Pagina:Goldoni - Opere complete, Venezia 1927, XXV.djvu/280

276 ATTO PRIMO
Dov’han gli Etrusci ed i Latini impero.

Ma tu, figlia, che figlia ancor m’induce
Appellarti l’etade e l’alta cura
Che m’arde in sen di ristorar tuoi danni,
Sgombra il lungo timor, rischiara il ciglio,
E miglior sorte ad isperar ti appresta.
Selene. Padre, avvezza al terror, stanca ed oppressa
Dai perigli funesti, in mente ho solo
Di Cartago le fiamme, e di Nettuno
Le frequenti procelle. Ahimè! da un lato
Le voragini veggo ampie, profonde,
Degli abissi del mar; dall’altro io miro
Globi di fuoco divorar le mura
Di nascente cittade, e fra gl’incendi
La tradita germana ardere anch’essa.
Ahimè! la voce di Didone al cuore
Parmi di udir che mi rinfacci e dica:
Selene infida, il mio nemico amasti.
Perennio. Colpa d’amor non rammentar, Selene,
Che lungamente da virtù coperta
Svelasti sol nelle venture estreme.
Colpa non è l’amar, colpa sarebbe
Perder ragion per amoroso incanto.
Ma di fallo maggior se abborri il nome,
Ne soffristi abbastanza il duolo e il danno.
Soddisfatti gli Dei di lor vendetta,
Ti offrono pace, ed a terreno amico
Dopo lungo soffrir ti han scorto alfine.
Selene. Ma qual patria ci accoglie, ed in qual tetto
Le stanche membra pon sperar riposo?
Perennio. Mira non lungi torreggiar gli alberghi;
Sede colà di libera nazione,
O d’Italico re l’aspetto addita.
Selene. Non si appressa pastor che il nome accenni
Della incognita terra e ci apra il varco