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e si batteva il petto. Allora Lucia disse la metà del rosario, su quel frammento in lapislazzuli. A un Pater noster si fermò, cavò l’orologio: erano le dieci. Finì per pregare solo con le labbra, distratta, sdegnosa, poichè la grazia divina non era venuta a lei. Tutti l’abbandonavano alla sua sorte, anche Dio, anche la Madonna: povera foglia staccata dall’albero e travolta nel vortice del destino. Era inutile: tutti contro lei, tutti la lasciavano senza difesa, senza soccorso. In quell’ora nera, l’ingratitudine del mondo e l’indifferenza del cielo le furono palesi.

— Fiele e aceto, fiele e aceto: è la bevanda che dettero a Cristo — andava ripetendo tra sè, riaccomodando le pieghe del suo abito nero e abbassandosi il lungo velo di crespo nero sulla faccia.

Di nuovo, avvicinandosi all’altare maggiore, s’inchinò, si segnò, disse un Gloria Patri vago, per abitudine. E fu con un gesto di decisione che ella infilò la porta piccola e lasciò sbattere la portiera.

La carrozza a due cavalli, un landau di nolo, stava ferma ai cinque gradini. Tutto il chiostro, largo, quadrato, era deserto. Guardavano forse le nobili suore, di dietro alle graticciate? Pioveva fino fino; il cocchiere immobile, indifferente, si riparava sotto un ampio ombrello. La carrozza portava la lettera M e il numero 522. Lo sportello verso la chiesa era aperto. Tutto questo vide Lucia. Discese con passo fermo, senza guardarsi intorno, fu di un salto solo nella carrozza. Una voce gridò al cocchiere: A Posilipo — lo sportello si richiuse d’un colpo. La carrozza partì.