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ENEA NEL LAZIO 305
Lodami, e fammi di tua grazia degna.

Enea. Deh! perdona, o Lavinia; ancor non scopro
Chiaramente il tuo cor. Pallida veggo
Luce di finto zel fra nubi avvolto.
Tu paventi di me, tu celi a forza
L’importuno timor che ti molesta.
Lavinia. Ah! di’ piuttosto che a temer ti astringe
Il rimorso, il rossor. Di mia virtude
Dubitar non potria chi non avesse
Macchiato il sen di fellonia proterva.
Pensa di me quel che pensar ti giova:
Se non credi al mio cuore, al tuo non credo. (parte

SCENA V.

Enea solo.

Ah! sazio ancor di tormentarmi il fato

Non mi lice sperar. Qual ben, qual pace
Aver poss’io, se di sospetti e sdegni
La sposa abbonda, e minacciosa è meco?
No, non do fede al simular sagace.
Duoimi de’ suoi timori, e più mi duole
Dell’arte iniqua d’insultar fingendo.
Amor non merta chi d’amor le leggi
Sì vilmente calpesta; e sotto il nome
Di virtù, di pietà, livor nasconde.
Donna avvezza a mentir sospetta sempre
Mi sarebbe, e odiosa. I Numi al Lazio
No spinto non mi avran, perch’io sagrifichi
A una donna mendace il cor, gli affetti,
Nè dal torbido sen di madre altera
L’Italia aspetta il successor promesso
Dal voler degli Dei. Se il nuovo impero