Cristoforo Colombo (de Lorgues)/Libro I/Capitolo VII
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Traduzione di Tullio Dandolo (1857)
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CAPITOLO SETTIMO
Accidente preparato sulla Pinta. — Arrivo alle Canarie. — Caravelle portoghesi mandate contro Colombo. — Partenza della spedizione. — Prima osservazione della variazione della bussola. — Scoperta della declinazione magnetica. — Aspetti nuovi dell’Oceano. — Spavento de’ marinai. — ll mare di erbe. — Cospirazione sulle tre caravelle. — Ribellione dei tre equipaggi. — Fermezza di Colombo. — Egli seguita la sua via.— Sua predizione della scoperta per la notte di venerdì 12 ottobre 1492.
§ I.
Gl’incidenti di questa navigazione, riferiti da diversi storici, non ci sono stati finora compiutamente raccontati. La maggior parte de’ narratori si sono attenuti troppo esclusivamente all’estratto che il celebre Las Casas ci ha trasmesso del giornale di Colombo ch’egli aveva avuto sotto gli occhi. Per mala ventura Las Casas, pieno di ardore per l’umanità, ma sprovveduto di sentimento poetico, e straniero al diletto della contemplazione, sotto pretesto di abbreviare, ha rimosso dal giornale di Colombo ogni improvvisa espansione ogni impressione candidamente descritta, non ha fatto neppur grazia a quel certo che di grandioso che vivamente traspare dallo stile del contemplatore della creazione. Las Casas non pensava qual tesoro le sue abbreviazioni rapivano alla posterità. Egli ci ha trasmesso solamente la sostanza tecnica del giornale di Colombo. Nondimeno, colla Storia dell’Ammiraglio, scritta dal suo proprio figlio Fernando Colombo, coll’aiuto della Cronaca delle Indie, di Gonzalo Fernandez di Oviedo, del manoscritto del curato di Los Palacios, delle Decadi Oceaniche, di Pietro Martire di Anghiera, della Raccolta de’ viaggi, di Ramusio, della Storia del Nuovo Mondo di Girolamo Benzoni, e facendo capitale degli storiografi reali delle Indie, Antonio de Herrera e Battista Munoz, è possibile ricostituire nel loro insieme i particolari di quel sorprendente viaggio.
Dopo tre secoli e mezzo di sperienza e di navigazione, non è tuttavia possibile inoltrarsi nell’Atlantico a cento leghe oltre le Azzorre, senza stupire dell’audacia di chi per primo affrontò volontariamente quelle latitudini.
Sebbene così distanti da quel giorno memorabile, pur non ci possiamo trattenere dall’ammirare, altresì, quel coraggio invitto e sereno, quella volontà dominatrice, che dovette far fronte all’invisibile, attaccar lo sconosciuto, il formidabile, domare le cieche superstizioni dei piloti e gli irritabili terrori de’ marinai, sottomettersi ogni potenza creata, vincere l’eventualità più terribili, e i fantasmi dell’imaginazione, non meno pericolosi de’ sinistri dal mare, affrontare le contraddizioni della scienza d’allora, tenere a vile i mostri dell’aria, dell’acqua, i vortici, le correnti, le trombe, la fame, la sete. Un uomo, contraddetto dalle turbe osava intraprendere, contra l’immensità, d’investigare spazi formidabili da nessuna nave solcati, e d’onde niun mortale era tornato, se pur è vero che il caso o l’ardimento vi portassero mai qualch’essere umano...
Questa eroica navigazione che vince di così gran lunga lo splendore mitologico degli Argonauti, e di tutte le spedizioni marittime dell’antichità, questo tentativo cattolico sull’Oceano per diffondere il Vangelo nel rimanente della famiglia umana sparsa oltre que’ flutti, questi doppi prodigi dell’audacia e del genio ispirati dalla fede, dominanti le contraddizioni della scienza e i terrori contemporanei, queste maraviglie senza esempio che la lira dell’epopea e l’arpa dai sublimi accordi sembrerebbero sole degne di celebrare, l’umiltà nostra si attenterà di raccontarle in prosa, chiaramente e brevemente.
§ II.
Il venerdì, 5 agosto 1492, comandato ch’ebbe, in nome di Gesù Cristo, di spiegar le vele, Cristoforo Colombo entrò nella sua cabina costrutta sul castello di dietro, e, pigliata la penna, cominciò il suo giornale di bordo, egualmente in nome di Nostro Signore Gesù Cristo In nomine Domini Nostri Jesu Christi.
Questo prologo che possediamo per intero, espone sin dal principio, il carattere specialmente cristiano dell’impresa. ll desiderio di penetrare lo spazio, e il voto di evangelizzare i popoli di regioni sconosciute, attestano, colla connessione del loro scopo, che questa spedizione fu, prima di tutto, un grande atto di fede cattolica. Si vede qual santa associazione univa il pensiero d’Isabella alle speranze del suo navigatore. Colombo dichiara primieramente, che, terminata la guerra contra i Mori e inalberata la Croce sulle torri dell’Alhambra, i due Re lo mandano verso le contrade dell’India, per conoscere i principi e i popoli di que’ paesi, e il modo con cui si potrebbe convertirli alla nostra santa fede; chiude la introduzione al suo giornale, dicendo, che scriverà ogni notte gli avvenimenti del giorno, ed ogni giorno la navigazione della notte; che delineerà su carte le acque e le terre del grande Oceano, e dormirà il meno possibile per dirigere la navigazione, onde abbia a conseguire compimento un’impresa ch’esige i più grandi sforzi.
ll primo giorno le caravelle, spinte da buon vento, avevano il capo al sud ovest quarto sud.
La dimane, sabato, tutto andò bene.
La domenica, 5 agosto, corsero più di quaranta leghe.
Lunedì il vento rinforzo e la Pinta fece un segnale; il suo timone si era dislogato, i pezzi n’erano disuniti. Non potendo Colombo rimediare all’accidente, a motivo delle ondate, si accostò, non pertanto, secondo che in casi simili costumavano gli ammiragli di Castiglia: riconobbe nell’avvenuto una macchinazione de’ proprietari della nave, Gomez Rascon e Cristobal Luintero, che avevano già tentato con questo medesimo mezzo di ritardare la partenza, sperando sottrarvisi: Martin Alonzo Pinzon, capitano, fece riunire fortemente col mezzo di cordami i pezzi sgominati, e si proseguì il viaggio: la dimane il mare si fe’ grosso, e il timone si scompose di nuovo: lo si racconciò alla meglio, e si veleggio verso le Canarie. I piloti delle tre caravelle si contraddicevano sulla direzione per abbordarvi il più presto: Colombo fu di parere contrario ai loro, e il fatto gli diè ragione.
Giunsero di notte. ll comandante ordinò al capitano della Pinta di rimanere alla Gran Canaria, mentre egli stesso procurerebbe di trovare una nave da surrogarla: ma, dopo avere cercato e aspettato inutilmente tre settimane, fece racconciar la Pinta, adattandole un nuovo timone, e mutare in vele quadrate le triangolari della Nina. Rinnovata ch’ebbero la provvigione d’acqua, di legna e di vettovaglie, misero alla vela il 6 settembre. In quella una nave che veniva dall’isola di Ferro, partecipò all’ammiraglio che tre caravelle portoghesi incrociavano in quei mari. La collera del re Giovanni II, adirato del rifiuto di Colombo, lo perseguitava sull’Oceano; e, per colmo di inquietudine, una bonaccia continua lo tratteneva nelle acque della Gomera in vista del picco di Teneriffa, le cui eruzioni vulcaniche spaventavano gli equipaggi.
Tale stato pieno di ansia durò dal mattino del giovedì sin all’albeggiare del sabbato. Finalmente, profittando d’un lieve soffio, Colombo avanzò alcun poco, e riconobbe l’ultima delle Canarie, l’isola del Ferro, appunto là dove lo aspettavano le caravelle portoghesi. «Egli si trovava dunque, dice Washington Irving, vicino al pericolo. Per buona ventura si levò insiem col sole il vento, le vele si gonfiarono di nuovo, le vette dell’isola si dileguarono grado grado dall’orizzonte.» Sino dal cominciare di questa sorprendente navigazione noi memoriamo, colle parole di uno scrittore protestante, il primo soccorso che ricevette dalla Provvidenza il suo messaggero Cristoforo Colombo. Nè questo fu il solo: Dio non cessò d’assisterlo. Se le leggi ordinarie del mondo non furono mai sconvolte in suo favore, nondimeno le coincidenze più felici giunsero sempre in suo aiuto, ed in così buon punto da rendere superflui i miracoli.
§ III.
Qua finiva la scienza de’ più valenti uomini di mare, e aprivansi le regioni dello sconosciuto. Mentre il cuore di Colombo palpitava di una nobil gioia, affacciandosi a spazii intentati sin allora, l’equipaggio cominciò a lamentarsi: i marinai si desolavano, disperando di non rivedere mai più la patria. L’ammiraglio si sforzò di rassicurarli, e parlò come si conveniva a spiriti materiali ed ingordi: gl’inanimi alquanto: tuttavia, per prudenza, cominciando da quel giorno, scrisse il viaggio su due distinti libri; notando una distanza di convenzione per l’equipaggio, e conservando la vera cifra per sè: temeva che i suoi ufficiali si, avvilissero s’egl’indicava un tragitto troppo lungo; e la sua previsione non fallì.
Tre giorni e notti continuò a navigare al sud-ovest, correggendo frequentemente l’errore dei timonieri, la cui mano paurosa esitava a mantenere il timone in una direzione così apertamente opposta all’Europa. Sotto un vento propizio, egli misurava le mobili pianure di quegli spazi formidabili, e si allontanava sempre più dal vecchio mondo. Avanzando così verso le terre sconosciute, quanta era la gioia e la fidanza che ne provava, altrettanto più forte manifestavasi l’amarezza e la desolazione degli equipaggi.
Tuttavia, a poco a poco, mentre si correva verso l’ovest, cominciava ad appalesarsi una notevole differenza nello splendore del giorno, nell’aspetto delle cose lontane, nel colore delle acque. Anche i cieli parevano mutare. Le costellazioni familiari a’ marinai sembravano allontanarsi, abbassarsi all’orizzonte e scomparire. Perfino la regolarità. della bussola discostavasi dalle sue leggi invariabili.
Il 13 di settembre Colombo andò sottoposto ad una dura prova. Il suo attento sguardo sorprese il primo indizio della variazione magnetica. Questa fu la prima volta al mondo che venne fatta una simile osservazione.
Colombo vide che sull’entrar della notte l’ago calamitato, invece di dirigersi verso la stella polare, andava al nord-ovest, e che al primo albeggiare della dimane, l’allontanamento cresceva: così la sua unica guida, la bussola, la cui sola infallibilità assecurava ancora i piloti, cominciava a tradirlo, e cessava di prestargli l’appoggio della scienza. L’Ammiraglio si guardo bene dal comunicare questa spaventevole scoperta agli ufficiali della spedizione, le cui fronti già stavano accigliate.
ll venerdì un presagio felice per menti volgari ravvivò la speranza de’ marinai. L’equipaggio della Nina vide una rondinella di mare, primo uccello che si fosse veduto dopo Gomera. Alla sera del dimani una meteora in forma di ramoscello igneo, un bolide magnifico parve cader dal cielo, ad una distanza di circa quattro leghe. Gli equipaggi ne furono atterriti. Colombo consegnò con brevi parole nel suo giornale l’espressione della sua ammirazione.
La domenica nubi e folta nebbia si sollevarono dalle acque. Colombo notò la dolcezza della temperatura, la trasparenza delle onde, lo splendore del cielo più diafano, e un gradevole odor marino. Ad una certa distanza il mare ritraeva del verde perchè coverto d’erbe che parevano di fresco spiccate da scogli. Tutti accolsero lietamente questo indizio della prossimità delle terre: ma l’ammiraglio non cadde nel loro errore, e disse: «io calcolo che la terra-ferma è tuttavia lontana.» Le navi erano sospinte da un vento gradevole; le correnti favorivano la navigazione; l’erba mostravasi in copia; era erba di scogli, e nondimeno l’equipaggio rimaneva cupo: i piloti non parlavano, ma si guardavano l’un l’altro in una sinistra taciturnità: ei non si lamentavano, e parea volessero vicendevolmente nascondersi la causa della loro inquietudine. L’ammiraglio gli indovinò: si erano finalmente accorti della variazione magnetica: allora fece ad essi tale spiegazione scientifica di questo fenomeno che giovò pel momento a rincuorarli.
ll l7 settembre giungevano a quegli spazi di mare in cui l’influenza tropicale si fa deliziosamente sentire. «Ineffabile giocondità vi regnava in sul mattino, scrive Las Casas; non vi mancava altro che il canto degli usignuoli. La stagione correavi come nell’aprile in Andalusia.» L’aere diventava sempre più temperato.
§ IV.
Verso la parte del Globo ove comincia questa specie di gran prati oceanici, una misteriosa division cosmografica pare operarsi così ne’ cieli come nelle acque, e sull’uomo opera alcun che di sconosciuto e non mai provato: si presentano aspetti imponenti, e si comincia a risentire la possanza delle regioni equatoriali, e i presagi del cielo australe.
Sotto queste maestose latitudini, l’Oceano non la cede alla terra in fatto di magnificenza. Una indicibile soavità giace diffusa nell’aria, la cui purezza diafana, imbevuta come di luce, alletta lo sguardo, e lo lascia arrivar lungi. Sino dall’albeggiare del dì i menomi vapori si colorano di gradazioni prismatiche in cui campeggia il roseo: quando il primo soffiare de’ venti ha spazzato questo velo ondeggiante, e messo a nudo il vivo azzurro de’ cieli, il sole, impadronendosi rapidamente dello spazio, pare col suo splendore sovrano coronarsi re del visibile: le sue chiarezze illuminano tutte le alture dell’orizzonte, e l’oceano sfavilla sotto la vasta proiezione del raggio che riverbera. Il mare è di una trasparenza abbagliante, come se fosse infiltrato delle gradazioni più fuggitive del verde; e le mezzetinte più delicate dell’azzurro diversificano le onde, su cui galleggiano qua e là frasche d’ulva ondeggiante, ovveramente crittogami, fra i quali passano spesso molluschi bizzarri, e schiere di meduse dai riflessi di ametista.
L’estrema limpidezza del mare permette di vedere i solazzi, le liti, le migrazioni delle popolazioni sotto-marine. Schiere festevoli o paurose di pesci dalle pinne lucenti si slanciano fuor della superficie, vi si tuffano di nuovo, e n’escono volando più lungi, e saltano fin sul cassero, come per sopravanzarsi l’un l’altro, o fuggendo le squadre dei porci marini e dei tonni, che, volteggiando graziosamente, gli insidiano a fior d’acqua. L’occhio segue a certe profondità ora le orade dalle belle squame, ora enorme granchio od altri curiosi pesci. Più spesso, scortato da’ suoi ostinati piloti, gira intorno alla nave un omicida pesce cane. Di quando in quando l’uccello nominato fregata dalle larghe ale, fugge, torna, si libra sui flutti, vi s’immerge e risale colla preda negli artigli.
Ma in certi giorni regna solitudine sull’Oceano; silenzio vi si distende, e l’immobilità pesa sull’umida pianura. L’aspetto di quel vasto riposo, imagine sensibile della grandezza, evoca l’infinito nel pensiero. Allora si dileguano dalla memoria la bellezza de’ continenti, la superba altezza delle montagne, la dignità de’ fiumi, la ricchezza della vegetazione, il pittoresco delle prospettive e la diversità de’ fenomeni terrestri: la sublimità dell’Oceano conquide a reverenza la curiosità dell’uomo.
La notte medesima, coprendo co’ suoi veli questa maestà, non ne cancella il carattere: solo alla magnificenza dello splendore succede una diversa imagine dell’infinito. Appena si spegne l’ardente illuminazione dell’occaso, il mare si avviluppa d’ombre, si oscura e diventa silenzioso: Una calma augusta addormenta i venti e le acque. In breve, nelle sue profondità, l’azzurro del firmamento si rischiara: mentre nella sua vôlta successivamente si accendono i lontani soli onde il Creatore seminò lo spazio, l’orizzonte, sino alla sua media altezza, si veste de’ prestigi della luce zodiacale, sì poco conosciuta nella nostra Europa.
La trasparenza e la tepida eguaglianza degli strati atmosferici temperano lo scintillare delle stelle, che versano una chiarezza candida e tranquilla sullo specchio del mare addormentato; la limpidezza dell’aria lascia le loro luminose coorti apparire in numero infinito. Come un torrente luminoso, la via lattea fa scorrere i suoi astri negli abissi della vôlta celeste. Di tanto in tanto qualche suono misterioso pare traversare lo spazio. L’orecchio ode un vago mormorio, improvvisi e brevi romori; sono squadroni lontani di balene avviate dal circolo polare ai mari dell’Equatore, ovveramente una d’esse ch’erra solitaria e soffia con violenza lanciando le sue colonne d’acqua. Ora stormi di uccelli affaticati passano invisibili in aria al di sopra delle navi, e gettano qualche interrotto grido, qual parola di richiamo in mezzo alle tenebre. Odori portati dai venti, e che il fresco della sera condensa, penetrano l’odorato del loro acre e certe volte balsamico profumo.
Anche i fenomeni notturni dell’Oceano hanno la loro cupa grandezza: al brillante riflesso de’ cieli si aggiungono le fosforescenze, le illuminazioni di tutto ciò che si muove ne’ flutti. La menoma ruga della superficie emette faville. Sotto quel cristallo verdastro, chiarori indefinibili, furtivamente erranti, corpi in forma di globi, passano e girano mandando luce. Innumerevoli sciami di mammari e di nereidi si levano alla superficie, tutta popolata di animaletti fosforescenti. I giuochi incessanti delle boniti, il passaggio di qualche gran cetaceo, e il solco della nave producono col loro urto deboli onde, la cui spuma è sempre mescolata di faville.
La potenza di fecondazione dell’umido, in seno a cui cominciarono la germinazione e la vita, si manifesta altresì nella rilucenza delle sue mollecole. L’augusta incubazione dello Spirito, che al principio era portato sulle acque, e la grazia del Verbo, da cui è stata fatta ogni cosa, splendono ’sovranamente nell’ampiezza dei mari.
Dacchè il mondo fu creato queste maraviglie si rivelavano ai soli sguardi degli Spiriti Celesti: per gli abitatori di questo globo rimanevano come se non fossero. La poesia di questi fenomeni, e l’ampiezza di queste oceaniche armonie erano peranco ignote. Finalmente, sì manifestarono agli occhi dell’ uomo. Per la prima volta, l’intelligenza umana spazio per queste latitudini, sino allora dominio esclusivo di cetacei giganteschi ed altri mostri di mare: colui che la Provvidenza piacquesi eleggere per iscovrirle era la più alta personificazione dell’intuizione e dell’amore del Creatore.
La sacra effigie del Redentore, rappresentata sullo stendardo della spedizione, che il vento faceva sventolare in cima all’albero maestro, pareva, scongiurando le forze brutali dell’aria, santificare gli elementi, nell’atto che traversava sotto i raggi del sole le zone luminose, e che fendeva lungo la notte le onde fosforoscenti. Ogni sera, canti alla gloria di Maria, stella del mare, erano gettati ai venti dell’Atlantico. Sotto gli auspicii del Verbo, il suo fervoroso contemplatore pigliava, in nome della fede, possesso dell’immensità. L’Altissimo gli aveva conceduto l’onore di penetrare per primo lo spazio, ove non erano mai giunti l’occhio e lo sguardo de’ mortali.
Entrando in cosiffatte regioni del mar tenebroso, oggetto di tanto spavento, allora avviluppate del mistero ch’egli doveva chiarire, Cristoforo Colombo, stimolato da una nobile curiosità, desiderava, secondo la sua espressione, «di conoscere i segreti di quel mondo;» il suo sguardo s’immergeva infaticabile nel mare trasparente, innondato di quello splendor tropicale, che traversa le sommità spumose, passa sotto la base delle lamine, e penetra nel loro seno a grandi profondità. Egli procurava di cogliere il carattere della vegetazione oceanica delle foreste sotto marine, che tappezzano il fondo delle regioni concave, inaccessibili allo scandaglio: qual rivestimento aveva Egli dato il Creatore all’abisso in cui la luce del giorno, troppe volte rotta dai diversi strati dell’onde, finisce a spegnersi nello spessore delle loro masse? quale specie di abitatori dovevano popolare quelle profondità? e quali terribili eventualità non potrebbero emergere da quegli abissi addormentati? quesiti formidabili, innanzi a cui avrebbe impallidito ogni mortale!
La storia e la poesia hanno ad un modo vantata la intrepidezza di Colombo, e l’audacia del suo petto ricinto di triplice bronzo. Fu creduto alla sua passione della celebrità, al suo dispregio della morte, e pensato di fargli onore dinominandolo «l’eroe della gloria.»
Ma questo è il colmo dell’errore biografico.
Ei che si avanzava tranquillo e sereno al di sopra degli abissi, non ebbe, e non credette mai di avere alcun merito d’intrepidezza: in nessuna circostanza fece allusione al suo coraggio; sapeva benissimo a chi attribuire ciò che manifestò di forza e di magnanimità nel procedimento della sua impresa. Aspirando prima di tutto a glorificare il Verbo divino, a proclamare il nome benedetto del Salvatore sulle spiaggie che scoprirebbe, sentendo che l’opera sua interessava la diffusione della cristianità, e le relazioni future de’ popoli, comprendendo che era stato eletto dalla misericordia divina Legato della Provvidenza, e deputato dell’Apostolato verso le nazioni sconosciute, Colombo attingeva dall’alto i segreti della sua forza. Il protestantismo non può negarlo: «Colombo si risguardava nella sua solenne impresa siccome direttamente collocato sotto lo scudo della protezione divina» W. Irving. lndarno l’immensità apriva dinanzi alla sua prora lo spazio illimitato; lungi dall’agghiacciarlo di spavento, questo infinito, in cui s’ingolfava, non era al suo spirito che un argomento di grandiose investigazioni.
Avendo istintivamente coscienza della sublimità della sua missione, sapendo che «questo viaggio intrapreso in nome della Santissima Trinità» tornerebbe a gloria di Lei e ad onore della Religione Cristiana, egli non temeva pericolo alcuno, e aveva in non cale ogni fatica, come egli stesso ebbe a scrivere poscia al Capo Supremo della Chiesa. Tuttavia, non ostante la sua fidanza, anzi che riposare sui favori divini e addormentarsi in una dolce quietudine, la sua prudenza fu sveglia notte e dì. Siccom’ egli era mallevadore a Dio ed alla Regina delle vite state a lui fidate, così non si scaricava sovr’alcuno della cura di vigilarle. Eccettuate le ore in cui si chiudeva regolarmente per far orazione o recitar l’officio de’ Religiosi Francescani, secondo l’abitudine contratta alla Rabida, egli passava i suoi giorni e le sue notti sul cassero del castello di poppa, vigilando il timone, osservando il mare, l’aria, le stelle, salendo talvolta la gabbia di poppa per vedere più lungi.
Isolato, perché tal era il suo piacere, e così voleva l’etichetta e il rispetto, egli si abbandonava alla contemplazione delle opere del Creatore, che fu sempre, sin dall’adolescenza, il primo godimento del suo spirito, come poi venuto in vecchiezza, diventò la più soave consolazione dell’anima sua: meglio di qualunque altro al mondo sapeva comprendere le indicazioni de’ gran fenomeni, e i muti avvertimenti della natura: egli si trovava in latitudine sconosciuta avanti lui, in cui le influenze dell’aria e delle acque, al tutto nuove, sturbavano la teorica e gli stromenti della scienza nautica. Questa è la parte del globo in cui mutano il colore, l’amarezza, la salsedine, la densità del mare; in cui la costanza della temperatura dura pari alla sua amenità, in cui il grazioso rinfrescar del vento è assiduo in modo da giovar l’uomo nelle sue fatiche e da favorire la serenità del suo spirito. Colombo notava «un mutamento straordinario nel movimento de’ corpi celesti, nella temperatura dell’aria e nello stato di mare». Interrogando continuamente la faccia sconosciuta di questa nuova natura che scopriva, il suo genio procurava di trarre dai fenomeni esteriori qualche rivelazione sul carattere degli spazi che si andava appropriando. I suoi occhi investigavano l’orizzonte: la sottigliezza del suo odorato interrogava i menomi effluvii recati dai venti: ad ogni tratto saggiava l’acqua attinta a diverse altezze, per giudicare della sua temperatura: il suo scandaglio misurava la profondità dell’abisso: sperimentava la direzione e la forza delle correnti oceaniche; raccoglieva avidamente l’erbe, le piante che gli passavano accosto, perocchè ogni cosa poteva diventargli un indizio. Un piccolo gambero marino avviluppato nelle ulve fu preso: Colombo lo conservò preziosamente; giammai simile crostaceo era stato veduto a più di ottanta leghe dalle coste. L’acqua del mare era sensibilmente meno salata che alle isole Canarie: i tonni si mostravano in copia e l’equipaggio della Nina riusci a pigliarne uno: del paro che l’erbe, pareva venissero anch’essi dall’ovest. Pien di fiducia Colombo diceva nel suo giornale, pensando al suo divin Maestro: «Io spero che Questo Dio potente, nelle cui mani sono tutte le vittorie, ci farà in breve trovare terra.»
Il 18 settembre, l’aria era come nella primavera a Siviglia. Il vento regolare sospingeva allegramente le navi, le quali studiavano oltrepassarsi a vicenda, alfine di veder la terra e guadagnare la rendita annuale di diecimila maravedis, promessa dalla Regina a colui che primo l’avrebbe additata. Martin Alonzo Pinzon, la cui nave era la più veloce nel corso, andò innanzi alle altre, perchè aveva veduto una gran copia di uccelli volare vers’occidente; e assicurò il Comandante che veleggiando verso Nord avrebbe trovato terra lungi un quindici leghe. Tuttavia, non ostante l’insistenza di tutte le sue genti, Colombo non consentì a stornarsi dalla sua via. Una tale fermezza parve orgogliosa ostinazione a’ marinai, già inquieti della lunghezza del viaggio. ll loro spavento abbracciava con trasporto la speranza di una spiaggia vicina annunziata dal signor Martin Alonzo, capitano sperimentato, e oltracciò loro compatriota: questo rifiuto cagionò un sordo malcontento ed una segreta irritazione sulle tre navi.
§ V.
Il 19 settembre si levaron nebbie senza vento, ciò ch’era per Colombo un segno certo della vicinanza della terra: convinto della prossimità delle isole, non volle punto bordeggiare per andarne in cerca, perocchè il suo scopo era di andar diritto alle Indie: scrisse sopra il suo giornale: «il tempo è buono, e se piace a Dio, ogni cosa si vedrà al ritorno.»
Il giorno seguente la calma si alternò con venti leggeri e molli. Un vento dolce la vinse, che spingeva la flottiglia verso il sud-ovest con una costante regolarità, che cominciava a inquietar gli equipaggi. Furono vedute moltissime erbe. Tre alcatraz vennero sulla nave ammiraglia. Fu preso colle mani un uccello di riva.
Il venerdì, al primo albeggiare, segni favorevoli apparvero all’ovest. Un alcatraz passò presso le navi. Una balena venne a trastullarsi alla superficie dei flutti. Le alghe, i goemon fruttiferi, o uve del tropico si mostravano in tanta copia che il mare ne pareva coverto: il taglia mare provava nel romperle non lieve resistenza. La piccola flotta era indi giunta a quegli spazi notati sotto nome di «mare d’erbe,» la cui estensione occupa una superficie sette volte eguale a quella della Francia.
L’aspetto di quella verdura, che a bella prima ricreava gli occhi e sorrideva alle speranze de’ marinai, perocchè pareva indicare la prossimità delle terre, ora per la sua immensità diventava ad essi un grave argomento di timore: si credevano giunti a quell’eterne maremme e lagune dell’Oceano che si diceva servissero di confine al mondo, e di tomba alla curiosità che le affrontava. Queste famiglie di piante adunate in numero così sterminato offrivano aspetto di palude incommensurabile dal Creatore distesa ai limiti dell’Oceano, affine di vietarne l’accesso alla temerità degli umani; immensa e monotona vegetazione, che dalle profondità delle acque estollevasi a modo di minaccia, faceva impallidire i più intrepidi quasichè collocata quale ultimo termine alla navigazione. Fu pensato che quell’erbe diventando sempre più fitte, appena le caravelle vi si fossero inselvate dentro, sarebbe lor impossibile, al ritorno, di uscirne fuori. E se non fosse avvenuto di cader preda dei mostri nascosi sotto tale verdura, era però sicuro, che durante la lotta della prora contra le onde invischiate d’erba, le provvigioni a poco a poco finirebbero, e la fame co’ suoi orrori e coll’atrocità de’ suoi consigli, sarebbe l’espiazione di una maledetta audacia. Lo spirito de’ marinai si trovava involontariamente conturbato da spaventevoli imagini, conseguenza de’ racconti uditi nelle serate del verno, ora sulle contrade inabitabili del mondo al Mezzodi, o sul gigante sotto-marino del Nord, il Craken, polipo spaventevole, che coll’uno de’ bracci si aggrappava al Mar Bianco, mentre coll’altro frugava l’Oceano Germanico; ora sulle ghiotte sirene, i monaci di mare, i crudeli vescovi dal capo mitrato, e i mostri anonimi, grandi e piccioli, che traevano le navi nei vortici. Gli spiriti più fermi degli ufficiali, senza aggiunger nulla ai pericoli reali, temevano di vedere le chiglie dare contro gli scogli occultati da siffatta verdura, e di dar in secco in mezzo a que’ prati, donde sarebbe impossibile salvarsi in una lancia, perocchè i remi non potrebbero disbrigarsi da quell’erbe folte e lunghe
Un’altra cagione, non meno incessante d’inquietudine, travagliava i tre equipaggi. Quanto più si avanzava, e tanto più il vento di un’estrema dolcezza pareva spingere regolarmente verso l’Ovest: ora non fu mai esempio ne’ mari conosciuti di una tale continuazione di vento nel senso medesimo: imaginavansi che questa costanza di direzione, così favorevole per portarli verso le terre incerte dell’occidente, sarebbe poi stata un ostacolo insuperabile al ritorno, sicchè rimarrebbero per sempre lontani dalla patria.
ll 22 settembre, fu drizzata la prora all’ovest-nord-ovest, e si fecero da circa trenta leghe. Anzichè divenire più folta, con andar avanti, l’erba si schiarì e quasi scomparve. Tuttavia l’equipaggio non faceva che diventar sempre più cupo, e vieppiù irritarsi; non isfuggiva ad un timore che per cadere in una disperazione: questa costanza del vento a spingere verso l’Ovest esasperava i suoi terrori. L’ammiraglio aveva un bel dar loro assicurazioni e spiegazioni cosmografiche; la loro esasperazione non lo ascoltava più, e già aveano cessato di credergli: non facevano più caso nè delle sue promesse ne delle sue minacce. ll rispetto alla sua autorità, la sommissione al nome sacro dei Re erano affatto caduti. Non restava più a Colombo alcun mezzo umano di essere obbedito, e di continuare l’impresa: egli non ebbe allora altro partito che d’invocare Colui che lo aveva sempre assistito. In quel mentre un vento opposto si levò improvviso, come per ismentire ogni sinistra apprensione.
Confermando l’opportunità del vento che Dio gli mandava, Colombo scrisse semplicemente queste parole nel suo giornale: «questo vento contrario mi fu di un grandissimo aiuto, perchè le genti del mio equipaggio erano in grande fermento, imaginandosi che in questi mari non soffiava vento per tornare in Ispagna.» Essendo la ribellione imminente, la sua riconoscenza tenne questo così felice soffiar di vento per un benefizio segnalato del Cielo.
Ma la calma di quegli animi non poteva essere di lunga durata: la dimane trovavansi ricaduti nei loro vaghi terrori..Era una domenica. Le alghe, le ulve, le uve del tropico ricomparivano in istrati spessi: la pianura si distendeva erbosa in tutto le spazio visibile; il vento spingeva lentamente verso l’ovest. La calma prolungata dei flutti era anch’essa diventata sospetta. Il mormorare cresceva fra’ marinai. I malcontenti dicevano di trovarsi omai giunti a quegli spazi stagnanti, in cui i venti perdono il loro impulso e il mare il suo ondeggiamento. Già Colombo aveva esauriti i suoi ragionamenti; non aveva più modi di assecurare quelle imaginazioni sconvolte dai loro propri fantasmi: quand’ecco che, in mezzo alle sue perplessità, tutto ad un tratto, senza che il vento si facesse sentire, il mare diventò sì grosso che «tutti n’erano grandemente stupefatti.» Colombo, ringraziando Dio, scrisse sul suo giornale queste parole: «così il mar grosso mi fu profittevolissimo, cosa che non era peranco avvenuta, salvo al tempo degli Ebrei, quando gli Egiziani partirono d’Egitto per inseguire Mosè, che liberava gli Ebrei dalla schiavitù.»
Il 24 settembre continuò a veleggiare all’ovest. Un uccello, detto il pazzo venne sull’antenna; e se ne videro molti altri.
ll “25, martedì, seguitò verso l’ovest con debol vento.
La Pinta si trovava allora così vicina alla Santa Maria che l’ammiraglio s’intrattenne con Martino Alonzo Pinzon, intorno ad una Carta che tre giorni prima aveva mandato a quest’ultimo alla sua caravella: gliela richiese, e Pinzon gliela getto dal suo bordo col mezzo di una corda: su questa Carta erano figurate per ipotesi alcune isole. Martin Alonzo credeva che fossero non molto lontane di là: Colombo gli diceva, che, senza dubbio, trascinato dalle correnti al nord-est, le caravelle non avevano corsa quella sì lunga via che giudicavano i piloti. Questa conversazione ad alta voce, e la risposta del comandante miravano forse a rassicurare i marinai, che già si lamentavano della lunghezza del viaggio.
Al tramontar del sole, Martin Alonzo Pinzon, correndo sulla poppa della Pinta, si mise a gridare quanto più forte poteva: «Terra! Terra! io sono il primo che l’abbia veduta: confessate il mio diritto alla rendita.» Incontanente tutti i suoi marinai misero grida di gioia, mentre quelli della Nina, salendo gli uni dopo gli altri alle gabbie, assicuravano ch’era proprio la terra. A tali vive esclamazioni il comandante, tutto commosso, si lasciò cadere ginocchioni. La sua riconoscenza aveva preceduto la sua curiosità. Egli ringrazio Dio prima di verificare la scoperta, che a lui pareva immancabile; e nella sua gratitudine piena di effusione, intonò il Gloria in excelsis Deo. Egli doveva credere da tutte quelle dimostrazioni, che fosse di fatto la terra confusamente vista ad una distanza di venticinque leghe. Ma il giorno venne a dissipare la illusione. Nella sovranità della sua solitudine, l’Oceano svolgeva su tutti i punti dell’orizzonte i suoi flutti incommensurabili. L’abbattimento fu tanto più grande, quanta la speranza era stata più vivamente suscitata.
Il 26, mercoledì, si viaggiò all’ovest sino al mezzodì, e poscia si voltò al sud-ovest. Il mare era liscio, l’aria dolce e rinfrescante: nondimeno si fecero trenta leghe.
La dimane, il vento scemo. Furono vedute moltissime orade.
ll 28 si ebbe calma: l’erba ricomparve in piccola quantità. Le tre caravelle presero molte orade.
La dimane, mentre l’equipaggio stava per lamentarsi ancora della lunghezza della strada, segni frequenti vennero a riconfortarlo. L’aere era dolce e profumato; l’Oceano riboccava d’erbe marine. A tre riprese si videro apparir nell’aria tre alcatraz seguiti da un uccello fregata.
La domenica 30 settembre vi fu calma: fra il giorno e la notte non si fecero che quattordici leghe. Gli indizi di terra vicina si moltiplicavano.
Tuttavia il tempo mutò un poco. La flottiglia patì di una pioggia dirotta; ma il vento era sempre favorevole e moderato. Questa costanza riusciva insopportabile all’equipaggio. Eccettuato Colombo, tutti quanti, perfino i suoi ufficiali, erano spaventati della distanza già corsa.
Il primo ottobre, all’albeggiare del giorno, il luogotenente di servizio dichiarò che si erano fatte sino a quel momento cinquecento settant’otto leghe all’ovest dopo l’isola di Ferro. Questa cifra finì di abbattere gli animi; e nondimeno essa era al di sotto del vero. Il conto segreto, tenuto da Colombo, noverava già settecento sette leghe. L’Uomo della Provvidenza si sforzava di rianimare gli spiriti, di stimolare i piloti, e non ascondeva la sua intima soddisfazione pel concorso che i venti e il mare davano alla sua impresa.
Il vento sempre propizio li spingeva. Cristoforo ringraziò nel suo giornale il Signore della sua bontà, scrivendovi: «il mare è sempre propizio: ne sieno rese grazie infinite a Dio.» La flottiglia seguiva la sua corsa, e gl’indizi della terra si moltiplicavano. I piloti volevano bordeggiare, trarre alla ricerca delle isole che sembravano non dover essere lontane: ma l’ammiraglio rifiutò di uscir dalla sua via: voleva procedere diritto alle Indie. «Perdere il tempo fra via, diceva, sarebbe mancar di prudenza e di ragione.» Il mormorare prese allora un carattere di odio.
§ VI.
Le tante volte ingannati dai segni che parevano loro promettere terra, gli equipaggi non aggiungevan omai più fede ad ingannevoli apparenze; e cadevano in una taciturnità, indizio dell’ultimo scoraggiamento. I marinai si riunirono la prima volta in gruppi di tre o quattro, senza saputa degli ufficiali per consolarsi e alleviare il loro spavento confidandoselo; ma essi non facevano che aumentarlo, e irritarsi nel trasmettersi i loro timori. Queste riunioni diventarono di giorno in giorno più frequenti e più numerose. Il malcontento essendo generale, non si ebbe più alcuna cura di tenerlo occulto: si suscitavano quasi apertamente gli uni gli altri a disobbedire e resistere. Nella loro qualità di Spagnoli, detestavano naturalmente quello straniero, che, dicevan essi, aveva risoluto di avventurar la loro vita insiem colla sua propria per farsi gran signore alle loro spese: se lo indicavano tra loro coi soprannomi di Genovese, di truffatore, di beffatore, affine di poter parlare di lui, anche alla sua presenza, con parole coperte. In generale cominciano così le ribellioni a bordo.I vecchi marinai giudicavano che la persistenza del comandante a continuar la via all’ovest, che non finiva mai, era una follia: ricordavano i tristi presentimenti delle loro famiglie, lo spavento di tutta Palos, l’opposizione che avevano fatta i cosmografi di Salamanca al progetto del Genovese: si dolevano della fiducia da essi posta nel Guardiano della Rabida diventato la vittima di quell’intrigante millantatore: tutti si accordavano in riconoscere che spingere più innanzi la navigazione era un andare a sicura rovina.
Già era stata dimostrata al comandante l’imprudenza della sua ostinazione; ma egli non aveva tenuto conto alcuno di queste savie rappresentazioni: preghiere e rimostranze, non avevano smossa la sua diabolica ostinazione: udiva dicevan essi, il loro mormorare, vedeva la loro tristezza, la loro ansia, e nondimeno continuava a spingerli ad una lamentevole morte.
A questo pericolo, riconosciuto da tutti, non era egli tempo di recar rimedio? avevano provato, forse già troppo, la loro obbedienza e il loro coraggio, penetrando sino in que’ mari, che nessuno aveva veduti prima di loro: dovevano essi per una cieca sommissione concorrere alla propria rovina? Poichè il comandante colla sua tenacità non aveva alcun risguardo alle loro lamentanze, poichè nulla poteva mutare ne smuovere la sua ostinazione orgogliosa, toccava a loro, finalmente, cedendo alla necessità, di provvedere da se medesimi alla propria conservazione.
Era egli giusto che centoventi uomini, la maggior parte Castigliani e vecchi cristiani, perissero pel capriccio di un solo, e ciò che era peggio, pel capriccio di uno straniero, di un Genovese? Non era più tempo di deliberare; si doveva intimare al venturiere di ripigliar la via dell’Europa; e se rifiutavasi, precipitarlo in quel mare ch’egli godeva tanto di rimirare. Si diceva esser questo il solo buon consiglio e l’unico mezzo di evitare un disastro: tal rigore imposto dalla salvezza comune non graverebbe la coscienza di alcun di loro; non era un delitto, ma uno spediente «prudenziale,» un sacrifizio fatto alla necessità: si poteva, pertanto, gettarlo «prudentemente» in mare; ed al ritorno in Ispagna, pubblicherebbesi che vi era caduto per accidente, la notte, mentre stava osservando attentamente le stelle. Nessuno certo penserebbe d’informarsi per minuto della verità del fatto: nella nobile Castiglia nessuno si piglierebbe cura di quel Genovese.
Ed ecco convenuto che di notte tempo lo si precipiterebbe in mare nel momento che verrebbe ulteriormente fissato. Segreto accordo ne fu stretto fra i tre equipaggi: noi abbiamo la prova, che, durante questa navigazione, le scialuppe delle tre caravelle furono molte volte in contatto per le necessità del servizio.
Questa cospirazione prontamente ordita, sotto il patronato dell’ignoranza e l’affiliazione della paura, si propagò in breve da un capo all’altro delle navi: quasi tutti n’erano complici, epperò non avevano capo. I piloti pensavano in silenzio fra sè quello che gridavano ad alta voce i maestri e i mozzi.
l capitani della Pinta e della Nina non ignoravano punto ciò che si tramava contro il comandante; ma da un lato, più istruiti e agguerriti contra i flutti del rimanente de’ marinai, essi non erano come loro spaventati; dall’altro, ei si sentivano in fatto, padroni di fare ciò che lor sarebbe piaciuto, perchè, eccettuati alcuni ufficiali della Santa Maria, i tre equipaggi, composti di loro compatrioti, parteggiavano interamente per loro. Ei si astenevano dal far qualsivoglia manifestazione personale; nondimeno, quantunque non incoraggiassero apertamente i ribelli, si guardavano dall’impedire le grida, i dileggi e le risoluzioni a danno dell’ammiraglio. Diverse volte nelle loro relazioni con Colombo, i tre fratelli Pinzon, e sopra tutto il primogenito, coll’alterigia de’ loro modi e la rozzezza loro del procedere gli avevano duramente provato ch’esso era isolato, e che la forza stava in lor mano, da potersene giovare quando che sia.
Il venerdì, 5 di ottobre, essendo il mare magnifico, l’aere pieno di soavità, il vento sempre propizio, i segni della prossimità della terra diventavano evidenti. Nella sua riconoscenza, Colombo scriveva: «ne sieno rese grazie a Dio.» Un gran numero di uccelli si agitava nell’aria, e una moltitudine di pesci volanti rasentava le navi; molti caddero sulla tolda della Santa Maria.
La navigazione continuava ad esser facile: le tre navi correvano con emulazione: la Nina precedeva le altre.
La domenica, 7 ottobre, al levar del sole, un colpo di cannone partito dal suo bordo annunzia la terra, e rizza un padiglione al suo albero di gabbia. Gli equipaggi erano pieni di speranza, nondimeno venne la sera senza che si fosse scoperto nulla. Intanto, uccelli in gran numero si dirigevano dal nord al sud-ovest: Colombo sapeva che i Portoghesi, seguendo il volo di questi avevano scoperto diverse isole; quindi determinò di mutar direzione, e prendere all’ovest-sud-ovest. Questo mutamento si fece solo verso l’entrare della notte.
ll giorno seguente continuò la via con un vento eccellente: il mare era unito come il Guadalquivir a Siviglia; un odor balsamico giungeva ai navigli con un aere pieno di dolcezza; l’amenità della temperatura ricordava il clima della primavera in Andalusia. ll comandante rendeva azioni di grazie al Signore.
La dimane il vento variò un poco. Per tutta la notte si udirono passare uccelli.
ll mercoledì, 10 ottobre, la flottiglia correva dieci miglia ogni ora. Fra il giorno e la notte si fecero cinquantanove leghe. Ma questa rapidità così felice non fece che mettere in più vivo e gran timore gli equipaggi. Non vedendo alcun termine alla loro navigazione, non ostante la costanza dei venti propizi, gridarono altamente che venivano menati alla loro perdita. ll loro spavento scoppiò, rifiutarono di continuare il viaggio e si ribellarono apertamente.
Qui il comandante si vide nel maggiore pericolo che unqua sia sovraggiunto a capo-squadra.
Diversi scrittori hanno ripetuto che in quel momento Colombo, minacciato dal suo equipaggio, si era trovato costretto promettergli di ritornare indietro, se in tre giorni non avesse scoperta la terra. Noi dobbiamo affermare che queste diverse affermative non posano sopra alcun fondamento.
Il troppo modesto laconismo di Colombo in ciò che risguarda la sua persona, la superiorità delle sue aspirazioni, il suo dispregio delle offese, la sua pietà per la debolezza umana gli hanno fatto ommettere ogni particolarità su questa ribellione. Questo grand’Uomo, che aveva scritto sopra il suo giornale i menomi avvenimenti di bordo, perfino di un uccello ferito da un mozzo sulle antenne della Santa Maria, non degnò mentovare le minacce, il furore, le spade sguainate e sollevate contra di sè notò appena incidentemente le intimazioni dei ribelli, e non fu saputa la loro ribellione che dal racconto sincero di quelli stessi che si erano ribellati.
La storia ha la certezza che v’ebbe il più grave attentato contro l’autorità e la vita di Colombo; ma che l’ammiraglio, venuto ad accordo cogli equipaggi, gli abbia supplicati di navigare per tre altri giorni, questa non è cosa da credere. Primieramente, per quanti hanno studiato il carattere di Colombo, questo fatto è impossibile; indi, non esiste prova alcuna di tal preteso accordo fra ’l comandante e gli equipaggi: nessuno degli storici contemporanei lo riferisce, non il figlio di Colombo, non Las Casas, non Pietro Martire, non il Curato de Los Palacios, non finalmente Ramusio. ll solo Oviedo parla dell’assicurazione data da Colombo, che, prima di tre giorni sarebbero giunti a terra; ma questo fatto non è presentato col carattere preciso di una capitolazione. Quantunque Oviedo sia stato troppo sovente l’eco dei calunniatori di Colombo, pur sapendo la fermezza di quest’Uomo, convinto delle maraviglie operate dalla Provvidenza in proprio favore, esso medesimo è il primo a dubitare del fatto che narra; e le sue parole lo indicano assai chiaramente.
Non vi fu, e non vi poteva essere alcuna convenzione tra Cristoforo Colombo e gli equipaggi ribellati, come non ve ne ha tra lo spirito di Dio e lo spirito del mondo. Nondimeno la ribellione era stata sommamente aggressiva e violenta. Per confessione dell’Oviedo, «i tre capitani e tutti i marinai erano risoluti di ritornare in Europa; e cospirarono di gettar Colombo in mare, stimando che gli avesse ingannati.» Queste semplici parole, implicando la complicità dei tre fratelli Pinzon, mostrano che questa ribellione non era l’effetto di un moto spontaneo e fortuito.
Ecco come avvennero le cose.
Martin Alonzo Pinzon, fin allora sostenuto dalla memoria del suo viaggio a Roma, e dalla sua grandissima stima del genio di Colombo, fu contagiosamente guadagnato dallo spavento dell’incommensurabile: la sua fiducia venne meno, cessò di combattere i consigli della paura, e si unì coi ribelli in un co’ suoi due fratelli.
Verso la notte, nel punto in cui, secondo gli ordini del comandante, le tre caravelle dovevano trovarsi vicine, la Pinta e la Nina raggiungerso la Santa Maria, e si strinsero ad essa l’una da un lato e l’altra dall’altro. Aiutati dall’equipaggio ribelle, i fratelli Pinzon, seguiti dai loro uomini armati, si gettarono sul ponte della nave ammiraglia, col furore in fronte, e le spade in atto di percuotere, ed a Colombo intimarono di voltar subitamente le navi per tornare in Castiglia. Il suo proprio equipaggio, i suoi piloti, le sue genti, perfin gli ufficiali della corona, e il nipote germano di sua moglie, si erano uniti coi rivoltosi. Egli era «solo contro tutti.» Già aveva dianzi esauriti isuoi argomenti, le sue persuasioni, le sue assicurazioni: contro quell’asprezza di determinazione, e quella sinistra unanimità di violenza, non gli rimane neppure il partito di ricorrere a nuove obbiezioni; d’altronde la paura non ascolta e non ragiona. Contuttociò giunse a disarmare il furore, a calmare lo spavento, a sottomettere quegli animi irritati che l’istinto della conservazione trascinava al delitto! E non solamente non cedette nè alle loro ingiunzioni, nè alle loro minacce, ma ardì perfino vietar loro anche le proteste e le preghiere; e terminando la sua ammonizione, dichiarò ad essi con tuono di autorità «che le loro lamentanze non gioverebbero a nulla; ch’egli era partito per andare alle Indie, e voleva seguitare il suo viaggio infino a che le trovasse, coll’assistenza di Nostro Signore.»
Come questa esasperazione degli spiriti, come quest’odio cresciuto dal feroce istinto della conservazione, cadesse improvvisamente davanti ad uno straniero isolato e maledetto, di cui eran omai disconosciuti grado, autorità, e che invocava indarno il nome dei Re; questo è ciò che nessun uomo di mare, nessun filosofo, neppure Colombo, potrebbe spiegare umanamente; epperciò non attribuiva egli siffatto trionfo alla superiorità del suo contegno innanzi ai ribelli, di cui costringeva gli sdegni a inchinarsi rispettosi. Alcuni mesi dopo questa vittoria, umanamente impossibile, egli riconosceva che (alloraquando i suoi marinai e il suo equipaggio erano tutti risoluti di comune accordo a ritornare in Ispagna, e si ribellavano contro di lui, dimenticando sè stessi fino a minacciarlo della vita), Dio gli aveva data la forza di cui bisognava, e lo aveva sostenuto solo contra tutti.
Questa ribellione, scatenatasi durante la notte, si trovò dissipata colle sue ombre.
§ VII.
Sin dal primo albeggiare, l’ausiliario divino che aveva sostenuto Colombo, manifestò la sua presenza. Non ostante la serenità dell’atmosfera e la dolcezza de’ venti profumati, il mare si gonfio: larghe ondate si levarono spingendo le navi con forza che non avevano provato prima. Apparve un gran numero di uccelli: un giunco verde passò molto d’accosto ai fianchi della Santa Maria. Poco appresso, l’equipaggio della Pinta vide una canna ed un bastone, indi un altro piccolo bastone, che pareva lavorato, un fascio d’erba ed un ramo d’albero carico di frutti rossi. Questi segni sostennero la speranza de’ marinai per tutto il corso della giornata. Il viaggio era stato eccellente, e si notarono ventisette leghe.
ll sole scese fiammeggiante nel mar solitario. Il circolo intero dell’orizzonte offriva all’occhio la sua pura linea di azzurro: nessun vapore permetteva l’illusione di una terra vicina. Improvvisamente, come per divina ispirazione, Colombo fece ripigliare la prima strada, e comandò al timoniere di volgersi all’ovest.
Indi, quando le caravelle si furono approssimate, e dopo che fu, secondo la regola stabilita al suo bordo, cantata la preghiera alla Vergine, la Salve Regina, raccolti insieme gli uomini dell’equipaggio fece ad essi una commovente allocuzione, ricordò loro i favori onde il Signore gli aveva ricolmi nel tragitto, concedendo ad essi senza interruzione tempo propizio, avendoli condotti in quelle latitudini, ove non fu mai che penetrasse alcuna vela, e con bontà così paterna, sui temuti spazi del mar tenebroso: si sforzò di sollevare il loro cuore alla riconoscenza verso l’Autore di tali benefizi; indi confidò ad essi ch’erano giunti al termine delle loro inquietudini e delle loro speranze. Finalmente annunzio loro la vicinanza della terra, quantunque i loro occhi non potessero scoprirla, e gli assicurò che in quella notte medesima raggiungerebbero lo scopo del loro viaggio: perciò raccomandò loro di vegliar tutta notte, e gli stimolò a spenderla nella preghiera, perchè certamente, prima che aggiornasse, scoprirebbero qualche isola. Comandò ai piloti di servizio di scemar le vele dopo mezzanotte, e promise, oltre il premio conceduto dalla Regina, un giubbone di velluto a colui che primo additerebbe la terra.
Poscia l’Ammiraglio si ritrasse nella sua camera. Sentendosi cosi vicino all’avveramento delle sue speranze, quale non dovette essere il fervore della sua preghiera! con qual tenera effusione non avrà egli ringraziato l’alta Maestà. della sua costante protezione!
Verso le dieci ore, Colombo salì sul cassero, e, giuntovi appena, scopri da lungi un lume; ma, per l’oscurità dell’atmosfera, non volle affermare che fosse la terra. Chiamò un ufficiale della casa del re, Pedro Guttierez, e gli disse di guardare anch’egli: Guttierez riconobbe ch’era proprio un lume. ll comandante chiamò il commissario di marina Rodrigo Sanchez di Segovia per mostrarglielo; ma in quella che questi saliva, il lume scomparve. Dopo un corto spazio di tempo il lume ricomparve una volta o due: era come una fiamma che ascendeva e si abbassava alternamente: a questo moto di niuna apparente importanza, Colombo riconobbe con precisione la vicinanza della terra.
Le navi correvano assai bene.
A mezzanotte, secondo gli ordini dell’ammiraglio, le navi non conservarono che poche vele. Pareva che andassero lentamente; tuttavia una corrente le portava fortemente all’ovest. La Pinta, buona camminatrice, era molto innanzi alle due altre caravelle. Sopra ciascuna nave, l’aspettazione era unanime, e l’impazienza estrema. Suscitati dalla solenne affermazione dell’ammiraglio, tutti i cuori palpitavano di speranza. Non era alcuno che dubitasse; e non fu occhio che si chiudesse. Ciascuno divorava lo spazio, e gettava nel vano delle ombre il suo avido sguardo. All’improvviso balena un lampo, e un colpo di cannone tuona. Gli equipaggi esultano di allegrezza: era il segnale della terra! Un marinaio della Pinta, chiamato Giovanni Rodrigo Bermeio, l’aveva veduta. L’orologio della Pinta notava le due del mattino. Al fragore del colpo, Cristoforo Colombo, gittandosi in ginocchio, e sollevando al Cielo le mani, mentre le lagrime della riconoscenza gl’innondavano le gote, intuonò il Te Deum laudamus, e tutti gli equipaggi, conquisi di gioia, risposero alla sua voce.
Solo dopo soddisfatto al dovere religioso fu dato sfogo all’allegrezza onde ogni cuore era pieno. Un movimento da non potersi descrivere a parole si fe’ desto incontanente nei tre navigli. Ad un comando di Colombo si ammainarono le vele eccetto una, e si mise in panna per aspettare il giorno. La prudenza del capo, che non dimenticava nulla, provvide di porre la flottiglia in istato di difesa; perocchè s’ignorava ciò che il ritorno del sole manifesterebbe. Si forbivano le armi, si apprestava la parata; amici e parenti si gratulavano. Tutto l’equipaggio della Santa Maria presentossi all’ammiraglio per offerirgli i propri rispetti, e per rendere omaggio al suo genio.