Atto IV

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Atto III Atto V

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ATTO QUARTO.

SCENA PRIMA.

Navi che approdano, dalle quali col mezzo d’uno schifo sbarca Acate con alcuni Soldati.

Acate. Oh! ingrati venti, che il favor negaste

Alle vele Troiane, e tardi al lido
Giunser per. voi le vincitrici antenne!
Ah! chi sa dirmi, se disciolti all’ara
Abbia Enea i comun voti, e se le vittime
In sagrifizio abbia all’altare offerte?
Questa saria dopo tant’anni e tanti
La prima volta che l’amico Enea
Senza me offrisse i sagrifizi ai Numi.

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Quivi tutto è silenzio. Ecco la tenda

Del Troian duce senza guardie. Segno
Quest’è, che lunge è il condottier dal campo.

SCENA II.

Lavinia e detto.

Lavinia. (Giunge opportuno al mio disegno Acate.

Questo amico di Enea mi ascolti, e ceda). (da sè
Lascia che teco mi consoli, o prence,
Della vittoria che sull’onde avesti.
Enea per terra, e tu per mar pugnaste
Con eguale valore, egual fortuna.
Chiaro si vede che due stelle amiche
Vi produssero al mondo, e nati siete
Per gir del pari in amicizia e in pregio.
Acate. Mi onoran troppo, e insuperbir mi ponno,
Generosa Lavinia, i detti tuoi.
Servo al destin del valoroso amico;
E ovunque io pugni, il suo destin mi assiste.
Ma perdona l’ardir. Saper io bramo
Se ancor si è offerto il sagrifizio ai Numi.
Lavinia. No, compiuto non è. Te sol si aspetta
Dal pietoso Troiano. Unir intende
Ai terrestri trofei que’ che tu rechi
Dalle vinte triremi. E’ non ardisce
Offrire ai Dei senza il suo fido Acate.
Acate. Oh saldo amore! Oh generoso amico!
Lavinia. Tu ch’or vieni dal mar, contezza avesti
Di novella avventura a questi lidi?
Acate. Vuoi tu dir di Selene?
Lavinia.   Appunto. E come
Informato ne sei?
Acate.   Da più di un legno

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Spinto dal lido ad aiutare i nostri

Combattuti dal mar, parlarne intesi.
So che la suora di Didon, fuggita
Dai furori di Jarba, agil naviglio
Scelse opportuno, e con un vecchio unita,
Dopo mille perigli al Lazio è giunta.
Lavinia. Sai più?
Acate.   Non più.
Lavinia.   Sai fino ad ora il meno.
Ma in brevissimi accenti or io tel narro.
Fu Selene rival della germana;
Amò in Africa Enea. L’amor converse
In pensieri di sdegno e di vendetta.
Io placarla tentai. La mia pietade
Ebbe alfin la vittoria, e più non brama,
Nè agli affetti di Enea, nè al sangue aspira.
Darle stato convien. Ch’errante vada
Vergine illustre, e attribuisca i danni
Del suo fiero destino al Troian duce,
L’onor d’Enea non acconsente e il mio.
Resta al Lazio Selene. Io stessa offersi
Alla misera donna albergo in Corte,
E soffrirò fin che altra via si appiani,
Un periglio vicin. Sta il mio periglio
Nel timor che rinnovi i primi affetti,
E scordatasi un dì dei benefizi,
Mi divenga rival l’amica istessa.
Acate. Lodo la tua pietà; ma deh! perdona:
Non fu sano consiglio offrirle albergo
Al tuo sposo vicin.
Lavinia.   Nè il cor mi soffre
Giovane sola, in forastier paese,
Mandar raminga a mendicar asilo.
Acate. La virtù dunque che a pietà ti sprona,
I rei sospetti a dileguar t’insegni.

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Lavinia. Provai di farlo, e il mio valor non regge.

Acate. Cambia il disegno, e fa che vada altrove
Provveduta e soccorsa.
Lavinia.   Al preso impegno
Più non lice mancar.
Acate.   È per te adunque
Ogni speme perduta, ogni consiglio?
Lavinia. Un consiglio, una speme ancor mi resta.
Acate. E qual fia?
Lavinia.   Che Selene altrui legata
Sia con eterno indissolubil nodo.
Acate. Opportuno è il rimedio. A lei sol resta
Degno sposo trovar. Chi in regia culla
Ha sortito il natal, non si abbandona
A sposo indegno di real grandezza.
Lavinia. Bastar ben puote a un’infelice oppressa
Sposo illustre ottener, che nutra in seno
Sangue di eroi, se non possiede un trono.
Acate. Speri tu rinvenirlo?
Lavinia.   Ah! sì, lo spero.
Quel valoroso, quel fedele Acate
D’Enea compagno, e nelle sue sventure
Seguace onor, consolatore e scorta,
Negherà forse un testimon novello
Di sincera amistade al caro amico?
(vedendolo disposto a parlare
Lasciami dir, non mi troncar gli accenti
Pria che il labbro li compia. Enea qui venne
Patria e regno a cercar. La prima base
Dell’impero novello a lui promesso
È del Lazio il terreno, ed io son quella
Che gli apro il varco e gli assicuro il trono.
L’amo, egli è ver, ma non so quanto amore
Resister possa ai miei gelosi affanni.
Nè giova il dir: puoi discacciar Selene;

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Più da lontan che da vicin la temo,

E di Enea non mi fido, e finchè sciolta
Sia Selene da un laccio, io tremo, e invano
Spera Enea di vedermi amante e sposa.
Creder non vuo’ che del Troian la mente
Volga arditi pensieri, e fermo aspiri
Senza la destra mia vedersi in trono.
Tutto può la violenza; in mano ha l’armi,
Non gli manca il poter; ma chi di glorie,
Chi d’onore si vanta, alle rapine
Non rivolge il pensier, nè a un popol nuovo
L’indegna taccia un tal eroe procura.
Pace, amore, giustizia, ecco le basi
Del felice governo. Ah! tu puoi solo
Tanto ben procacciar. Tu puoi d’Italia
Far la felicità, d’Enea la gloria,
Di Lavinia il riposo. Il padre mio
Ti sarà debitor; chiamarti il Lazio
Tua difesa dovrà. Quel caro amico,
Per cui tanto sudasti, e il sangue istesso
Non ricusi versar, la sua fortuna
A te solo dovrà. Muoviti, Acate,
Per onor, per amor, per gloria e zelo.
Terminato ha il mio labbro, il tuo risponda.
Acate. Brievi saranno i detti miei sinceri.
Quel che giova ad Enea, piace ad Acate,
L’amico il chieda, e la parola impegno.
Lavinia. Ah! non poteasi da un eroe Troiano
Men virtute sperar. Sì, tu mi rendi
La smarrita mia pace. Enea consiglia;
Lieto sarà. Se non lo fosse, oh Numi!
Saria certo l’inganno. Odilo; io spero
Ch’egli ti pregherà. Selene anch’essa
Giubilerà di sua fortuna. Io corro
Della misera in traccia. Ah non più misera,

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Fortunata donzella! Oh valoroso,

Oh magnanimo Acate! Oh raro esempio
D’onor, di fede, e d’amicizia al mondo! (parte

SCENA III.

Acate, poi Enea.

Agate. Ah! non credea dell’amicizia al nume

Sagrificar la libertade ancora,
Io di Cupido e dei suoi lacci avverso,
Vedrò sua face a mio dispetto accesa?
Ed Enea me l’impone? Ah! non mel disse
L’amico ancor. Eccolo. Un sol suo cenno
Può far Cupido agli occhi miei men fiero.
Enea. Opportuno ti trovo. Ah! vieni meco,
Vieni, ho d’uopo di te.
Acate.   Dove?
Enea.   Alla reggia.
Acate. Che ti turba, signor?
Enea.   Per via palesi
I miei sdegni farotti, e i miei disegni.
Acate. Incontrasti Lavinia?
Enea.   Sì, l’ingrata
Procurai d’evitar.
Agate.7 Non l’ami?
Enea.   Io l’odio.
Acate. Ami forse Selene?
Enea.   No, tel giuro,
Non amo alcuna, e dell’amor mi pento
Che m’arse un dì pel loro sesso ingrato.
Acate. E me vorresti ne’ suoi lacci involto?
Enea. Io?
Acate.   Non sei tu che, per placar Lavinia,
Di Selene mi brami amante e sposo?

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Enea. Sogni, amico, o vaneggi?

Acate.   Un sogno adunque
Di Lavinia sarà.
Enea.   Sì mal conosci
Della perfida il cuor? Non dassi al mondo
Labbro del suo più mentitor. Sentita
Se l’avessi cangiar nome agli affetti,
Mascherar la pietà, vestir lo sdegno
Di studiate menzogne, abborriresti
Di donna il nome, le parole, e i guardi.
Vieni; tutto saprai.
Acate.   Che fare intendi?
Enea. Rinunziar quella infida al re Latino.
Acate. Ed il regno, signor?
Enea.   D’un regno al costo
Sdegno soffrir sagrificato il cuore.
Acate. Ma il voler degli Dei...
Enea.   Se i Dei prescritto
Hanno al sangue di Troia il nuovo impero,
Altra via me l’acquisti.
Acate.   Ah! non macchiare
D’infedeltà le tue primiere imprese.
Enea. Non merta l’amor mio donna mendace.
Acate. Ella meco parlò. Geloso affetto
Sospettosa la rende.
Enea.   E perchè seco
La cagione voler de’ suoi sospetti?
Acate. Del tuo cor non si fida.
Enea.   Usa a mentire,
Fedeltà non conosce.
Acate.   Allor contenta
Fora che sposa la rival vedesse.
Enea. Ami tu compiacerla?
Acate.   A forza, il giuro,
Lo farei sol per compiacere Enea.

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Enea. Sì mal non pago i generosi uffizi

D’un amico fedel. Lavinia ardita
Troppo vuol, troppo chiede; e quel che brama
È dubbio sempre, e di deluder tenta.
Opra cred’io della spietata Giuno,
Nemica al sangue mio, l’accesa face
Di sì tristo Imeneo. Venere, intenta
Alla difesa mia, l’ardir m’inspira,
Pria che stringasi il cor, disciorre il nodo.
Seguimi, e non temer. Nei fati amici
Sta la mia sorte, e non di donna in seno. (parte
Acate. Oh fati oscuri! Oh instabile fortuna!
Oh fallace del cuor consiglio umano! (parte

SCENA IV.

Lavinia e Selene.

Lavinia. Lo vedesti?

Selene.   Lo vidi.
Lavinia.   E che ti sembra?
Selene. Odioso agli occhi miei.
Lavinia.   Non è d’Acate
Odioso il sembiante, e tal ti sembra
Perchè altro amor ti ha prevenuto il cuore.
Selene. Provo I’effetto, e la ragion non cerco.
Lavinia. Deh! saggia amica, a superar t’impegna
Questa prima del cuor ripulsa ignota.
Tornalo a riveder. Parla, conversa;
Avvezzati a soffrir sguardi e parole.
Credimi, spesse volte amor s’insinua;
Dove non si credea, scopronsi i pregi
O del volto, o del cor. L’odio talora
Divenir puote indifferenza, e nasce
Anche l’amor da indifferente oggetto.

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Fallo, se far nol vuoi per tuo consiglio,

Per piacere a Lavinia. Io te lo chiedo
Per quell’amor che ti giurai, per quanto
O per te feci, o per te far promisi.
Possibil fia, che a chi giovarti aspira,
In compenso ti trovi ingiusta, ingrata?
Selene. Bella, egregia pietà d’alma sublime
Che benefica e dona, e agl’infelici
Del pungente rossor risparmia il peso!
Ecco al primo momento in cui ti spiaccio,
Mi ricordi non sol quant’io ti devo,
Ma i rimproveri aggiungi, e in ricompensa
Mi chiedi il cor sagrificato in dono.
Lavinia. Sai tu perchè di rammentarti ho ardito
Quanto feci per te? Perchè ti scorgo
Ai benefizi e alla pietade ingrata.
Sì, poiché tu lo vuoi, soffri il rossore
Di sentirlo ridir. Raminga, oppressa,
T’offro aita e soccorso. Al regio tetto
Meco stessa t’invito, e al tuo destino
Tutto il poter del genitore impegno.
Che ti chiedo, crudele, in ricompensa
Di sì larga pietà? Chiedoti solo
Procurar la mia pace, e tu non cessi
Di mover guerra ai miei dubbiosi affetti?
Credi tu che io non vegga esser la fonte
Del disprezzo d’Acate amor protervo,
Pertinace lusinga, e reo disegno
D’involarmi lo sposo, e forse il trono?
Ma t’inganni, se il credi: ho già finito
Teco di simular. Lo feci allora
Che giovarti potea virtù destata
D’interesse o pietà. Vano è sperarti
Ragionevole, umana. Ecco, mi spoglio
Del pacifico ammanto, e aperto sdegno

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Ti giuro in faccia, e tua nemica io sono.

Selene. Grazie agli Dei, mi favellasti alfine
Col linguaggio del cor. Conobbi, è vero,
I primi tratti di amistà sospetta;
Ma tant’oltre spingesti arte ed ingegno,
Che fui forzata a darti fè. Lavinia,
Che pretendi da me? Finor non ebbi
Dei tuoi don che le voci, e se mi chiedi
Anticipata la mercede, e brami
Che io renda più che non ottenni, e prima
Ch’abbia de’ doni tuoi certezza alcuna,
Generosa non sei, ma a caro prezzo
Vendi perfin gli sguardi e le parole.
Non ti basta ch’Enea scordarmi io sappia,
Vuoi che io mi leghi a tuo piacer. Non badi
Se a vergine regal convenga il nodo,
Se il desìo vi concorra e il cor l’approvi.
Fingi voler la mia fortuna, e aspiri
A volermi infelice. Ecco il tuo dono,
Ecco l’alta pietà di cui ti vanti.
Inutil vanto, menzognero affetto!
Lavinia. Se indegno al sangue tuo reputi Acate,
Poco stimi il valor, poco per esso
L’amicizia di Enea. Se il cor repugna,
Violentarti non vuo’. Libera vivi;
De’ miei doni profitta. Io non ritratto
Quant’offersi e promisi, e non ti chiedo
Nè grato cuor, nè ricompensa alcuna.
Vieni pure, alla reggia alberga, ed usa
A tuo piacer di libertade intera.
Sappi però, che fin che a Enea vicina
Libera ti vedrò, la man di sposa
Ei da me non avrà; nè fia sicuro
Del Latin soglio e di regnare in pace.
Soffri, se hai cuor, di seminar discordie,

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Di sconvolger la reggia, e opporti sola

Del fato inevitabile alla possa.
Selene. Di’ che pentita dell’offerto asilo
Brami ch’io parta, e di partir son pronta.
Lavinia. Il tuo ben cerco, e tu ti eleggi il peggio.
Selene. La libertade è il maggior ben ch’io bramo.
Lavinia. Odii il nome di sposa?
Selene.   Odio il legarmi
Con spiacevole oggetto.
Lavinia.   Enea sarebbe
Tuo desiato amor?
Selene.   Enea promisi
Cancellar dal mio sen. Mancar non usa,
Se promette Selene.
Lavinia.   Invan presume,
Chi fu schiavo d’amor, disciorre il nodo.
Selene. Lo disciolse ragion, consiglio, impegno,
Onestate, dover.
Lavinia.   Nol credo appieno,
Se di fiamma novella il cuor non t’arde.
Selene. Senz’amar non si vive?
Lavinia.   Ah! chi una volta
Gustò il bene d’amore, amar non cessa.
Selene. Io che il mal ne provai, d’amar non curo.
Lavinia. Di’ che il male provasti, e il ben ti cale.
Selene. Godi tu sì gran ben.
Lavinia.   Goder non spero
Sin che tu me l’invidii.
Selene.   Il tuo timore
Fa torto ai pregi tuoi.
Lavinia.   Prevai talora
L’artifizio a ragion.
Selene.   Mal pensi, e peggio
Osi di favellar.
Lavinia.   Sincera io parlo.

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Selene. Ad Enea più non penso.

Lavinia.   Io non tel credo.

SCENA V.

Al suono di militari strumenti vedesi comparire Ascanio con seguito di Soldati Troiani carichi di trofei, fra’ quali la testa di Turno sopra di un’asta.

Ascanio, Lavinia e Selene.

Ascanio. Principessa, vincemmo. Osserva, osserva

Di Turno il teschio minaccioso invano.
Mira colui che alla tua reggia infesto
E al tuo tenero cuor, d’affetti invece
Usar violenza e pertinacia osava.
Ebbe l’onore il braccio mio dal busto
Di troncar l’empio capo, e il suo tiranno
Togliere al Lazio, e alle novelle imprese
Delle genti Troiane un fier nemico.
Lavinia. Valoroso garzon, le prime prove
Di tua rara fortezza alti presagi
Son di tua gloria e del nascente impero.
Selene. E chi è colui che in verde età nutrisce
Sì magnanimo cor?
Lavinia.   D’Enea t’è ignoto
L’unico figlio? Non conosci Ascanio?
Selene. Parlar ne intesi, ma nol vidi ancora.
Finch’Enea fu in Cartago, in altri mari
So ch’errava il garzon.
Ascanio.   D’Africa è dunque
La straniera gentil? (a Lavinia
Lavinia.   Selene è questa,
Di Didone germana. Hai tu contezza
Della misera donna?
Ascanio.   A me purtroppo

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Noti sono i suoi casi, e assai mi dolse

Che a forza il padre mio cedendo al fato,
Abbia condotta l’infelice a morte.
Selene. Grata ti son di tua pietà. Raminga
Vedi la suora di reina estinta.
Lavinia. (Oh me felice, se d’Ascanio in petto
La pietade in amor per lei cangiasse!) (da sè
Ascanio. E qual riparo il genitor destina
D’un’illustre donzella alle sventure?
Lavinia. Quanto allo stato suo prometter lice,
Offre il pietoso Enea. Comprar terreni
Non ricusa per lei. Ma sola, inerme,
Dove puote sperar sicuro asilo?
Io le offersi alla reggia albergo amico,
Ma non soffre chi nacque in regia cuna
Altrui dover la sussistenza amara.
D’uopo avria d’uno sposo, e tal che un giorno
La facesse reina. Ah! se d’Ascanio
La pietade e l’amor parlasse al cuore,
Egli solo potria rendere al padre
La fama illesa e consolar l’afflitta.
Non rispondi? non parli?
Ascanio.   Io non dispongo
Senza il cenno paterno.
Lavinia.   E se un tal cenno
Fosse conforme al mio consiglio, avresti
Repugnanza, o piacer?
Ascanio.   Chi mai potrebbe
Sprezzar beltade a regio sangue unita?
Lavinia. Oh felice Selene! Odi? Ti apprezza
D’Enea le prole: il successore eletto
All’impero Latino; il giovin prode
Vincitor de’ nemici, in cui si aggiunge
Di beltà il pregio e di dolcezza il vanto.
Dimmi, avversa saresti al dolce nodo?

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Selene. Avversa non sarei.

Lavinia.   Secondi il Cielo
Il bel desìo che ha le vostr’alme unite.
Scorgo negli occhi vostri un certo raggio
Di reciproco ardor; vi leggo in fronte
Un non so che d’unanime e concorde,
Che l’un per l’altro vi dichiara il fato
Discesi in terra a far felice il mondo.
Deh! seguite ad amarvi. Io stessa, io stessa
Ad Enea svelerò l’illustre arcano,
E lui farò de’ desir vostri amico.
Tu seconda gl’impulsi, e arrendi il core (a Selene
A magnetica forza, i Dei ringrazia,
E deponi lo sdegno, e in me confida.
Selene. Sì, ti amo, e t’amerò più che non credi.
Più chiaro or veggo e riconosco appieno
Il tuo cor, la tua mente, i tui pensieri.
Solo il figlio d’Enea può farti amica
Colei che abborri e che d’amar fingesti.
Scuso la gelosia che il cor ti preme.
Compiacerti desìo. Trarti dal seno
I sospetti saprò, se Ascanio è il sposo. (parte
Lavinia. (Vogliano i Dei che il padre suo consenta). (da sè
Ad età cui convien d’amore il foco,
Alfin giungesti; e saggio è chi ad Imene
I primi del suo cor moti consacra.
Selene è umile, generosa, e in volto
Di beltà le scintilla acceso raggio.
Oh te beato se al possesso arrivi
Di tanto bene!
Ascanio.   Ah! sì, lo veggo, il sento.
Impazïente il cor s’agita e balza.
Con invid’occhio il genitor vedea
A’ novelli Imenei passar giulivo.
Parlagli tu per me. Le vinte spoglie

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Vo’ a deporre al suo piè; ma il mio rispetto

Non mi concede disvelargli il cuore.
Spero nell’amor tuo. Deh per affetto
Siami 1 tu madre, e le mie nozze impetra.
(parte con tutto il seguito
Lavinia Non temer, no, che più di te mi cale
Che tu stringa Selene. Ah! non sai quanto
Mi può render felice un cotal nodo.
S’ella è sposa del figlio, ogni sospetto
Si dilegua del padre, e questa sola
Fors’è la via donde la pace io spero.
Quanto mi costi, o amor! Ah no, piuttosto
Quanto mi costi gelosia di regno!
L’uno e l’altro per me da Enea dipende,
E se tem’io che una rival mel tolga,
Giusto è il timore, e il rimediarvi è giusto.
Che non fec’io finor? Qual arte o ingegno
Non cercai d’adoprar? Fortuna alfine
Il crin mi porge, e d’afferrarlo io tento.
Deh! cessi Enea, cessi Selene e il mondo
Di rinfacciarmi i simulati affetti.
Finsi, ma per virtù; giovai fingendo
A me stessa e ad altrui, nè danno o pena
Procacciar meditai. Felice il mondo,
Se qual finse Lavinia, ognun fingesse.


Fine dell’Atto Quarto.


Note

  1. Così il testo.