Per colei che lo merta, e tu, cui spetta
Dopo lui questo regno, ah non mostrarti
Ai Numi ingrato, ed alla sposa avverso.
Ma se basta a Selene in regal tetto
Comoda stanza, e compagnia non sdegna,
A viver meco un vero amor l’invita.
Scusa se io ti dispiaccio. A forza io deggio (a Selene
Cimentarti a soffrir l’offerta ardita;
Differirla non giova; il mio silenzio
Danneggiar ti potria. Non arrossire
Di sì onesta pietà. Piegati, e credi
Che sente il cor ciò che t’espone il labbro.
Selene. (Ah che non giunge il simular tant’oltre.
Virtù in Lavinia ravvisar mi è forza,
Rara virtù che io non intendo ancora). (da sè
Enea. (Qual nuovo esempio di virtù inaudita
M’offre il cor di Lavinia?) A te che sei
Arbitra del cuor mio, non che del regno,
Non mi oppongo, Lavinia. Al genitore
Reca tu le tue preci; e se non sdegna
Selene i doni tuoi, qui resti e scelga.
Lavinia. (Ah come lieto a trattenerla è pronto,
E a lei partir con qual mestizia impose!) (da sè
Selene. (Superar vuo’ me stessa). Alfin, Lavinia,
Cedo ai sospetti miei. Superba, altera
Non son io qual mi credi. I doni offerti
Sprezzai allor che io li credea mendaci;
Or che amor li produce, umìl gli accetto.
Lavinia. Star sola brami, o compagnia ti alletta?
Selene. Teco vivrò, se mel concedi.
Lavinia. (Intendo.
Di viver meco e con Enea si elegge). (da sè
Selene. (Chi creduta l’avria pietosa tanto?) (da sè
Enea. (Eppure ancor di sospettar non cesso). (da sè
Lavinia. Vieni meco, Selene; al padre io stessa