Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1927, XXV.djvu/289


ENEA NEL LAZIO 285
Enea. Ahimè taci, Selene, ahimè pur troppo

Vidi l’orride fiamme in seno ai flutti,
E le scintille mi piombar sul cuore.
Che mai fu di Didone? Ahi, la regina
Si è sottratta, o perì?
Selene.   L’afflitta donna,
Tocca più dall’orror del tuo abbandono
Che dal foco crudel, smaniosa, ardente,
Odia ciascun che la consiglia, aborre
Sangue, amicizia, e fra le braccia piomba
Della disperazion. Freme, delira,
E nei deliri suoi non fa che a nome
Chiamar Enea che l’abbandona ingrato.
Se veduta l’avessi, ah forse al pianto
Mosso ti avria; ma spietato amante
Non è di pianto e di dolor capace.
Enea. Non m’insultar, che il mio dolor non vedi.
Dimmi il fin di colei...
Selene.   Quel fine eli’ebbe
Che tu a lei procurasti. Ardita e forte,
Pria che cedere a Jarba, al rogo acceso
Vittima offerta d’un amor tradito,
Si slanciò tra le vampe ed ivi è spenta.
Enea. Deh reggetemi, amici. Oh Dido, oh morte!
(alle Guardie che lo sostengono
Perennio. Non ti basta, Selene?
Selene.   Ancor non basta. (a Perennio
Enea. Dal presente dolor che m’ange e opprime
Certa esser puoi che abbandonata a forza
Ho l’amata reina. I fati, i Numi
Mi volevano al Lazio. Ecco la terra
Su cui Troia rinasce, ecco l’impero
Dai Dei promesso alla regal mia stirpe.
Credimi, non per me sudai finora
Fra i perigli del mar, fra quei dell’armi,