Fantasia (Serao)/Parte quinta/II
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II.
Caterina era ritornata con un certo piacere alla casa di via Costantinopoli, in Napoli: poichè a Centurano, sola, senza Lucia, senza Alberto, e sopratutto senz’Andrea che era andato quattro volte a caccia in quindici giorni per ripagarsi del tempo perduto, si seccava molto. In quei quindici giorni ella aveva fatto fare grande nettezza nella casa di Centurano, messe le fodere ai mobili, tolte le tendine: la camera di Lucia l’aveva lasciata intatta per l’anno venturo. La casa rimaneva affidata a Matteo. Finito questo, fu contenta di venirsene via.
Nei suoi quartieri d’inverno ella voleva fare molte innovazioni. Ne parlava lungamente con Andrea il cui consiglio per lei era prezioso. Per esempio la stanza da pranzo aveva bisogno di un parato nuovo; ma ella aveva pensato di far mettere, all’ingiro, sulla parete, uno zoccolo di legno di quercia scolpito, che salisse all’altezza della persona, un’idea che le aveva suggerito Giovanna Gabrielli-Casacalenda, maestra di eleganza. La spesa era un po’ forte e Caterina aveva esitato qualche tempo, malgrado che Andrea le avesse dato facoltà di spendere. Erano ricchi, non spendevano la loro rendita, e la proprietà prosperava; ma ella era naturalmente portata all’economia. In quanto a rinnovare il salotto giallo, poichè Andrea lo trovava troppo sfolgorante e troppo provinciale, non sarebbe stata grave spesa, visto che il tappezziere se lo ripigliava tutto il mobiglio del salotto giallo, e ne avrebbe fornito uno in cambio a colori miti, e forme nuove. Ella interrogava spesso Andrea, che le rispondeva distratto, poichè egli era preoccupato per una lite, a proposito di un muro divisorio, in una casa loro, al Sedile di Porto. Egli esciva sempre, aveva conferenze con gli avvocati, discorreva col suo uomo d’affari. Giusto, quella mattina era escito alle otto, non era ritornato che alle undici, disfatto.
— Ebbene, come va la lite? — gli domandò Caterina a colazione.
— Male.
— Perchè? Il nostro vicino non vuole venire a una transazione?
— Non ci vuole venire, si ostina, dice che è nel suo diritto...
— Ma l’avvocato tuo che fa?
— Che cosa vuoi che faccia? Si dimena, come tutti gli avvocati, o finge di dimenarsi.
— Perchè non mangi?
— Ho poca fame. Sono nervoso.
— Dopo colazione potresti dormire un pochino.
— Ti pare? Ho da escire di nuovo.
— Al Tribunale? Questa lite ti farà ammalare.
— Mi guarirò, mi guarirò.
— Senti un po’: se tu lo lasciassi fare il vicino?
— È questione di amor proprio. Ma tu hai ragione, forse.
— Gli è che è una noia questa lite. Stamane Alberto ha mandato a chiedere di te, e non vi eri.
— Chi, Alberto?
— Alberto Sanna.
— Che voleva?
— La cameriera m’ha detto che ti chiedeva perchè, costretto a stare in casa, voleva affidarti un affare. Particolarmente, poi, da parte di Lucia, mi ha detto che Alberto ha sputato sangue, iersera, nel sonno, che non se n’è accorto e che glielo nascondono. Ha anche detto che Lucia piangeva.
— Anche Alberto è un seccatore — disse egli, infastidito, stringendosi nelle spalle.
— È per Lucia che ne ho dispiacere. Chissà come soffre...
Egli tacque.
— Vorrei andarci oggi, per mezz’ora — azzardò ella.
— A che serve?
— Così, per consolare Lucia...
— Oggi io non posso accompagnarti, e sai che mi dispiace mandarti sola.
— Hai ragione, non andrò. Andremo insieme questa sera.
Avevano finito di far colazione, ma rimanevano a tavola. Andrea scherzava con le miche di pane.
— D’altra parte oggi verrà qui Scognamiglio, l’esattore. Porta del denaro che tu prenderai, e gli farai la ricevuta per me. Gli dirai che può dare una dilazione agli inquilini del terzo piano, numero 79, in via Speranzella. Sono povera gente.
— Gli ho da dire altro?
— Dagli la mesata sua.
— Centosessanta lire?
— Sì: fatti dare la ricevuta.
— Va bene. Vuoi ancora del caffè?
— Sì: dammene ancora. È debole oggi.
— Siccome sei nervoso... Voleva dirti: andremo noi al ballo dell’Unione?
— ... sì.
— Posso farmi fare, per allora, un abito di broccato crème?
— Ti starà bene il colore?
— La sarta dice di sì.
— Esse dicono sempre così. Ma fattelo pure.
— Metterò le perle al collo.
Egli non rispose. Guardava nella sua tazza e pensava. Poi la fissò lungamente, tanto che Caterina se ne meravigliò.
— Orsù — disse poi, guardando l’orologio — io debbo andarmene.
Si alzò e ella lo seguì, com’era solita. Egli attraversò la casa, tutta: al suo scrittoio si fermò, cavò dalla scrivania un portafogli molto grosso e se lo pose in tasca.
— T’ingrossa — disse ella, ridendo.
— Non importa.
In camera egli gironzò un poco, come se cercasse qualche cosa dimenticata. Poi prese i guanti e il cappello.
— Dovresti prendere il paletôt: l’aria è rigida.
— Hai ragione, lo prenderò.
Finì di abbottonarsi i guanti: ella, ritta, lo guardava coi suoi occhi sereni. Egli si chinò e le dette un bacio, distratto, a caso. Poi si avviò, accompagnato da lei.
— A rivederci, Andrea.
— ... a rivederci.
Discese le scale: ella, dalla ringhiera del pianerottolo, gli domandò:
— Ritorni tardi?
— No. Addio, Caterina.
Lucia era rimasta a letto tardi. Nella notte, aveva detto ad Alberto, ella aveva avuto la febbre. Difatti le labbra erano aride e macchiate, gli occhi pesti, con una larga ombra di livido. Si era alzata alle undici, sfiaccolata, avvolgendosi in una veste da camera di raso nero, assistendo alla colazione di suo marito — due uova battute, nel caffè con latte, roba eccellente pel petto — reggendosi la testa con la mano. Ogni tanto, dei rossori le salivano alla faccia e ella respingeva i capelli indietro, sul collo, con un gesto vago di dolore.
— Che hai oggi? sei più triste del solito.
— Vorrei vederti bene, Alberto mio. Vorrei darti il sangue delle mie vene.
— E che? Sto tanto male, io?
— No, Alberto, no. È la stagione poco propizia per i petti delicati.
— O dunque? Ma capisco: tu sei tanto buona da allarmarti. Grazie, cara. Se non avessi te, a quest’ora sarei morto.
— Non dirlo, non dirlo.
— Eccola che piange, adesso, la mia creatura! Se ho scherzato! Sono uno sciocco, io; faccio certi scherzi stupidi che ti fanno piangere. Ti prego, non piangere più.
— Non piango, Alberto mio.
— Piglia un po’ del mio caffè.
— No, grazie: non ho voglia.
— Piglialo, piglialo.
— Ho da fare la comunione, oggi, verso l’una.
— Ah!... scusami allora. Non capisco mai nulla. In che chiesa vai?
— Alla chiesa solita, Santa Chiara.
— Ma la tua pietà religiosa ti fa penare, cara.
— Tutto mi fa soffrire, Alberto mio. È il mio destino. Ma soffrire per Dio è bello.
— Facciamoci monaci tutti due, Lucia.
— Tu scherzi: ma io volevo farmi monaca sul serio. Fu mio padre che non volle. Faccia il Signore che egli non si penta mai di questo divieto.
— E perchè, Lucia? Pensa: se ti fossi fatta monaca, non avresti conosciuto me, non ci saremmo amati, e non saresti la mia moglie cara.
— A che serve l’amore, a che serve il matrimonio? Tutto è corruzione, tutto è putredine nel mondo.
— Lucia, tu sei lugubre.
— Perdonami, Alberto; ma la tetraggine, che m’infosca l’anima, si espande e contrista colui che amo. Sarò sorridente per non contristarti.
— Povera cara! so quanto ti costo. Ma vedrai, starò molto meglio, presto, e ci divertiremo in questo inverno. Avremo feste, balli, corse...
— Mai più sarò lieta.
— Lucia, vuoi ch’io ti sgridi?
— No, no: non parliamone più.
— Se tu devi andare alla tua chiesa, non hai che il tempo.
— Mi mandi via, Alberto?
— È mezzodì: fino a che arrivi lassù, a Santa Chiara... anzi se ci vai più presto, ritorni prima.
— ... è vero, ritorno prima. Debbo andare, nevvero?
— Certo. L’aria ti farà bene. Va a piedi: anche il cammino ti gioverà.
— Tu che farai intanto?
— Ti aspetterò.
— ... mi aspetterai?
— Sì: forse dormirò, sulla poltrona.
— Hai le mani calde, Alberto?
— Ma no: senti.
— Dolore al petto, ne hai?
—Niente: solo qualche puntura nelle costole, così, vagante: punture meccaniche, come dice il medico.
— Ma che pensi? Non vedi che sto meglio? Iermattina ho tossito dieciotto volte: stamattina, diciasette. Vi è una migliorìa.
— Alberto, mio, possa tu avere la salute!
— Ma sì: diventerò forte come Andrea. Ah, quel birbone di Andrea! Stamattina l’ho mandato a chiamare, ma non è venuto. È sempre in giro, lui: può uscire, malgrado il freddo. È fortunato Andrea.
Ella stava a sentire, con gli occhi abbassati, con le braccia pendenti.
— Va a vestirti, va, cara.
Ella se ne andò, lentamente, voltandosi indietro a guardarlo. Ritornò dopo mezz’ora, tutta vestita di nero, coperta da un mantello di pelliccia, sotto cui nascondeva le mani. Venne e si sedette, come già stanca, accanto a lui.
— Non potrai andare a piedi, Lucia. Prendi una carrozza.
— ... la prenderò — diss’ella, con voce fiacca.
— Che hai lì sotto?
— Il libro di preghiere, il velo, il rosario.
— Tutto un bagaglio di pietà ha la mia monacella. Fatti santa, bella mia. Noi andremo tutti in paradiso mercè tua.
— Non ridere mai della religione, Alberto.
— Non rido mai delle cose in cui tu credi. È ora, core mio: va e ritorna presto.
Lucia gli buttò le braccia al collo, lo baciò sulla faccia scarna, e gli disse sottovoce:
— Perdonami.
— Ho da perdonarti, perchè tu prenda la comunione? Te l’ha detto il confessore? Ti assolvo.
Ella si curvò, profondamente. Poi si rialzò, guardò attorno con un’occhiata smarrita. Escì, vacillante, a capo basso: dopo un istante ritornò.
— Avevo dimenticato di salutarti, Alberto. Gli strinse la mano.
— Ricordati di me nella chiesa, santarella mia.
— Io pregherò per te, Alberto.
E se ne andò, alta, diritta, nera.