Atto I

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Personaggi Atto II

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ATTO PRIMO.

SCENA PRIMA.

Enea ed Acate.

Enea. Oh larve, oh sogni, oh rimembranze amare

Dell’afflitta mia Dido! Oh strazio interno
Che mi toglie il riposo, e non mi lascia
L’aura goder de’ miei trionfi in pace!
Ahimè, lo spettro mi persegue e incalza
Di una reina abbandonata in braccio
Del più crudo nemico, e veder parmi
Le orrende fiamme a divorar Cartago.
Dormite, o prodi: a voi gl’Iddii concedano1
Quella quiete che io sperar non posso.

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Ma deh! soffra l’amico al duol che m’ange

Qualche triegua recar. Destati, Acate.
Acate. Signor, son teco. Ah! dell’aurora appena
Sorgono i raggi a illanguidir le stelle;
Pace il Lazio risuona, e pace nieghi
Alle lasse tue membra e a’ tuoi Troiani?
Enea. Pace a me nega il fato. A’ miei guerrieri
Non la tolgo importuno. Ah! sol tu soffri
Di vegliar meco, d’amicizia in pegno.
Acate. Sì, valoroso Enea; quel saldo laccio
Di perfetta amistà che a te mi strinse,
Non vien meno con gli anni, anzi rinforza,
E morte sol me lo può trar dal petto.
Enea. Oh! mio dolce conforto, oh! fido Acate,
Compassiona il mio stato!
Acate.   Oh Dei! Qual nuovo
Infortunio ti assale? I patrii nota Numi
Dell’italico regno a te promesso
Ti han scorto pur felicemente ai lidi.
Quivi di Troia tua rinascer vedi,
Tua mercede, la gloria, e al figlio Ascanio,
E a te medesmo stabilir la sede.
Si oppose invano all’armi nostre e ai fati
D’Aborigeni il re, che al Lazio regna;
E Turno, che de’ Rutoli ha l’impero,
Debole è troppo a vietarti il passo
Fin dove il Tebro ha la sorgente e il fine.
Il re Latin poco ti chiede; ei ti offre
L’amicizia e l’impero, e di due genti
Farne una sola, ed unir teco il sangue
Con la figlia Lavinia e il regno e il nome.
E tutto ciò che ti dovria felice
E lieto far, sol di tristizia è fonte?

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Enea. Fonte di mia tristizia è il mio rimorso.

Tu non fosti presente al duro caso,
Che all’estremo confin d’Africa insorse
A turbarmi il riposo, e dove io scelsi,
Per non esser spergiuro, essere ingrato.
Tu, del tenero mio diletto Ascanio
Amoroso custode, in altri mari
Costretto fosti a secondare i venti,
Mentre io toccai colla sdruscita prora
Di Cartagine i lidi. Ah! non sai quanta
Pietate usommi, e qual amor, quai doni
Dido m’offerse, che dal tirio soglio
Fuggitiva si ergea novello regno.
Acate. Da che il destin le sparse navi ha unite,
E ricongiunti ci abbracciammo, e insieme
Proseguimmo il cammin dai Dei segnato,
Più fiate meco ripetesti il foco
Onde Giuno nemica il cor t’accese,
Che poi la madre tua Venere ha spento.
Oh se diviso non mi avesse il fato
Dal tuo fianco, Didone o non ti avrebbe
Nella reggia raccolto, o al mar placato
Spinto ti avrei velocemente in seno.
Non rammentasti, che di Troia il danno
Fu beltà lusinghiera? All’armi avvezzo
Non temesti d’amor le insidie e l’onte?
Miser colui che con beltà s’incontra!
Miser più chi non teme, e il laccio spera
Poter discior quando sofferto ha il nodo!
Deh! sien grazie agli Dei; vincesti al fine,
Armi vincesti e superasti inganni
Più di quelli di Marte aspri e fatali.
Non ti doler di un abbandon, che rende
Gloria al tuo nome, e del tuo padre Anchise,
E degli avi Troiani adempie i voti.

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Enea. Ah sì! del genitor rammento ancora

La terribile voce. Ei fu che sprone
Diemmi al partir, quando d’Apollo il cenno
Destommi al cor, quando mi disse ingrato.
Acate. Quella fu vision; questa che or temi
È illusione, è prestigio. Osserva; il carro
Spinge Febo alla terra, e ornai coperta
L’ha di sua luce. Il re Latin si aspetta,
E Lavinia con seco; e qui si denno
Giurar le paci, e assicurar l’asilo
A te medesmo e a’ tuoi Troiani e al figlio.
Deh! fa che in volto non ti vegga i segni
Di lugubre tristizia, e non ti creda
La novella tua sposa avverso o infido.
La vedesti, ti piacque, è d’amor degna.
Ella in dote ti reca un regno amico
Senza il prezzo del sangue. Ella rifiuta
Turno per te, cui volea darla il padre.
Che vuoi di più? Doni minor son questi
Delle offerte di Dido? Hai tu ragione
Di esser più grato all’Africana esclusa
Dal voler degli Dei, o a chi ti è data
Per man di Giove a far rinascer Troia?
Enea. Oh fido amico! oh de’ miei lunghi affanni
Util conforto e tutelar mio nume!
Tu mi rendi a me stesso. In me l’effetto
Fan le tue voci, che su folta nebbia
Il caldo sol che la dissolve e irradia.
Scusa il mio delirar. Chiama pietade
Quell’amor che condanni, e il duol che in’ange,
Per colei, non so ben, se viva o estinta.
Acate. Basti alla tua pietà, basti il sofferto
Cruccioso dolor! Le nuove imprese
A cui tutto te stesso il fato impegna,
Non ti torranno di pietoso il vanto.

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Altri tempi, altre cure. Olà! dia tosto

Bellico suon della vigilia il segno.
(Al suono di militari strumenti escono dai loro padiglioni gli uffiziali Troiani, e dalle loro tende i Soldati, e si pongono in ordinanza. Corrispondono collo stesso suono le navi e si veggono coperte di gente armata.
Acate. Ite al rege Latino; ite a Lavinia:
Sappiano entrambi che il Troiano duce,
Quando lor piaccia, ad ascoltarli è pronto.
(partono alcune Guardie
Enea. Bramo Ascanio presente. Il figlio istrutto
Rendasi degli affari. Ei finor seppe
A quai disastri umanità soggiace;
Or di fausto destin miri l’aspetto,
E faticar per migliorarlo apprenda.
Acate. Saggio è il consiglio. Chi l’età primiera
Perde nell’ozio, e non s’avvia per tempo
Per l’arduo cal delle onorate imprese,
Mal si regge canuto, e saggio è il padre
Che usa per tempo ammaestrar sua prole.
Lunghi giorni a te diano i patrii Numi,
Ma cedendo a natura, Ascanio è il solo
Che di Troia e di Enea serbar de’ il nome.
Ite alle navi, e a noi si guidi Ascanio.
(Partono altre Guardie verso le navi, da dove colle stesse si vede poscia uscire Ascanio.
Enea. Cederei volentieri al caro figlio
D’Italia il trono e di Lavinia il nodo.
Acate. No, generoso Enea, giovine è troppo
L’inesperto garzon. Da te si aspetta
Mirar Troia risorta; a te prescritto
Hanno gli Dei su questo suolo amico
Gettar le basi a redivivo impero.
Enea. Deh prega tu gli onnipossenti Numi,
Che io far nol so; priegali che dal seno

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Mi dileguin l’affanno, e la man pronta

Alla nuova mia sposa offrire io vaglia.

SCENA II.

Ascanio dalle navi con seguito, e detti.

Acate. Ecco il figlio, signor.

Enea.   Diletto Ascanio,
Vieni al mio sen. (abbracciandolo
Ascanio.   Su questa mano i segni
Lascia che io imprima di filial rispetto;
Lascia che teco mi consoli, o padre,
Del riposo che il Ciel pietoso accorda
A tue lunghe fatiche, a’ tuoi sudori.
Enea. Tanto de’ giorni miei durar lo stame
Possa in man della Parca, in fin che io miri
A te, mia prole, assicurato il regno.
Credimi, sangue mio, tu sei la prima
Cura de’ pensier miei; minor fortuna
Bastar potrebbe a saziar mie brame.
In te miro dai Dei l’eletto germe
A dar pace alla terra e a trapiantare
Sull’italico suol del Xanto i semi.
Ascanio. Deh piaccia a lor che han de’ mortali in mano
E le sorti e il voler, che me ravvisi
Degno fìgliuol di sì gran padre il mondo.
Acate. Oh plausibile gara, in cui si scorge
Tutta d’Ilio la gloria, e il primier vanto
De’ Semidei dal bel Scamandro usciti.
(odesi fra le scene il suono dei militari instrumenti
Odi, signor, degli oricalchi il suono;
Mira la turba che il venir precede
Di Latino e Lavinia.
Enea.   Onor si renda
Al padre amico e alla regal sua figlia.

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SCENA III.

Latino e Lavinia, preceduti da Guardie e seguitati da Primati
del regno, ed i suddetti.

Latino. Enea, tu vedi de’ Troiani al campo

Chi le leggi finor diè solo al Lazio.
Ma viltà non mi sprona a chieder pace:
Al voler degli Dei la fronte inchino.
Essi, che prole a me negar maschile,
A questa unica figlia un degno sposo
M’hanno in te offerto ed un erede al trono.
Turno, d’Ardea signor, credeo finora
Sè a tai doni prescelto; or io m’aspetto
Del suo sdegno le prove, e tu ti appresta
Del fier rivale a sostener l’orgoglio.
Per amico ti bramo. Un popol solo
Dei Troiani si faccia e de’ Latini.
Ecco la figlia mia; sia dessa il mezzo
Dell’eterna amistà. Rechino i figli
Di Lavinia e di Enea la doppia gloria
Di due sangui sì illustri a Italia e al mondo.
Enea. Oh degno re, cui l’ampia terra onori,
E obbedisca e tributi, i doni accolgo
E dai Numi e da te. Non fu, tel giuro,
Barbara avidità che al mar Tirreno
Abbia spinte le navi. I fati amici
Qui noi mandaro a riparar dei Greci
Le sconfitte e gl’inganni e l’odio antico.
Lode agli Dei, dell’amistade i pegni
Generoso tu m’offri, ed io li accetto;
Accetto il cor della gentil donzella
Che dee farmi felice, e dal bel labbro
Sentir desìo che non le spiaccia il nodo.
Lavinia. Signor, dai labbri miei non aspettarti

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Che obbedienza e rispetto. Amor non deve

Merito farsi, ove dispone il fato.
Solo dirti poss’io che nel tuo volto
Segno non v’ha che mi dispiaccia o attristi,
E che finora assuefatto il guardo
Dell'inamabil Turno al rozzo aspetto,
Piacemi il cambio, e lusingar mi ponno
Gl’interni moti d’un amor felice.
A te spetta, signor, mostrarmi aperto
Che il desìo non m’inganna. I miei difetti
Ti piaccia tollerar. Natura meco
Avara fu di vezzi e di beltade;
Ma un cuor mi diè che il suo dover ravvisa,
E il merto apprezza e la virtute onora.
Enea. Cara bontà che d’ogni gloria è degna!
Questi che miri è il figlio mio; tuo figlio
Sarà pur per rispetto, e de’ tuoi figli
Padre sarà, non che germano e amico.
Ascanio. A novello imeneo, signor, tu aspiri? (ad Enea
Enea. Seguir degg’io la volontà dei fati.
Ascanio. Prescritto i fati hanno al tuo sangue il regno.
Ascanio è sangue tuo.
Enea.   Sì, figlio, intendo
Il tuo giusto desìo. Tempo sarebbe
Che a te cedessi delle nozze il giorno;
Nè ricusa di farlo un padre amante,
Se l’accorda il destin, Lavinia e il padre.
Acate. Non l’accorda il destin.
Latino.   Latino ha in pegno
D’Enea la fè, non del figliuol.
Lavinia.   Lavinia
Rispetta il figlio, ed ha nel cuore il padre.
Ascanio. Sì, v’intendo; l’età merita forse
L’ingiurioso disprezzo. Il soffro, e taccio.
Enea. Frena, deh! frena, o sangue mio, la brama

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Di goder, di regnar. Tenero ancora

Ti crede il mondo a sostenerne il peso.
Io lo reggo per te, per te fui spinto
Miglior destino a procacciar, nè ancora
Abbastanza sudai per tua fortuna.
Ma se mal corrispondi a tanto affetto,
Se mal conosci di tua sorte il dono,
Degno non sei di conseguirne il prezzo.
Valor nell’uom dee rispettarsi, è vero,
Ma valore soltanto acquista pregio
Se prudenza lo regge. In altra guisa
Valor diventa ambizione, orgoglio,
Leggerezza, follìa. Rammenta, o figlio,
Di Paride l’error. Paride acceso
Più dal perfido amor che da vendetta,
Giunse a rapir di Menelao la figlia,
E feo di Troia la ruina estrema.
Soffri ch’io tel rammenti, e che risvegli
Nel tuo tenero cor da qual scintilla
Nacquer le fiamme che la reggia han spenta
Di Priamo, e d’Ilio e del gran padre Anchise.
E voi soffrite che al figliuol non cessi
Di prudenza e virtù porgere i semi:
Chè maggior cura non aggrava il padre
Oltre il dover di moderare un figlio.
Acate. Cura degna di te.
Latino.   Non può un tal padre
Che degno far di eterna gloria il figlio.
Lavinia. Caro sempre a me fia che Ascanio onori
Del padre il nome e dell’Italia il regno.
Ascanio. (Ma senza nome e senza regno i giorni
Passar mi è grave, e il mio destin ne incolpo).
(da sè, mortificato
Acate. Oh voi, cui rese il sommo Giove amici,
Non perdete i momenti. Ara s’innalzi

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Al pacifico Nume, e il sacro nodo

Di Lavinia e di Enea compir si affretti.
Ascanio. (Padre felice, che ha un sì fido amico!
Io son privo di amici e di fortuna). (come sopra
Latino. Se Lavinia acconsente, io non mi oppongo.
Lavinia. Del padre il cenno e dello sposo attendo.
Enea. E il mio desir dal piacer vostro è scorto.
Acate. Olà, ministri, fra le tende e l’armi
Si erga l’altare, ed alla Cipria diva
Si preparino incensi. Ardan le fiamme
Consacrate ad Amor. Giuliva turba
Inni sciolga ad Imene, e i sacerdoti
Le regie destre a vincolar sian pronti.
(Si appresta da’ Ministri l'altare colla statua di Venere, e si accende il fuoco sull’ Ara.
Ascanio. (Oh lieto padre! Agli occhi tuoi vedesti
Splender due volte d’Imeneo la face!) (come sopra

SCENA IV.

Claudio e detti.

Claudio. Signor.

Latino.   Che rechi?
Claudio.   Turno audacemente
Vuol fin qui penetrar. Ragion non giova,
Non val minaccia ad arrestar suoi passi.
Nè solo è già, ma di Ardeani arcieri
Folta schiera lo segue.
Lavinia.   Oh più di morte
Odioso agli occhi miei rege inumano!
Difendetemi, amici; io fui lo scopo
D’amore un tempo, or di crudel vendetta.
Latino. Figlia, non paventar. Son tua difesa
L’armi Troiane alle nostre armi unite.

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Enea. Un novello cimento il Ciel mi appresta

Per meritar della tua destra il dono.
Acate. Sospendete, o ministri, il sacro rito;
E voi, Troiani, la falange unite.
Latino. Enea, se il fin del mio consiglio approvi,
Odasi Turno; egli ci vegga uniti,
Vegga navi ed armati, e l’atterrisca
L’apparato di guerra. Udiam suoi detti.
Se offre pace e amistade, in noi ritrovi
L’amicizia e la pace, e se persiste
Nel superbo talento, abbia la guerra.
Enea. Sfuggir le stragi umanità consiglia;
Venga Turno, e si ascolti.
Lavinia.   A che volermi
Dell’orgoglioso alle invettive esposta?
Latino. Pronta abbiam la vendetta. Claudio, vanne
Al re Turno, e l’invita a nome nostro
Come amico a venir. Sue genti armate
Stieno fuor dei recinti, e se più osasse,
La forza opponi ed il soccorso aspetta. (Claudio parte
Ascanio. Signor, sarebbe oltre il dovere audace
Il mio labbro, il mio cor, se ti chiedessi
Di provarmi con Turno, e le primiere
Prove del mio valor far conte al Lazio?
Enea. Ardir non fora se a pugnar si avesse.
Serba ad uopo migliore il tuo coraggio.
Tempo verrà da far vedere al mondo
Che sei figlio di Enea, che sei Troiano.
Ascanio. Tempo verrà, ma se il presente io perdo,
Vano è il passato e l’avvenire è incerto.
Acate. Valoroso garzon, gl’impeti affrena.
Ascanio. Tu sei del padre e non del figlio amico.
Acate. Amo il sangue di Enea.
Ascanio.   Perciò Io sproni
Con altri figli a propagar sua stirpe.

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Enea. Olà! (ad Ascanio

Ascanio.   Taccio, signor.

SCENA V.

Claudio e detti, poi Turno.

Claudio.   Turno si avanza.

Latino. Viene amico o nemico?
Claudio.   Eccolo; il vedi
Solo e senz’armi.
Latino.   Il suo venir si onori. (tutti si alzano
Turno. Eccomi, o re Latin; la terza volta
Questa è che io vengo a riveder Laurento.
Le due prime trovai Latino amico,
Or collegato co’ nemici il veggio;
E Lavinia vegg’io che a me concessa
Fu d’alleanza e d’amicizia in segno,
Presso al Troian che mio rival si vanta:
Ho pronte l’armi a vendicar gl’insulti,
Ma non li temo da un vicin regnante
Che ha difeso con Turno il Lazio impero.
Vengo a renderti al sen la vigoria,
Che infievolir de’ profughi Troiani
Le recenti sorprese. Io son quel desso
Che de’ Sicani e d’Arcadi e di Greci
Queste terre purgò, che il suol divise
Fra i Rutoli miei fidi e gli Abrogeni
Vassalli tuoi; che degli Etruschi e i Volsci
Tenne lungi l’orgoglio, e al mar Tirreno
Teco solo diè legge. Io son quel desso
A cui devi il tuo regno, e quello io sono
Che il può serbar da’ tuoi nemici illeso.
Temi tu de’ raminghi esuli arditi
Malconcie navi e fuggitivi armati?
Se Turno è teco, ogni temenza è vile;

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Nè posto avrian su questa terra il piede,

S’io preveduto il tuo periglio avessi,
E l’armi teco in tua difesa unite.
Or de’ Rutoli e Ardeani il stuol guerriero3
In aiuto ti reco. Odimi, e m’oda
Colui che torvo e minacciante ascolta.
Usa a tuo pro de’ miei soldati, o attendi
Dall’armi loro a’ torti miei vendetta.
Ascanio. Tu lo soffri, signore? Ah! se non parli,
Troncar mi vedi a tolleranza il freno. (ad Enea
Enea. Taci, risponder spetta al re Latino. (ad Ascanio
Latino. Turno, mi è noto il tuo valor, rammento
Quanto oprasti per me; tu pur rammenta
Quanto a te resi, e debitor non farmi;
Chè de’ Siculi, Etrusci e Volsci uniti
Meno del tuo potere il mio non valse
A frenare l’orgoglio. Amai d’averti
Ed amico e congiunto, e alle tue brame
L’unica figlia ad accordar fui pronto.
Io non manco di fè. Voler dei Numi
E che io ti manchi. Di Laurento ai lidi
Spinse Giove i Troiani, e a chiare note
Mi parlaro gli Dei. Questi che miri,
Almo figliuol di Venere e di Anchise,
Regnar deve sul Lazio; ed io non cessi
All’armi sue, ma al favellar dei fati.
Turno. E con qual stil ti favellaro i fati?
Latino. Con quello stil, cui provvidenza eterna
Usa coi re che han degli Dei rispetto:
Degli auguri col labbro, e degli aruspici
Col sacro ministero, e delle vittime
Colle cruenti viscere parlanti,
E con quant’altro religion consiglia,
Mi parlaro gli Dei.

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Lavinia.   Deh! lascia, o padre,

Che un’altra voce degli Dei discopra
All’incredulo Turno. Al cuore io stessa
In tali note favellar m’intesi:
Guardati da colui che amor non desta
Nel tuo tenero sen, ma sdegno e pena.
Misera te, se in sacrifizio al vile
Interesse o al timor stendi la mano!
Non l’approvano i Numi, e il genio avverso
Che per lui nutri, di minaccia è un segno.
Turno. Eh! di’ piuttosto che in volubii donna
Amor di novità desta il consiglio.
Di’ che il nome Troiano, all’Asia un tempo
E alla Grecia terror, ti sembra ancora
Ad appagar l’ambizion bastante.
Ma quei che or miri dell’Europa ai liti,
Sono miseri avanzi e vergognosi
Di una patria incendiata, e di un impero
Dalla vindice man de’ Dei distrutto.
Quel che Venere vanta aver per madre,
Profugo sulla terra, è forse il solo
Che trovò nella fuga agevol scampo
E errando va per mendicare asilo.
Qui d’averlo non speri, e s’ei ritrova
Tanta viltà nel re Latin che vaglia
A’ suoi pirati ad accordare il tetto,
Turno avrà per nemico, e Turno basta
L’onor, le terre a vendicar del Lazio.
Ascanio. Non ti scuoti, signor? (ad Enea
Enea.   Turno, abbastanza
Ti soffersi finor. Misura i detti;
E se al voler degli alti Dei non credi,
Credi al poter di chi tremar può farti.
I miei guerrier, che sì vilmente insulti,
Mal conosci, e mal parli, e del mio nome

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Per tuo peggio finor mentisti il grido.

Dimmi: conosci Enea? Sai tu che in petto
Ho di Dardano il sangue, e che i natali
Ebbero gli avi miei d’Italia in seno?
Cadde Troia, egli è ver, caddeo con seco
Della Troade l’impero. I Dei puniro
Le discordie private e i folli amori
E le colpe de’ rei; ma d’Ilio il nome,
E la gloria di un sangue al Ciel sì caro
In me serbavo ancor. Partii dal Xanto
Per consiglio del Ciel, che irato troppo
Contro popoli ingrati, al miglior stuolo
De’ Troiani destina un nuovo impero.
Nè a mendicarlo in forastier paese
Guidali il condottier; li guido in parte
Dove hanno albergo quei Penati istessi
Che fur tutela agli Avi nostri, e a sdegno
Ebbero forse un abbandono ingrato.
Ecco, se brami esaminar dei fati
La ragione e l’impero, ecco la fonte
Del supremo voler. Del padre Anchise
Mel confermò fin dagli Elisi il cenno.
Ministro io sono degli Dei. Quest’armi
Son del Cielo ministre, e la donzella
Che arditamente possedere aspiri,
Per antico lignaggio a noi congiunta,
I prischi germi rinnovar dee al mondo.
Tu il soffri in pace, o se il destino irriti,
Miei pur vedrai sotto un dominio solo
Anche i Rutoli tuoi, che sono anch’essi
Parte antica del Lazio e mio retaggio.
E quell’eroe che fuggitivo or chiami,
Te fugato vedrà co’ tuoi seguaci
O ai confini d’Europa, o in seno a Dite.
Ascanio. E se persisti, nel tuo seno il brando

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Immergerà d’un fuggitivo il figlio.

Turno. Men basterebbe4 a provocar miei sdegni; (si alza
Alle prove vi attendo. Omai saprete
I decreti del Cielo, e le vantate
Favolose chimere andran sepolte
Con gli avanzi di Troia. In me, superbi,
L’ultimo eccidio a voi prepara il fato. (parte
Ascanio. Deh lasciami punir.... (ad Enea
Enea.   Se ardor ti accende
Di segnalare il tuo valor, vien meco.
Soffri, Lavinia, differir per poco
Il nuzial sacrifizio; onor mi chiama
A deprimer l’audace. A parte vieni (a Latino
Della gloria, o signor. Seguite, o fidi,
Ai trionfi, alle palme il duce vostro.
Voi tornate alle navi, e ver l’occaso
Ove l’oste superba il mar percuote,
Le frigie vele abbandonate ai venti.
Voi la via meco del terren prendete,
E per terra e per mar si pugni e vinca,
E il vincitor la sua mercede aspetti.
(Al suono delli militari istromenti partono tutti, parte per terra in ordinanza di battaglia, e parte sulle navi per mare.


Fine dell’Atto Primo.


Note

  1. Nell’unico testo dell’ed. Zatta è stampato: gl’Iddj.
  2. Nel testo: patri.
  3. Così il testo.
  4. Nel testo: bastarebbe.