Atto III

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Atto II Atto IV
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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Lavinia, Claudio e due Guardie.

Claudio. Deh! arresta il piè, non t’inoltrar. Le tende

Queste son dei Troiani, e a regal figlia
Non lice errar fra militari insegne.
Lavinia. Lice a sposa novella assicurarsi
Della pace dell’alma, onde non s’abbia
Tardi a pentir del sagrifizio un giorno.
Claudio. Che vuoi di più? Non ti svelò il Troiano
Della donna l’arrivo ai nostri liti?
Non confessò quell’amorosa fiamma
Che l’accese in Cartago, e non sei certa
Che colla morte di Didon si è spenta?

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Or che temi in raminga umìl donzella

Che pietà cerca, e non amor? Che asilo
Forzata viene a mendicar dai fati,
E lui pietoso e non amante invoca?
Lavinia. Claudio, ahimè! chi ben ama, e chi sua vita
E sua sorte abbandona in man di sposo,
Di leggier non accheta i suoi sospetti.
Non insulto di Enea la fè, l’onore,
Con ingiusto timor; ma chi può farmi
Certa d’un ver che alla mia mente è oscuro?
Chi sa dirmi se Enea d’amore ardesse
Per Didone o Selene? Oltre il suo labbro
Altre non ho testimonianze, e ancora
Di sua sincerità prove non conto.
Veggo donna regal del Lazio in riva
Ch’Enea rintraccia, ed il Troiano io veggo
Impegnato a prestarle utile aita,
E al padre mio raccomandarla ei stesso.
Nemica certo dell’eroe non viene.
Se chiedesse vendetta e della suora
Intenta fosse a vendicar la morte,
Pietoso tanto non sariale il duce.
O l’amò un tempo, o la memoria in essa
Ama della germana, e amor potrebbe
Divenir forse la pietate un giorno.
Irritarlo non vuo’. Scacciar dal Lazio
Non intendo colei ch’egli ama e onora.
So che offesa pietade, o amore offeso
Non lascierìa1 di vendicarsi, e forse
In me cadrebbe la vergogna e il danno.
Enea, scorto dai Numi, omai del Lazio
Fatto è signor. Il genitor soggiacque
Al voler del destino; aperto il varco
Gli lasciò al nuovo regno, e Turno vinto

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Più non contrasta al vincitor l’impero.

D’uopo dunque, tu il vedi, Enea non ave
Della man di Lavinia, e comprar deggio
Dal felice Troian la mia fortuna.
Tanta gli Dei mi dier ragion, fortezza.
Da moderar colla dolcezza il foco.
Vuo’ veder l’Africana; usarle io voglio
Tanta pietà, che abbandonar la sforzi
L’odio contro di me, se pur ne avesse.
Vuo’ di Enea meritar l’amor, la stima,
E assicurarmi simulando il trono.
Colpa so che non è coprir la tema
D’apparenza giuliva. Onesto è il fine;
E se per insultar fingere è colpa,
Simulare e giovar virtù si appella.
Claudio. A sì saggio consiglio e chi potrebbe
Contrastare ed opporsi? Unico obbietto
Trovo in ciò la difficile intrapresa.
Malagevole parmi usar dolcezza
Dove regna il sospetto, e altrui celare
La tormentosa gelosia loquace.
Lavinia. Chi è colei che si appressa?
Claudio.   Oh stelle! E dessa
La straniera cui cerchi.
Lavinia.   Il fato arride
Al mio giusto desìo. Scostati, e lascia
Che a lei sola favelli.
Claudio.   Ad un tuo cenno
Pronto m’avrai fra quelle tende. Amici,
Della figlia regal vegliate al fianco, (alle Guardie, e parte

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SCENA II.

Lavinia, Guardie, poi Selene.

Lavinia. Smanie di gelosia, cedete il loco

Al più cauto disegno, e in mio soccorso
Arte si adopri non di laude indegna.
Selene. Spiriti di vendetta, una memoria
Resti al mondo di noi; pria che dal Lazio
Viva o spenta mi tolga il mio destino,
Plachi l’ombra di Dido e il mio disprezzo
D’Enea crudele e di Lavinia il sangue.
Ma chi è colei che fra le tende io miro?
È Troiana, o Latina? A me si avanza.
Chiunque sia, si eviti. (in atto di partire
Lavinia.   Arresta il passo,
Generosa Selene.
Selene.   Tu, cui noto
E il mio nome, chi sei?
Lavinia.   Son tal, che forse
Di te sente pietà più che non pensi.
Selene. Di un’inutil pietà risparmia il dono.
Lavinia. Utile ti sarà, se non la sprezzi.
Selene. Sprezza tutto il cuor mio, fuor che vendetta.
Lavinia. Contro chi tanto sdegno?
Selene.   A te che giova
Penetrare i miei torti e i miei nemici?
Lavinia. A te posso giovar.
Selene.   Chi sei mi svela.
Lavinia. Compiacerti non sdegno. In me ravvisa
Di Latino la figlia.
Selene.   Oh Dei! Lavinia?
Lavinia. Sì: come hai tu del nome mio contezza?
Selene. Ah! pur troppo l’ebb’io.
Lavinia.   (Se sdegno ha meco,

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Enea la lusingò). (da sè

Selene.   (La mia nemica
Custodita è da guardie, ed io son sola). (da sè
Lavinia. Mi son noti i tuoi casi; il Ciel sa quanto
Compatisco, o Selene, il tuo destino.
Selene. Non lo credo.
Lavinia.   Fai torto alla mia fede.
Chi ha regio sangue e nobil cuor, non mente.
Selene. Regal sangue nel seno Enea pur vanta,
E mente e inganna, e di tradir non teme.
Lavinia. Parli tu per Didone?
Selene.   Ah ti son noti
Ver la germana i trattamenti indegni,
E di lui puoi fidarti? E non paventi
Della sua infedeltà le prove usate?
Scaccia il profugo Enea, ripara il danno
Che sovrasta a te stessa, e tua la gloria
Sia di punir lo sprezzator superbo
Delle afflitte reine.
Lavinia.   Altri pensieri
Di pacifica legge io nutro in seno.
Si giustifica Enea dell’abbandono
Dell’amica Didone, s’egli è pronto
D’usar tanta pietade a una germana
Quanto all’altra fu ingrato; esser l’estinta
Paga potrà, se la vivente è paga.
Selene. Credi tu, che sperar poss’io pietade?
Lavinia. Chiedila, e l’otterrai.
Selene.   La chiesi invano.
Lavinia. Che chiedesti ad Enea?
Selene.   La man di sposo.
Lavinia. (Ah! non m’inganna il mio timor). Ti è noto
Ver la germana il trattamento indegno,
E di lui puoi fidarti? E non paventi
Della sua infedeltà le prove usate?

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Selene. I rimproveri intendo. Eh! di’, Lavinia,

Che l’amore ti accieca, e un’infelice
Per vanitade o per vendetta insulti.
Lavinia. No, t’inganni, pietosa esserti bramo.
Tal mi avrai, se mi credi. Odimi: io sono
Destinata ad Enea. Non scelsi io stessa
Uno sposo stranier, che poco innanzi
Sconosciuto a me fu; nè creder puossi
Che arda in brievi momenti amore in petto.
Le nozze mie sono dai Dei volute,
Le accorda il padre mio, prescrive ei stesso
Questa legge alla figlia, ed il rispetto
Da noi pretende in sagrifizio il cuore.
Ma vuo’ dirti di più, per darti prova
Di mia sincerità. Stassi a un tal nodo
Questo regno congiunto, e amor di regno
Compatibile in donna al trono avvezza,
Onesta brama a obbedienza aggiunge.
Tu infedel mi dipingi il stranier duce;
Tal sarà, non impugno. Ah di’, Selene,
E chi di noi assicurar si puote
D’uno sposo fedele? E qual regina
Porge la destra, assicurata in prima
D’immancabile amor? Vuoi tu ch’io perda
Per sì lieve sospetto ogni speranza?
Vuoi che io ceda uno sposo, e seco io ceda
Le ragioni del trono? Hai cuore in petto
Per consigliarmi a disonor servile?
Vuo’ che amore ti sproni, e preferire
Vogliasi all’altrui ben la tua fortuna;
Ma che speri da lui che sol di regno
Mostrasi acceso, e dalla gloria spinto
Abbandonò la tua germana istessa?
Se giovarti potesse un mio rifiuto
E salvar me dall’invincibil danno,

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Cederlo t’offrirei. Ma tal lusinga

È per te vana e il mio periglio è certo.
Se ragione per ciò t’appaga e vince,
Tutta quella pietà che offrirti posso
Spera dall’amor mio. Del genitore
Promettermi poss’io. Nel Lazio istesso
Se un asilo tu cerchi, asilo avrai.
Se d’oro hai d’uopo, e di soccorso e aita,
Chiedila e l’otterrai. Quella germana
Che perdesti in Didone, in me ritrovi.
Tutto farò per te. Lasciami solo
Quel che poco ti costa e a me val tutto:
Sol la pace del cor ti chiedo in dono.
Selene. Poco chiedi, Lavinia, è ver, ma il poco
Che mi chiedi, non sai quanto mi costi.
Sì, ti credo sincera, e tal ti credo
Qualor del regno ambizìon confessi.
Nacqui anch’io in regia cuna, e so qual pena
Rechi a donna regal fortuna umile.
Concedimi però che io non ti creda
Qualor meno di Enea ti mostri amante.
So d’amore la forza, e so ch’io stessa
Amai l’ingrato ad un girar di ciglio.
Segui il destin che ti governa, e segui
La passion che ti sprona; a me non spetta
Consigliarti o voler. Grata ti sono
Degli offerti tuoi don, ma non li accetto.
Lavinia. Compatisco, o Selene, anche il disprezzo
Che irritarmi dovria. So quanta pena
Costi ad un cor che a regal fasto è avvezzo,
Il tollerar dei benefizi il peso.
Scordati di ogni offerta; a me perdona
Quanto diss’io per amicizia e zelo.
Vivi certa però che a farti lieta
Veglierò sempre, che le vie intentate

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Non lascierò per sovvenirti, ad onta

Anco de’ sdegni tuoi. Converti pure
In insulti al tuo grado i studi miei,
Le mie cure, i miei doni; andrai pertanto
Dall’obbligarti e dal rossore esente,
E la prima sarò ch’abbia al dispetto
Sparsi i suoi benefizi, e merti in cambio
Di sincera amistà rimbrotti ed onte.
Selene. Di sì strana virtù ravviso il fondo.
Promette il labbro, e l’imo cuor minaccia.
Lavinia. Tu nol vedi il mio cuor. Provalo, e osserva
Se dal labbro è discorde.
Selene.   Io non mi espongo
Agl’insulti per prova.
Lavinia.   Il tempo aspetta.
Giudice sia di veritade il tempo.
Selene. Non isperar che invendicata io viva.
Lavinia. Contro chi vuoi vendetta?
Selene.   I miei disegni
Tenti invan prevenir.
Lavinia.   Se le tue mire
Tendono all’onor tuo, m’avrai compagna
In qualunque cimento.
Selene.   Eh, di’ piuttosto
Che tu sarai co’ miei nemici in lega.
Lavinia. Ma quai son tuoi nemici?
Selene.   Enea, tu stessa.
Lavinia. Io nemica a Selene?
Selene.   Invan t’infingi.
Ti conosco; lo so. Ma di te pure
Men nemica non sono, e non procuro
Sotto il manto d’amor coprir lo sdegno.
Lavinia. L’ira tua non m’offende. Io compatisco,
Ovunque io vegga di natura i mali.
Colpa non hai del tuo furor; sei spinta

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Da interno foco ad insultare a forza;

Men però non apprezzo il sangue, il grado.
Di pietà non mi pento, e in opra ogn’arte
Porrò per non lasciarti a’ tuoi deliri.
(Vedrem se ha più poter pietade o orgoglio). (da sè
Selene. (Oh degno cor, se non mentisse il labbro). (da sè

SCENA III.

Enea e le suddette.

Enea. (Qui Lavinia e Selene? Ah tolga il Cielo,

Che sospetto o timor ne abbia la sposa). (da sè
Selene. (Eccolo il mentitor). (da sè
Lavinia.   Enea, perdona
Se ardir mi spinse oltre il dovere al campo.
Poiché t’intesi ragionar dei fatti
Della misera Dido, e dell’afflitta
Sventurata sorella, il cuor mi punse
Pietà di quest’abbandonata e sola.
A conoscerla venni, e a offrirle un segno
D’amicizia e d’amor. Spiacer non credo
Con sì giusto disegno al tuo bel core.
Enea. (Temo il livor di gelosia celato). (da sè
Selene. (Scoppierà forse il suo velen frappoco). (da sè
Enea. Lodo, Lavinia, in ogni guisa il saggio
Pensamento di pace, e non discaro
Esser deve a Selene. Ella ben merta
Generosa pietà che la ristori
De’ sofferti suoi mali. Italia ancora
Scarso m’offre terren per darle asilo
Degno di lei, che in regia culla è nata.
Scegli, Selene, ove albergar ti piaccia
Oltre il mare Tirreno, e offrirti io posso
A comprar terre ed acquistarti un seggio,
Oro che basti e fida scorta e legni.

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Selene. Non ho d’uopo di te. Tienti i tuoi doni.

Lavinia. (Ch’ella parta non basta. Enea, se l’ama,
Potria seguirla, o rintracciarla un giorno). (da sè
Enea. Se quanto io t’offro disprezzar ti piace,
Bastami averti il mio soccorso offerto.
Adempito ho al dover. Scusa, o Selene,
Forzato io son del re Latino in nome,
Sollecitar la tua partenza.
Selene.   In nome
Del re Latin? Servi nel Lazio, e regni?
Enea. Non regno ancor: servo non sono, è vero,
Ma rispetto chi regna.
Selene.   Ah! sì, sul trono
Dee condurti Lavinia, e temi, ingrato,
L’aspetto mio che ti rimorde, e il nome
Di due germane a tristo fin condotte.
Partirò, non temer. Raminga e sola
Popoli scorrerò, provincie e regni,
E la fama di Enea, dovunque io vada,
Empirà il mondo d’ignominia e scorno.
Enea. (Ah! toglietemi, o Numi, un tristo oggetto
Di rimorso e d’orror!) (da sè, agitato
Lavinia.   Signor, perdona,
Grazia ti chiedo, e se fia ver che m’ami,
Contrastarla non dei.
Enea.   Parla, e disponi.
Lavinia. Fa che resti Selene, lo non ho core
Di vederla partir. Regal donzella,
Sola, inerme, raminga, a quai perigli
Non esposta saria? Se da sè brama
Menar vita tranquilla, abbonda il Lazio
Di terreni fecondi, e il re mio padre
Crudo non è per denegar pietade,
Se pietà gli si chieda. Io stessa, io stessa
Getterommi al suo piè, grazia chiedendo

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Per colei che lo merta, e tu, cui spetta

Dopo lui questo regno, ah non mostrarti
Ai Numi ingrato, ed alla sposa avverso.
Ma se basta a Selene in regal tetto
Comoda stanza, e compagnia non sdegna,
A viver meco un vero amor l’invita.
Scusa se io ti dispiaccio. A forza io deggio (a Selene
Cimentarti a soffrir l’offerta ardita;
Differirla non giova; il mio silenzio
Danneggiar ti potria. Non arrossire
Di sì onesta pietà. Piegati, e credi
Che sente il cor ciò che t’espone il labbro.
Selene. (Ah che non giunge il simular tant’oltre.
Virtù in Lavinia ravvisar mi è forza,
Rara virtù che io non intendo ancora). (da sè
Enea. (Qual nuovo esempio di virtù inaudita
M’offre il cor di Lavinia?) A te che sei
Arbitra del cuor mio, non che del regno,
Non mi oppongo, Lavinia. Al genitore
Reca tu le tue preci; e se non sdegna
Selene i doni tuoi, qui resti e scelga.
Lavinia. (Ah come lieto a trattenerla è pronto,
E a lei partir con qual mestizia impose!) (da sè
Selene. (Superar vuo’ me stessa). Alfin, Lavinia,
Cedo ai sospetti miei. Superba, altera
Non son io qual mi credi. I doni offerti
Sprezzai allor che io li credea mendaci;
Or che amor li produce, umìl gli accetto.
Lavinia. Star sola brami, o compagnia ti alletta?
Selene. Teco vivrò, se mel concedi.
Lavinia.   (Intendo.
Di viver meco e con Enea si elegge). (da sè
Selene. (Chi creduta l’avria pietosa tanto?) (da sè
Enea. (Eppure ancor di sospettar non cesso). (da sè
Lavinia. Vieni meco, Selene; al padre io stessa

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Ti condurrò.

Enea.   Quivi Latin frappoco
Deve giungere anch’egli. Al sagrifizio
L’ora s’appressa, e differir potete
Di vederlo nel campo.
Selene.   Il sagrifizio
A qual nume dee offrirsi?
Enea.   A Palla e a Marte.
Delle spoglie de’ Rutoli depressi
Deesi parte agli Dei.
Lavinia.   Sull’ara istessa,
Narrale pur che d’Imeneo la face
Arder dovrà pria che tramonti il sole;
Che alle nozze di Enea sarà presente;
Che Lavinia vedrà regina e sposa.
Temi tu che dispiaccia a vergin saggia
Le altrui gioie mirar? Selene amica
Meco giubilerà. Dillo tu stessa,
Non ne provi piacer?
Selene.   Piacere estremo. (con difficoltà
Lavinia. (L’arte non ha di simular. Io posso
Alia prova sfidar le più sagaci). (da sè
Enea. (In calma sembra, e borrascoso è il mare). (da sè
Lavinia. Enea, restami sol per mio conforto
Che tu aggiunga a’ tuoi doni un altro dono.
Tua mi vuole il destino; amor mi trova
Del destino contenta, e ai pregi tuoi
Torto indegno farei se non ti amassi.
Pur se della tua fè certa non sono,
Vana è ogni altra speranza. Evvi chi crede
Poca fede in Enea; chi lo decanta
Di volubile amor. Deh! sgombra in parte
Quest’amaro sospetto, e di’ s’io posso
Di tua costanza assicurar gli effetti.
Enea. Chi ti stillò sì rio velen nel seno?

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Selene. Io quella son che conosciuto a prova

Il tuo perfido cor...
Enea.   Vedi, Lavinia,
A chi gli arcani del tuo sen confidi.
Senti pietà per essa, io tel concedo,
Ma non fidarti di chi cova in petto
Qualche antico livor.
Lavinia.   No, non pavento
Ad un’alma regal virtù nemica.
Qual livore nutrir Selene in petto
Puote contro d’Enea? Della germana
L’ombra onorata nell’Elisia pace
L’odio detesta, e di vendetta il nome.
Fin che visse Didone, a lei Selene
Rivale ingrata immaginar non lice;
Nè tu sì rio che di due suore al foco
Arder potessi, e con le fiamme in seno
A me venissi a ragionar d’amori.
Perchè dunque sognar, che covi in petto
Di Selene il livor? Pensa piuttosto
Che amicizia la sproni a porti innanzi
Di Didone l’esempio. Ah sì! Selene,
Grata ti son; ma sarà fido Enea;
Dolente è già d’aver lasciata a forza
L’infelice perir. Vedrai che il Lazio
Tanto fido l’avrà, quanto il sofferse
L’Africa ingrato e mancator. Se m’ami,
Se ti cal di piacermi e d’esser grata,
Scordati quell’Enea che un dì vedesti
Di Cartagine ai lidi, e in lui ravvisa
Un altro Enea che di Lavinia è sposo.
Selene. Sì, Lavinia, t’intendo. Esigi il prezzo
Dell’offerta pietà. Lo merti, e ingrata
Non temer che io mi renda. Addio. Perennio,
Vecchio mio condottier, sarà impaziente

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Di rivedermi. Vantai a tua gloria

Che, sia per arte o per virtù, mi sforzi
Ad amarti e piacerti a mio dispetto. (parte

SCENA IV.

Enea e Lavinia.

Lavinia. (Ciò non bastami ancor). (da sè

Enea.   Poss’io, Lavinia,
Da te il vero saper?
Lavinia.   Mi offendi a torto,
Se mendace mi credi.
Enea.   Aprimi dunque
Senza stimoli il cuor. Di’: da qual fonte
Di sì strana pietà deriva il seme?
Lavinia. Deriva in me della pietate il seme
Dal bel core di Enea. L’eroico esempio
Di un eroe sì pietoso anima e sprona
Ai benefizi, e a sollevar gli afflitti.
Leggoti in sen la compassione, il duolo
Per la misera donna, e so che a forza
Le intimasti partir, temendo forse
In me destar di gelosia l’affanno.
Non dirò, che temendo i miei sospetti,
Sia tu reo nel tuo cor. So ch’è incapace
Di colpevole fiamma il Troian duce.
È innocente il desìo che a lei ti sforza
Migliorare il destino. Allor che offersi
Alla bella Africana asilo in Corte,
Lieto ti vidi e respirar contento,
Non dirò per amor, ma per pietade.
Se altro pregio non ho, che da te possa
Affetto meritar, per questo almeno

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Lodami, e fammi di tua grazia degna.

Enea. Deh! perdona, o Lavinia; ancor non scopro
Chiaramente il tuo cor. Pallida veggo
Luce di finto zel fra nubi avvolto.
Tu paventi di me, tu celi a forza
L’importuno timor che ti molesta.
Lavinia. Ah! di’ piuttosto che a temer ti astringe
Il rimorso, il rossor. Di mia virtude
Dubitar non potria chi non avesse
Macchiato il sen di fellonia proterva.
Pensa di me quel che pensar ti giova:
Se non credi al mio cuore, al tuo non credo. (parte

SCENA V.

Enea solo.

Ah! sazio ancor di tormentarmi il fato

Non mi lice sperar. Qual ben, qual pace
Aver poss’io, se di sospetti e sdegni
La sposa abbonda, e minacciosa è meco?
No, non do fede al simular sagace.
Duoimi de’ suoi timori, e più mi duole
Dell’arte iniqua d’insultar fingendo.
Amor non merta chi d’amor le leggi
Sì vilmente calpesta; e sotto il nome
Di virtù, di pietà, livor nasconde.
Donna avvezza a mentir sospetta sempre
Mi sarebbe, e odiosa. I Numi al Lazio
No spinto non mi avran, perch’io sagrifichi
A una donna mendace il cor, gli affetti,
Nè dal torbido sen di madre altera
L’Italia aspetta il successor promesso
Dal voler degli Dei. Se il nuovo impero

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Mi promettono i fati, il lor decreto

Dalla man di Lavinia or non dipende.
Sappia Latin che al periglioso nodo
Non consento aderir. Se stessa incolpi
Del rifiuto la figlia, e il Lazio e il mondo
Amante no, conquistator mi vegga.


Fine dell’Atto terzo.


Note

  1. Nel testo: lasciarìa.