
— Di che hai paura?
— Non lo so..... Ho paura di perdermi. Questa amore è una rovina, Andrea. Io lo conosco l’avvenire. — Vuoi tu che te lo dica? Vuoi che ti descriva i due destini che ci aspettano?
— Dillo, ma dammi le tue mani: dillo, ma sorridi.
— Noi abbiamo due vie. La prima è quella del dovere. Al finire di questa passeggiata, malinconica e cupa, sotto la pioggia, in questa carrozza che sembra un convoglio funebre, condotto da uno spettro di cocchiere, darsi un bacio gelido e dirsi addio. Rinunziare all’amore. Separarsi per tutto il tempo, non ritrovarsi mai. Riprendere, tu, presso Caterina, io, presso Alberto, quella vita arida e secca come la pomice, quell’esistenza volgare e borghese, che uccide l’anima. Quanto fu splendido sogno, quanto fu realtà seducente, dimenticare: ecco l’avvenire.
— No, non posso.
— Ce n’è un altro di avvenire. È il peccato ipocrita, è la colpa segreta, è l’adulterio pauroso e tremante, che si avvilisce, che inganna, che si bacia di nascosto, che dipende dai servi, dai portinai, dai postini, dalle cameriere, da tutti. È quello che abbiamo fatto sinora: è la odiosità, è la volgarità, è il modo di tradire come tutti tradiscono. Amare, come tutti gli altri amano! Rifare, quello che centomila hanno fatto! È indegno di una donna come me, è indegno di un uomo come te.
— Una volta mi dicesti che l’inganno è una pietà — mormorò lui. — Tu ami Caterina e Alberto: in questo modo li salveresti.
Ella squadrò Andrea, questo suo scolare che aveva imparato così bene le sue teorie amorose e che ella faceva giungere sino a rinnegare la verità. Egli aveva profittato troppo. Egli era già giunto alle sottigliezze sentimentali.
— Allora — disse Lucia cupamente — poichè io non potrò mai rassegnarmi a nascondere l’amor mio, poichè io non posso più ingannare, meglio è lasciarci.
— No, non posso.
— Meglio è lasciarci.
— Non posso. Se debbo lasciarti, muoio.
— E che ho da fare io? Non ci è via di scampo. Muori. Morirò anche io.
E rivolta la faccia verso la parete della carrozza, distese i piedi, incrociò le braccia come se aspettasse la morte.
— Ti ho lasciata parlare — disse egli, pacatamente, con un tono decisivo — perchè me lo hai chiesto. Ma io ho il mio progetto, l’unico, il migliore. Tu non vuoi l’adulterio borghese? Ebbene noi avremo l’adulterio sfacciato, lo scandalo clamoroso. Noi partiremo insieme, da Napoli...
— No! — gridò ella, covrendosi la faccia per l’orrore.
— ... partiremo insieme, per non ritornarvi più. Noi ricomincieremo altrove, a Londra, a Parigi, a Nizza, in Bretagna, dove tu vorrai, la nostra vita. Napoli non esisterà più per noi. Poichè era destinato che io dovessi amarti, che tu dovessi amarmi, paghiamo il debito al destino.
— Fatalità, fatalità! — e si torceva le braccia disperata.
— Fatalità! — ripetè Andrea amaramente. — Non dovevamo amarci prima. Ora non è più tempo, è troppo tardi, tu mi appartieni.
— O Caterina, o Alberto! — diceva ella, piangendo.
— È la fatalità, Lucia.
— Mio marito, la mia migliore amica! — e i singhiozzi le rompevano il petto.
— Te lo ripeto, hai il cuore troppo grande. Io amo te sola: me solo tu devi amare.
— Che strazio, Andrea!
— Non mi hai tu detto cento volte: portami via? Ecco che ti porto via.
— Porterai teco un cadavere, uno spettro pallido di rimorsi.
— Allora scegliamo l’inganno, l’amore che fanno tutti e che tu non vuoi fare.
— O mio Dio, che supplizio è questo? Io non me lo meritava.
D’improvviso si fece notte. Ella gettò un grido di spavento.
— Niente, è la grotta. Non temere di nulla. Io ti amo.
— Ma questo amore è una sciagura, è una tragedia.
— Non era questo che mi dicesti nel parco?
— Sì — disse ella, atterrata.
— Ebbene, Lucia, io passerò la mia vita a chiederti perdono di averti votata a questa sventura. Io t’ho resa una vittima, lo so. T’ho perduta, lo so. Ti chieggo un sacrificio enorme, lo so. Ma tu sei la donna del sacrificio, tu sei l’esempio della più nobile abnegazione; tu sei la stessa virtù, la stessa purezza. Vedrai come saprò amarti, come ti adorerò.
— E Caterina e Alberto?
— Noi partiremo insieme, per non ritornare più — ribattè lui, ostinato.
— Ci danneremo, Andrea.
— Io ti porterò via. Chiamami pure carnefice, me lo merito. Ma vieni con me.
— Noi saremo infelicissimi.
— Che!
— Madonna mia, Madonna mia, perchè avete voluta la mia perdita?
— Vieni tu oggi o domani?
— Nè oggi, nè domani... ho paura... lasciami pensare, lasciami pensare. Sei spietato. Tutti sono spietati meco.
— Tu sei un angelo, Lucia: tu perdonerai. Oggi o domani?
— Sii umano, lasciami il tempo.
— Te lo lascio, amore mio. Aspetterò; poichè so che verrai.
Un pallido raggio di sole ferì la portiera, illuminò la carrozza. Lucia pareva trasognata.
— Mi lascerai alla chiesa della Vittoria. Là pregherò: di là andrò a casa, sono due passi.
— E io che debbo fare? Sei tu che disponi di me.
— Parti oggi stesso per Caserta. Fra cinque o sei giorni ritornerete a Napoli tu e Caterina. Allora... avrò pensato. Ma tu non scrivermi, non venire, non comparirmi innanzi, non chiedermi appuntamenti. ...
— Ti sono odioso, è vero?
— Ti amo pazzamente. Ma ho bisogno di essere sola.
— Non mi odii, per il male che ti ho fatto?
— Ahimè, no. Tutti siamo capaci di fare il male.
— Tu no. Io sono malvagio, ma ti amo.
— Siamo giunti, Andrea, fa fermare.
— Lucia, pensa che non ci è scampo. Bisogna partire, assolutamente, bisogna. Dammi un bacio, o sposa mia.
In piedi ella si fece baciare.
— A quel giorno, Andrea — disse Lucia, con un gesto tragico, quasi gettasse via la propria vita.
— A quel giorno, Lucia.
Si richiuse lo sportello, la carrozza si allontanò, voltando pel Chiatamone. Ella fece per entrare nella chiesa, ma la trovò chiusa: restò colpita.
— Dunque anche Dio lo vuole. O Signore, ricordatevene nel giorno dell’eterno giudizio.