Atto II

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Atto I Atto III

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ATTO SECONDO.

SCENA PRIMA.

Vedesi approdare sulla spiaggia un naviglio da cui sbarcano

Selene e Perennio.

Perennio. Lode agli eterni Dei, del mar fremente

Che di spavento ci ha finor ricolmi,
Posammo alfin su stabil suolo il piede.
Oh come dolci, oh come liete spirano
L’aure su questi lidi! Esser dovrebbe
Questa del mar tirren spiaggia remota
Dell’Etruria il confine; io n’ho memoria
Fin dagli anni miei primi, in cui scorrendo
Terre e mari d’Europa, a dire appresi

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Dov’han gli Etrusci ed i Latini impero.

Ma tu, figlia, che figlia ancor m’induce
Appellarti l’etade e l’alta cura
Che m’arde in sen di ristorar tuoi danni,
Sgombra il lungo timor, rischiara il ciglio,
E miglior sorte ad isperar ti appresta.
Selene. Padre, avvezza al terror, stanca ed oppressa
Dai perigli funesti, in mente ho solo
Di Cartago le fiamme, e di Nettuno
Le frequenti procelle. Ahimè! da un lato
Le voragini veggo ampie, profonde,
Degli abissi del mar; dall’altro io miro
Globi di fuoco divorar le mura
Di nascente cittade, e fra gl’incendi
La tradita germana ardere anch’essa.
Ahimè! la voce di Didone al cuore
Parmi di udir che mi rinfacci e dica:
Selene infida, il mio nemico amasti.
Perennio. Colpa d’amor non rammentar, Selene,
Che lungamente da virtù coperta
Svelasti sol nelle venture estreme.
Colpa non è l’amar, colpa sarebbe
Perder ragion per amoroso incanto.
Ma di fallo maggior se abborri il nome,
Ne soffristi abbastanza il duolo e il danno.
Soddisfatti gli Dei di lor vendetta,
Ti offrono pace, ed a terreno amico
Dopo lungo soffrir ti han scorto alfine.
Selene. Ma qual patria ci accoglie, ed in qual tetto
Le stanche membra pon sperar riposo?
Perennio. Mira non lungi torreggiar gli alberghi;
Sede colà di libera nazione,
O d’Italico re l’aspetto addita.
Selene. Non si appressa pastor che il nome accenni
Della incognita terra e ci apra il varco

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Per inoltrar senza sospetti il piede.

Perennio. Forse non tarderà. Mira, o Selene,
Come frequenti sulla polve impresse....
Selene. Parmi veder fra gl’intrecciati rami,
Che qualcun si avvicini.
Perennio.   Or le felice,
Cui non han gli anni infievolito il guardo!
Ora lo scorgo anch’io, che l’ampia strada
Tutto intero mel scuopre.
Selene.   Ohimè!
Perennio.   Che temi?
Selene. Non vedi tu, che di compagni armati
Alla testa sen vien?
Perennio.   Salvate, o Numi,
Queste misere spoglie e i tristi arredi
Avanzati dal mar. Coraggio, o figlia;
Non temer, non tremar; quel che in me vedi
Non è timor, ma dell’età fiacchezza.

SCENA II.

Claudio con seguito, e detti.

Claudio. Olà, chi siete voi?

Perennio.   (Valor mi manca). (tremando
Selene. Peregrini siam noi, dal mar più lune
Combattuti e percossi, e a questi lidi
Scorti dal fato a procacciar ristoro.
Perennio. Siam poveri, signor, sdruscito è il legno
Che colà miri, ed a placare i flutti
Quanto s’avea sacrificossi all’onde.
Claudio. Duoimi de’ mali vostri, e qui non venni
Per chieder prezzo o ad insultar stranieri.
Dalla Rocca che il mar guarda e difende,
Fu veduto approdar naviglio ignoto,

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Scender foste veduti, e qua non lice

Afferrar porto ed avanzare il passo,
Senza che il re Latin lo sappia e il voglia.
Perennio. Regna quivi Latin?
Claudio.   Laurento è quella. (accennando la città
Perennio. Felici noi; siamo in terreno amico.
So del re la pietà. Parlarne intesi;
D’Aborigeni ei fu sovrano un tempo,
Or del Lazio è signor. Siculi e Greci
Scacciando il suo valore....
Claudio.   Io non ho d’uopo
Che a me tu narri del mio rege i fatti.
Di’ piuttosto chi sei, chi è la donzella
Che vulgar non mi sembra.
Perennio.   A te il mio nome
Esser noto non può. Perennio io sono,
Nato in misera culla, e in regia corte
In uffìzio servil la vita ho spesa.
Di lei forse che miri avrai contezza,
O de’ suoi casi o del suo sangue almeno.
E chi non sa che di Magdeno il figlio,
L’avida -Pigmalion, regnar doveva
Nella reggia di Tiro a Dido unito?
E in qual parte non giunse il fatal grido
Che il tiranno fratel dall’Asia tutta
Discacciò due germane, e che Didone
D’Africa ai lidi, alla minore unita,
Di novella città le mura eresse?
Jarba, re de’ Numidi, arse Cartago;
Distrutta è la città, Dido è perita,
Fuggitiva è la suora; eccola; in essa
Vedi Selene, in me tu vedi un servo.
Selene. Abbi, chiunque tu sia, pietà di un sangue
Scherno finor della fortuna avversa.
Poco a te chiedo, se a te chiedo un tetto

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Misero ancor, ma dal timor disgombro.

Claudio. Principessa infelice, a me fur noti
Di tua famiglia i memorandi oltraggi.
All’inutil pietà che offrire io posso,
Generoso il mio re supplir vedrassi.
In buon punto giungesti. Un fier nemico,
Turno, signor de’ Rutoli feroci....
Perennio. Turno! Turno mi è noto, e mi rammento
Che Danae e Giove agli avi suoi dier vita,
E dirò i nomi lor....
Claudio.   T’accheta; io deggio
Cose nuove narrar che più felice
Rendono il Lazio, e voi faran pur lieti.
Turno, dicea, di questo sole istesso
Sui primi rai non sprigionati ancora,
Dal confin d’Oriente, armi ed armati
Guidò rapace ad assalir Laurento.
Selene. Ahi, mi segue per tutto il mio destino!
Perennio. Lascialo terminar.
Claudio.   Pronta difesa
Lo respinse veloce. Ei prese il campo
In spazioso terreno, e a faccia a faccia
Si appostarono i nostri, e dato il segno
Della pugna fatale, agli urti primi
Del re superbo la falange è aperta.
S’inoltraro i Latini, ed i nemici
O distesi, o fugati, o prigionieri,
Pienamente sconfitti a noi cedero
L’armi, il campo e il trionfo; e il duce altero
Si salvò colla fuga. A’ suoi Latini
Molto deve il re nostro, ma più forse
Deve al valor del poderoso Enea.
Selene. Enea? (a Claudio, con meraviglia
Perennio.   Parli d’Enea? (a Claudio, come sopra
Claudio.   Di lui favello.

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Perennio. Di quell’Enea, che dai Troiani lidi

Fuggitivo partì?
Claudio.   Non d’altri io parlo.
Perennio. Ah Selene, partiam.
Selene.   Se il Ciel ti salvi,
Dimmi, quando qui giunse? E come accolto
Fu dal rege Latino, e quale unisce
Interesse comun d’ambi lo zelo?
Claudio. Troppe cose mi chiedi. Or non ho tempo
D’appagar le tue brame. Sol dirotti
Che amistade li lega, e ch’è Lavinia,
Figlia del re Latin, d’Enea la sposa.
Selene. Partiam, Perennio.
Perennio.   Sì, partiam. (Comprendo
Ch’ella nutre nel sen la piaga antica).
Claudio. D’improvvisa partenza io parlar v’odo.
D’aver più non vi cal ricovro amico,
Nè soccorso da noi? D’Enea mi sembra
Vi turbi il nome e vi sconcerti il nodo.
Avvi forse fra voi col pio Troiano
Qualche occulto mistero?
Selene.   Ahimè! qual gente
Ver noi move le piante?
Claudio.   Ecco i Troiani:
Ecco Enea li precede.
Perennio.   Andiam, Selene;
Periglioso è l’incontro.
Selene.   E qual timore
Ci consiglia a partir? Chi è reo, soffrire
Dee i rimorsi nel sen, non l’innocente.
Perennio. Poc’anzi tu non mi affrettasti al mare?
Selene. Il mar si turba, ed è sdruscito il legno.
Perennio. Eh, di’ piuttosto che il tuo cor ti arresta.
Claudio. (Qui vi ha mistero e rilevarlo ho brama).
Selene. (Lo vuo’ veder, rimproverarlo io voglio

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Del suo perfido cor).

Claudio.   Restar non lice
A donzella real di turbe in faccia.
Ritiratevi meco.
Perennio.   (Ah ch’io preveggo
Qualche nuovo disastro).
Selene.   Vien, Perennio,
Vieni, non ti stancar di essermi padre.
Perennio. Quando a te mi uniformo, allor sei figlia.
Claudio. Son vicini i Troiani. Andiam. (parte
Selene.   Ti seguo. (inchinandoti
(Ah mi palpita il cuor. Vogliano i Numi
Che almen pietà, se non giustizia io trovi). (parte
Perennio. Non so se amore o se vendetta in seno
Covi Selene. L’uno e l’altro è male;
È donna: io temo non elegga il peggio. (parte

SCENA III.

Enea ed Ascanio con seguito di Troiani carichi di trofei militari, spoglie, bandiere e carriaggi per le tende.

Enea. Diansi laudi agl’Iddii, che all’armi nostre

Presidi furo, e han la vittoria unita.
Figlio, del tuo valor le prime prove
Grate a me furo, e in te conobbi il braccio
E di Dardano e d’Ilio, e il Troian sangue.
Dei trofei, delle spoglie, ai Dei dovuta
È la parte migliore, e qui destino
Ai Penati di Troia offrir gl’incensi
E le vittime elette, e sciorre il voto,
Olà, le tende militari alzate.
(Al suono di militari istromenti levano i Soldati dai carri le tende ed i padiglioni, e le distribuiscono sul spazioso terreno, nel cui mezzo v’è il padiglione di Enea.

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Ascanio. Dimmi, signor, puote sperar dal padre

Il figlio umil di sua clemenza un dono?
Enea. Parla, figlio, che brami?
Ascanio.   Ancor respira
Il nemico maggior che il Lazio infesti.
Lo sottrasse la fuga alla vendetta;
Ma se spento non è, sperar non lice
Il riposo comun; concedi, o padre,
Ch’eletto stuol di valorosi amici
Guidi e regga tuo figlio, e in traccia io possa
Gir del nemico, e se timor l’asconde,
Sulle mura di Ardea piantar le insegne.
Enea. O valoroso, o degna prole invitta
Di Creusa e di Enea! Va’ pur, fidarmi
Posso del tuo valor. Conobbi io stesso
Non solo ardir ne’ colpi tuoi, ma retti
Da consiglio li vidi1 e da fortezza.
Piramo, Laomedonte, Accaio e Alceste,
Le da voi comandate agili squadre
Raccogliete, animate. A voi confido
L’unico figlio mio; confido ad esso
L’onor dell’armi e della patria il nome.
Itene, o prodi, a fecondar gli allori;
Tu vanne, o figlio, e vincitor ritorna.
Ascanio. Attendi, o padre, o ch’io ti rechi al piede
Il nemico in catene, o il capo altero
Sovra un’asta confitto. In cuor mi sento
Amor di gloria, di fortezza armato.
(Parte, seguitatlo da vari Soldati, al suono di militari stromentì

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SCENA IV.

Enea e Soldati.

Enea. Secondi il Ciel la coraggiosa impresa;

E se i Numi gli dier valor bastante,
Tempo è ch’egli si compri onor novello.
Ma che dir vuole il mormorar ch’io sento
Fra le turbe confuso? Avete a sdegno
Di restar fra le tende, or ch’altri vanno
Nuove palme a raccor? Frenate, amici,
L’onorato desìo. Voi più di tutti
Faticaste nel campo. Il duce vostro
Lo conobbe, lo sa; maggiori imprese
Non mancheranno al vostro zelo; io deggio
Risparmiar le mie genti. Alla fatica
Il riposo succeda; io pur ne ho d’uopo;
E fin che rieda colle navi Acate,
Le stanche membra ristorar destino.
Vada ciascuno a ricovrarsi all’ombra
Di pacifiche tende, e l’ora aspetti
Del sacrifizio ai sommi Dei dovuto.
(Va a sedere sotto al suo padiglione, e tutti i Soldati si ritirano nelle tende apprestate, restando solo le Guardie che circondano il padiglione di Enea.
Deh non turbate i miei riposi, o larve
Crude tormentatrici. In pace lascia,
O triegua almeno ai mio pensier concedi,
Sventurata Didone. Assai finora
Ti vendicasti del sofferto oltraggio. (tenta di riposare
Ah che invano lo spero. Appena i lumi
Chiuder provo alla luce, ecco in aspetto
Torbido, minaccioso, al guardo intorno
Comparirmi la cruda. E qual io posso
Stender la destra all’innocente figlia

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Dell’amico Latin, se inquieta I’alma

I segni del terror nel volto imprime?
Guardia. Signor, donna gentil con vecchio unita
Chiede il passo alle tende.
Enea.   Io gliel concedo.
(Guardia parte
Tutto mi giova a distaccar dal seno
Il funesto terror, fuor che il riposo.

SCENA V.

Selene, Perennio e detto.

Selene. Lasciami. (staccandosi da Perennio

Perennio.   Non ti espor....
Enea.   (Stelle! Che miro?)
Selene. Ti turbi, Enea, nel rivederti in faccia
La sorella di Dido?
Enea.   Ah qual novella
Rechi dell’infelice?
Selene.   Odila, ingrato,
E se hai cuor di soffrirla, odila in pace.
Sciogliesti appena i legni tuoi dal lido,
Scorre il vendicator Numida altero
Di Cartago le vie; col ferro in mano
Minaccia, insulta, e chi si oppone, uccide.
Non contento il crudel se a meta estrema
La vendetta non spigne, ai Mori impone
Che diansi i templi ed i palagi a fuoco.
Primo scopo degli empi è l’alta reggia:
La circondan le fiamme, e in ogni lato
Strider si senton minacciose, orrende,
E le torri crollar, volar gli arredi
Sopra globi di fuoco, ed il pesante
Vorace ardor precipitar sul tetto.

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Enea. Ahimè taci, Selene, ahimè pur troppo

Vidi l’orride fiamme in seno ai flutti,
E le scintille mi piombar sul cuore.
Che mai fu di Didone? Ahi, la regina
Si è sottratta, o perì?
Selene.   L’afflitta donna,
Tocca più dall’orror del tuo abbandono
Che dal foco crudel, smaniosa, ardente,
Odia ciascun che la consiglia, aborre
Sangue, amicizia, e fra le braccia piomba
Della disperazion. Freme, delira,
E nei deliri suoi non fa che a nome
Chiamar Enea che l’abbandona ingrato.
Se veduta l’avessi, ah forse al pianto
Mosso ti avria; ma spietato amante
Non è di pianto e di dolor capace.
Enea. Non m’insultar, che il mio dolor non vedi.
Dimmi il fin di colei...
Selene.   Quel fine eli’ebbe
Che tu a lei procurasti. Ardita e forte,
Pria che cedere a Jarba, al rogo acceso
Vittima offerta d’un amor tradito,
Si slanciò tra le vampe ed ivi è spenta.
Enea. Deh reggetemi, amici. Oh Dido, oh morte!
(alle Guardie che lo sostengono
Perennio. Non ti basta, Selene?
Selene.   Ancor non basta. (a Perennio
Enea. Dal presente dolor che m’ange e opprime
Certa esser puoi che abbandonata a forza
Ho l’amata reina. I fati, i Numi
Mi volevano al Lazio. Ecco la terra
Su cui Troia rinasce, ecco l’impero
Dai Dei promesso alla regal mia stirpe.
Credimi, non per me sudai finora
Fra i perigli del mar, fra quei dell’armi,

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Ma pei Troiani e pel mio figlio il feci.

Selene. E Lavinia, signor, per chi destini?
La riserbi a tuo figlio, o aggiunger devi
A tante altre fatiche i tuoi sponsali? (ironicamente
Enea. Così vuole il destin.
Selene.   Linguaggio usato
Da chi scusa miglior ricerca invano.
Di’ che fingesti con Didone affetti,
Finchè ti valse il mendicato asilo.
Di’ che mai non ti piacque il suo sembiante,
Che aborristi il suo sangue, e lieto fosti
Di Didone al dispregio aggiunger l’onte
Di Selene all’amor.
Perennio.   (Questo è lo sdegno
D’ogni sdegno maggior).
Enea.   Più che non credi
La beltà di colei m’accese il petto;
Sallo il cuor mio che dal fatal momento,
Che dal lido african l’ancora ho sciolta,
Pace ancora non ebbi, e non la spero
Finché l’ombra non plachi, o il sangue io versi.
Di te non meno ebbi pietà. Le fiamme
Che svelarmi ti piacque, al punto estremo
Crebbero il mio dolor. Penai partendo
Di due germane ai benefizi ingrato.
Selene. No, crudel; se pietà vantar pretendi,
Ho la vianota di smentirti. Opra fu dunque
Di pietate e d’amor lasciarci esposte
Al furor d’un nemico, a Jarba in braccio?
Perchè prima di scior le vele ai venti
Non togliesti di vita il Moro infido?
Perchè, quando l’avesti al piè sconfitto,
Non trafiggergli il sen? Dovevi forse
Più al Numida crudel, che a una reina
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Che ti accolse ramingo, e il cuore e il trono

E cento altri d’amor segni ti offerse?
Era pur Jarba tuo nemico; ei stesso
Tentò pur di ferirti, e vil mendace
Accusò poi del tradimento Araspe.
Non contento di ciò co’ suoi Numidi
T’assalì, sulle navi a fiera pugna
Ti provocò; fin col tuo brando al petto
Ei d’insultarti osò; pietà non chiese,
Vita non impetrò, morir piuttosto
Che onorarti volea. Qual zelo ingiusto
Ti consigliò di rinunziare al dritto
Su la vita di lui, reo di più colpe?
T’era pur noto l’amor suo feroce
Per la misera Dido, e che vendetta
Fatta avrebbe di lei sprezzato amante.
D’un lieve colpo se t’avesse amore
Per lei cercato il cor, un sol pensiero
Di pietà, di dover, di legge umana
Spinger doveati a liberarla almeno
Dal maggior de’ nemici. Anima infida,
Non ti bastò di lacerarle il cuore
Col spietato abbandono; a lei lasciasti
Un carnefice al fianco, onde sua morte
Ti togliesse il rossor di udir lontano
Delle lagrime sue notizia o grido.
Difenditi se puoi, vantami in faccia
Che pietoso tu sei. No; di’ piuttosto
Che di pietà mai conoscesti il nome,
Che crudel fosti, e che il tuo cuore è ingrato.
Enea. Agli amari tuoi detti argin non posi
Per lasciarti sfogar. M’accusi a torto
D’ingiustizia o viltà, laddove io fondo
E la gloria e l’onor. Svenarmi a’ piedi
Un nemico già vinto, opra non degna

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Fora del mio valor. Ne avrei rossore

Se tentato l’avessi, e avrei portata
Una macchia sul trono. È ver, poteva
Condur meco cattivo il fier Numida,
Ma chi potea degli African sdegnati
Sottrar Cartago alla vendetta e all’onte?
Io dall’impero degli Dei condotto,
Trattener non potea navi ed armati
Dal prescritto cammin. Porre in catene
L’Africa non potea per torle il modo
Di vendicar del suo monarca i lacci.
Jarba alfin che chiedea da tua germana?
Nozze, se non amore; e offrïale il prezzo
Di un’illustre corona e un vasto impero.
Stata forse saria Dido la prima
Che avesse il cuor sacrificato al regno?
Quando Tiro lasciò, dal fier germano
Spinta asilo a cercar d’Africa ai lidi,
Si lusingò di sostenersi a fronte
Dei nativi sovrani, e credea forse
Sulla terza del mondo arida parte
Sola e quieta regnar? D’uopo ch’aveva
Di sostegno e d’amici, e Jarba è il solo
Che potea assicurar la sua fortuna.
Lo sprezzò, l’irritò. Per me nel seno
Forse l’odio le nacque, e duolmi, e sento
D’amor la pena e dei rimorsi il verme.
Ma qual colpa è la mia se amor l’accese?
E se fu forza cedere al destino
E partire e lasciarla, ho di lei meno
Inteso forse a lacerarmi il petto?
Credei, partendo, mi dicesse ingrato
E bagnasse di pianto il sen dolente,
Non mai che vil disperazion vincesse
La ragion, la natura, e preferita

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Fosse la morte a tolleranza e duolo.

L’infelice perì, non so s’io dica
Per amore o per sdegno. Ombra diletta,
Che in sen del vero i miei sospiri ascolti,
Placati per pietà: soffri ch’io renda,
Se a te non posso, alla germana illustre
Di dover, di pietà prove sincere.
Sì, principessa, a tuo favor disponi
Di me, del mio poter, di quanto il fato
Sulla terra mi accorda; obblìo3 gli oltraggi,
E per pietà più non chiamarmi ingrato.
Perennio. (Già placata è Selene). (da sè
Selene.   (Oh cari accenti! (da sè
Oh lusinghe, o speranze!) Enea, ti credo:
Compatisco i tuoi casi, e pace doni
Al pietoso tuo cor la suora estinta.
Ma che poss’io temer da regal figlia
Cui giurasti la fè?
Enea.   Lavinia è saggia;
Avrà meco pietà di tue sventure.
Condurrotti io medesmo alla mia sposa.
Selene. Sposa tua già la chiami? (mortificata
Enea.   Io tal la chiamo,
Qual me la diero di lor mano i Dei.
Selene. Questi Dei che tu nomi, o mal conosci,
O del favor di lor clemenza abusi.
Reggiti a tuo piacer. Da te non chiedo
Nè pietà, nè giustizia. Io sol la chiedo
Ai medesimi Dei che insulti e sfregi.
Perennio, andiam. (Mi lusingaste invano,
Speranze infide e menzogneri accenti). (parte
Perennio. (Il voler troppo è di sventure il fonte.
Saggia è Selene, ma di donna ha il cuore). (parte

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SCENA VI.

Enea e Soldati.

Seguitela, o custodi, e non si lasci

Disperata partir. Comodo albergo
Ad essa e al vecchio condottier si appresti
Fra le donne Troiane, e a lei si renda
Quell’onor ch’è dovuto al grado illustre.
(Guardie partono
Eterni Dei, posso pietade usarle,
Ma non darle il mio cor. Di lui dispose
Altrimente il destino, e se Didone
Vuol vendetta da me, si versi il sangue,
Ma non si manchi all’onorato impegno.
Voi seguitemi, amici; il re Latino
Vuo’ di ciò prevenir. Colpa sarebbe
Il sospetto silenzio, e avria Lavinia
Onde temer della mia fè, tacendo.
Santi Numi del ciel, pagar io deggio
Del mio debole amor non lieve il prezzo.
Vuol vendetta Didone. Ah! cada almeno
Sovra me solo il fulmine, e si salvi
L’onor, la fama, i miei Troiani, e il figlio.


Fine dell’Atto Secondo.


Note

  1. Nel testo: viddi.
  2. Nel testo si legge: Ho via ecc.
  3. Forse è da leggere: obblia.