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ENEA NEL LAZIO 287
Che ti accolse ramingo, e il cuore e il trono

E cento altri d’amor segni ti offerse?
Era pur Jarba tuo nemico; ei stesso
Tentò pur di ferirti, e vil mendace
Accusò poi del tradimento Araspe.
Non contento di ciò co’ suoi Numidi
T’assalì, sulle navi a fiera pugna
Ti provocò; fin col tuo brando al petto
Ei d’insultarti osò; pietà non chiese,
Vita non impetrò, morir piuttosto
Che onorarti volea. Qual zelo ingiusto
Ti consigliò di rinunziare al dritto
Su la vita di lui, reo di più colpe?
T’era pur noto l’amor suo feroce
Per la misera Dido, e che vendetta
Fatta avrebbe di lei sprezzato amante.
D’un lieve colpo se t’avesse amore
Per lei cercato il cor, un sol pensiero
Di pietà, di dover, di legge umana
Spinger doveati a liberarla almeno
Dal maggior de’ nemici. Anima infida,
Non ti bastò di lacerarle il cuore
Col spietato abbandono; a lei lasciasti
Un carnefice al fianco, onde sua morte
Ti togliesse il rossor di udir lontano
Delle lagrime sue notizia o grido.
Difenditi se puoi, vantami in faccia
Che pietoso tu sei. No; di’ piuttosto
Che di pietà mai conoscesti il nome,
Che crudel fosti, e che il tuo cuore è ingrato.
Enea. Agli amari tuoi detti argin non posi
Per lasciarti sfogar. M’accusi a torto
D’ingiustizia o viltà, laddove io fondo
E la gloria e l’onor. Svenarmi a’ piedi
Un nemico già vinto, opra non degna