Commedia (Buti)/Paradiso/Canto XXXIII
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto trentatreesimo
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C A N T O XXXIII.
1Vergine Madre, fillia del tuo Fillio,1
Umile et alla più che creatura,
Termine fisso d’eterno consillio,
4Tu se’ colei, che l’umana Natura
Nobilitasti sì, che ’l suo Fattore
Non si sdegnò di farsi sua fattura.2
7Nel ventre tuo si raccese l’amore,
Per lo cui caldo ne ’l eterna pace
Così è germinato questo fiore.
10Qui se’ a noi meridiana face
Di carità, e giuso tra’ mortali3
Se’ di speranza fontana vivace.
13Donna, se’ tanto grande, e tanto vali,
Che qual vuol grazia, et a te non ricorre,
Sua disianza vuol volar senza ali.
16La tua benignità non pur soccorre
A chi dimanda; ma molte fiate
Liberamente il dimandar precorre.4
19In te è misericordia, in te pietàte,5
In te è magnificenzia, in te s’aduna
Quantunque in creatura è di bontate.
22Or questi, che dall’infima lacuna6
Dell’ universo fin qui à vedute7
Le vite spiritali ad una ad una,
25Supplica te per grazia di virtute,8
Tanto ch’ei possa colli occhi levarsi
Più alto verso l’ultima salute.
28Et io, che mai per mio veder non arsi
Più ch’io or fo per suo, tutti miei preghi9
Ti porgo, e priego che non siano scarsi,
31Perchè tu ogni nube li disleghi
Di sua mortalità coi prieghi tuoi
Sì, che ’l sommo piacer si li dispieghi.10
34Ancor ti prego, Regina, che puoi
Ciò, che tu vuoli, che conservi sani,
Dopo tanto veder, li affetti suoi.11
37Vinca tua guardia i movimenti umani:
Vedi Beatrice con quanti Beati
Per li miei prieghi ti chiudon le mani.
40Li occhi da Dio diletti e venerati
Fissi nell’orator mi dimostraro12
Quanto i devoti preghi li son grati.
43Indi a l’eterno lume sè drizzàro,13
Nel qual non si può creder che s’inii,14
Per creatura, l’occhio tanto chiaro.
46Et io, ch’al fine di tutti disii
M’appropinquava, sì com’io dovea,
L’ardor del desiderio in me finii.
49Bernardo m’accennava e sorridea,
Perch’io guardasse insuso; ma io era
Già per me stesso tal, qual io volea:15
52Chè la mia vista, venendo sincera,
E più e più entrava per lo raggio
Dell’alta luce, che da sè è vera.
55Da quinci innanzi il mio veder fu maggio,
Che ’l parlar mostri, ch’a tal vista cede,16
E cede la memoria a tanto oltraggio.17
58Qual è colui, che sognando vede,
Che dopo ’1 sogno la passione impressa
Rimane, et altro alla mente non riede;18
61Cotal son io: chè quasi tutta cessa
Mia visione, et ancor mi distilla
Nel cuore il dolce, che nacque da essa.
64Così la nieve al Sol si dissigilla,
Così al vento ne le follie levi
Si perdea la sentenzia di Sibilla.
67O somma luce, che tanto ti levi
Da’ concetti mortali, a la mia mente
Ripresta un poco di quel che parevi;
70E fa la lingua mia tanto possente,
Ch’una favilla sol de la tua gloria
Possa lassare a la futura gente:
73Chè, per tornar alquanto a mia memoria,
E per sonar un poco in questi versi,
Più si conceperà di tua vittoria.
76Io credo, per l’acume ch’io soffersi
Del vivo raggio, ch’ io saria smarrito
Se li occhi miei da lui fusser aversi.
79Ei mi ricorda ch’io fui più ardito
Per questo a sostener, tanto ch’io iunsi
L’aspetto mio col valore infinito.
82O abundante grazia, ond’io presunsi
Ficcar lo viso per la luce eterna
Tanto, che la veduta vi consunsi!
85Nel suo profondo viddi che s’interna
Legato con amore in un volume
Ciò, che per l’universo si squaterna;19
88Sustanzie et accidenti e lor costume,
Tutti conflati insieme per tal modo,20
Che ciò, ch’io dico, è un semplici lume.
91La forma universal di questo nodo
Credo ch’io viddi, perchè più di largo,
Dicendo questo, mi sento ch’io godo.
94Un punto solo m’è maggior letargo,
Che venticinque seculi a l’impresa,
Che fe Nettunno a mirar l’ombra d’Argo.21
97Così la mente mia tutta sospesa
Mirava fissa, immobile et attenta,22
E sempre di mirar faceasi accesa.23
100A quella luce cotal si diventa:
Chè volgersi da lei per altro aspetto
È impossibil che mai si consenta:
103Però che ’l ben, che è del voler obietto,
Tutto s’accollie in lei, e fuor di quella
E defettivo ciò che è lì perfetto.24
106 Omai serà più corta mia favella
Pur a quel, ch’io ricordo, che d’un fante,25
Ch’ancor bagni la lingua a la mammella;
109Non perchè più ch’un simplici sembiante
Fusse nel vivo lume ch’io mirava,
Che tale è sempre, qual s’era davante;
112Ma per la vista, che s’avvalorava
In me, guardando, una sola parvenza,
Mutando me, a me si travalliava.26
115Ne la profonda e chiara sussistenza
Dell’alta luce parvermi tre giri
Di tre colori, e d‘una continenza;
118E l’un dall’altro, come Iri da Iri,
Parea reflesso; e ’l terzo parea foco,
Che quinci e quindi equalmente spiri.27
121Oh come è corto ’l dire, e come fioco28
Al mio concetto! e questo a quel, ch’io vidi,
È tanto, che non basta a dicer poco.
124O somma luce, che sola in te sidi,29
Sola te ’ntendi, e da te intelletta,
Et intendente te a me arridi,30
127Questa circulazion, che sì concetta
Pareva in te, come lume reflesso,
Dalli occhi miei alquanto circuspetta,
130Dentro da sè del suo fulgore stesso31
Parea pinta de la nostra effige;32
Per che ’l mio viso in lei tutt’era messo.
133Qual è ’l geometra, che tutto s’affige
Per misurar lo cerchio, e non ritrova,
Pensando, quel principio, ond’elli indige;33
136Tal era io a quella vista nova:
Saper voleva come si convenne34
L’imago al cerchio, e come vi s’indova;
139Ma non eran da ciò le proprie penne;
Se non che la mia mente fu percossa
Da un fulgore, in che sua vollia venne.
142Ma all’alta fantasia qui mancò possa:
Ma già volgeva ’l mio disio e ’l velle,
Siccome rota, che equalmente è mossa,
145L’Amor, che muove ’l Sole e l’altre stelle.
- ↑ vv. 1-39. L’Inno a Maria Vergine fu da noi pubblicato col relativo Commento di Francesco da Buti nel 1858, ed in pochi esemplari: questo saggio del Paradiso e il Canto V dell’Inferno (publ. da Alessandro Torri negli Studi inediti su Dante, Fir.1846 pagg. 56-93 ) erano tutto quanto fosse a stampa del nostro Butese, quando ci accingemmo alla public. del suo intiero Commento. E.
- ↑ v. 6. C. A. Non disdegnò
- ↑ v. 11. C. A. intra’
- ↑ v. 18. C. A. al dimandar
- ↑ v. 19. C. A. In te misericordia,
- ↑ v. 22. C. A. dall’infimo alla cuna
- ↑ v. 23. C. A. insin
- ↑ v. 25. C. M. C. A. a te per
- ↑ v. 29. C. A. ch’io fo per lo suo, . . prieghi
- ↑ v. 33. C. A. gli si
- ↑ v. 36. C. A. effetti
- ↑ v. 41. C. A. ne dimostraro
- ↑ v. 43. C. M. C. A. si drizzaro,
- ↑ v. 44. C. A. si dee creder che s’invii,
- ↑ v. 51. C. A. quale ei
- ↑ v. 56. C. A. mostra
- ↑ v. 57. C. A. Eccede
- ↑ v. 60. C. A. e l’altro
- ↑ v. 87. C. A. squaderna;
- ↑ v. 89. C. A. Quasi conflati
- ↑ v. 96. Nettunno si è detto da taluni, perchè in qualche iscrizione latina vedesi Neptunnus in cambio di Neptunus. E.
- ↑ v. 98. C. A Istava fissa,
- ↑ v. 99. C. A. di guardar
- ↑ v. 105. C. M. ch’egli è
- ↑ v. 107. C. M. che d’infante,
- ↑ v. 114. C. A. Mutandomi io a
- ↑ v. 120. C. A. si spiri,
- ↑ v. 121. C. A. O quanto è
- ↑ v. 124. C. A. O luce eterna,
- ↑ v. 126. C. A. te ami ed arridi,
- ↑ v. 130. C. A. coloro istesso
- ↑ v. 131. C. A. Mi parva
- ↑ v. 135. Indige; bisogna, cavato dal latino indigeo. E.
- ↑ v. 137. C. A. Veder voleva
C O M M E N T O
Vergine Madre ec. Questo è lo xxxiii canto de la terza cantica 1 del nostro autore, nel quale fa due cose principalmente: imperò che prima lo nostro autore finge che santo Bernardo, pregando per Dante, componesse questa devotissima orazione, la quale veramente compuose elli; e, come fatta l’orazione, a lui venne la grazia e drizzò la sua vista verso Dio; nella seconda parte lo nostro autore pone bene acconciamente quello, che per lui si potè comprendere de la Divinità, et incomiaciasi quine: Da quinci innanzi ec. La prima, che sarà la prima lezione, si divide tutta in tre parti: imperò che prima finge come santo Bernardo cominciò la devota orazione in verso la Vergine Maria, cantando e lodando le sue virtù; nella seconda parte porge a lei lo prego di Dante e lo suo per lui, et incominciasi quine: Or questi, che dall’infima ec.; nella terza parte finge come la Vergine Maria levò li occhi suso a Dio, e com’elli sentitte la grazia in sè venuta, e dirizzò li suoi occhi in suso, et incominciasi quine: Li occhi da Dio ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co la esposizione letterale, allegorica e morale.
C. XXXIII — v. 1-21. In questi sette ternari lo nostro autore finge come santo Bernardo dicesse e 2 componesse questa orazione, ne la quale raccoglie tutte le lode de la Vergine Madre; et a presso adiunge la sua dimanda, e questa parte sarà ne la sequente parte. Ma in questa prima, volendo da lei addimandare, dimostra ch’ella possa, sappi e voglia e debbia fare quello ch’elli intende di dimandare; ma prima intende a raccontare le sue laude, contando le sue virtù, dicendo così: Vergine; questo nome propriamente si conviene a la Nostra Donna: imperò che vergine fu innanti al parto e nel parto e dopo ’l parto. Madre: imperò ch’ella fu madre naturalmente del Figliuolo d’Iddio: imperò che di lei prese carne umana, et è madre per affezione di tutta l’umana spezie. Fillia del tuo Fillio: imperò ch’ella fu figliuola d’Iddio per creazione: imperò che Iddio creò l’anima sua di niente, come crea tutte l’animo umane, et Iddio fu figliuolo di lei quanto a l’umanità: imperò che lo Verbo prese carne umana di lei, e fu suo figliuolo, quanto a l’umanità, Umile; quanto a l’animo, et alta; quanto a l’essere madre d’Iddio, più che creatura: non fu mai creatura tanto umile in tutti li atti suoi, quanto fu la Vergine Maria, però dice lo Ps.°: Quia respexit humilitatem ancillce suœ, nè fu mai creatura sì alta: imperò che nulla creatura venne mai a quello stato, che fusse madre del Figliuolo d’Iddio, quanto alla carne. Termine fisso; cioè termine fermo, d’eterno consillio; cioè di consillio, che non à principio, nè fine; cioè che la Vergine Maria fu et è quello termine fermo, in che si diliberò e consilliò la somma Sapienzia ab eterno di fare la redenzione umana e pilliare carne umaiia di lei. Tu se’ colei; cioè tu, Vergine Maria, se’ quella, che l’umana Natura Nobilitasti; cioè la quale facesti nobile l’umana natura, in quanto lo Figliuolo d’Iddio prese carne umana di te, sì; cioè per sì fatto modo co la virtù tua, che ’l suo Fattore; cioè Iddio, che fu fattore dell’umana natura, Non si sdegnò; cioè non riputò non degno, di farsi; cioè di fare sè, sua fattura; cioè fattura dell’umana natura: imperò che l’umana natura, che era in te, Vergine Maria, fece omo Cristo, in quanto fu tuo figliuolo quanto a l’umanità. Nel ventre tuo; cioè di te Vergine Maria, si raccese l’amore; cioè tra Dio e l’omo, lo quale era spento per lo peccato d’Adam. Iddio quando creò l’omo, amò l’omo tanto, quanto stette ne la sua obedienzia, et allora arse quello amore; quando Adam peccò, si spense quello amore e stette spento infine che a Dio piacque di fare prendere carne umana al suo Figliuolo, sì che, incarnato lo Verbo divino nel ventre de la Vergine Maria, incontenente Iddio amò l’omo: imperò che amò lo suo Figliuolo, che era fatto omo. Per lo cui caldo; cioè per lo caldo del quale amore, ne l’eterna pace; cioè ne la beatitudine celeste, dove è pace eterna, Così; cioè come tu, Dante, ài veduto, è germinato; cioè àe cresciuto e messo follie, questo fiore; cioè questa rosa, de la quale è stato detto; la quale rosa prima era vota, avale 3 è quasi piena in tutte le sue sedie. Qui; cioè in questa beatitudine, se’ a noi; cioè tu, Vergine Maria, se’ a noi beati, meridiana face; cioè eccellentissima fiaccula, come nel mezzodi’ la luce del Sole è più eccellente, che si dice che la Vergine Maria in vita beata è ai beati fiaccola eccellentissima, Di carità; cioè d’amore: imperò che la carità della Vergine Maria tutti li beati accende a carità, e giuso; cioè giuso nel mondo, tra’ mortali; cioè tra li omini, Se’ di speranza fontana vivace; cioè fonte indeficiente di speranza: imperò ch’ella ci dà speranza d’avere ogni grazia da Dio, ch’ella è nostra avvocata. Unde dice santo Bernardo: Securum habes accessum ad Deum, o homo, ubi mater ante filium, et filius ante patrem. Mater ostendit filio pectus et ubera; filius ostendit patri latus et vulnera. Nulla ergo poterit esse repulsa tibi, ubi tot occurrant caritatis insignia. E così dimostra santo Bernardo ch’ella debbia essere avvocata di Dante, a dimandare grazia per lui. Donna, se’ tanto grande; cioè tu, Vergine Maria, se’ sì grande donna che tutte l’altre avanzi, e li cori delli Agnoli, e tanto vali: imperò che se’ madre del Figliuolo d’Iddio, Che qual vuol grazia; cioè delli omini qualunqua vuole grazia da Dio, et a te non ricorre; cioè per la grazia, mettendo te per sua avvocata, vuol Sua disianza; cioè vuole lo suo desiderio, se non ricorre a te, volar senza ali; cioè vuole in vano inalzare lo suo desiderio: imperò che, come serebbe impossibile a volare senza l’ale; così è impossibile avere grazia da Dio, senza lo ricorso a la Vergine Maria. E così àe dimostrato santo Bernardo ch’ella possa e sappia acquistare grazia a chi la dimanda. La tua benignità; cioè di te Vergine Maria, non pur; cioè non solamente, soccorre A chi dimanda; cioè a colui, che dimanda lo tuo soccorso, ma molte fiate; cioè spesse volte, Precorre; cioè viene innanti, il dimandar; cioè, che l’omo dimandi, Liberamente; cioè per tua liberalità: et è benignità disposizione d’animo a ben fare al prossimo, et invitante li altri co la sua dolcezza, et è spezie di carità; e liberalità è larghezza di donare da sè medesimo mossa. In te; cioè Vergine Maria, è misericordia; misericordia è compassione de la miseria del prossimo; in te pietate; cioè in te Vergine Maria è pietà; et è pietà movimento a sovvenire li deficienti, et è differenzia tra misericordia e pietà: imperò che misericordia è sovvenire quando si dimanda; e pietà è ancora, benchè non si dimandi: e queste sono spezie di carità. In te; cioè Vergine Maria, è magnificenzia; e magnificenzia è donamento di perfezione a le cose molto grandi e molto chiare. Tutte queste virtù e molte altre anco innumerabili virtù sono ne la Vergine Maria; ma l’autore prese quelle che faceano ora a la materia: imperò che, perchè aveva detto che era benigna a soccorrere a chi dimandava, si dimostrava che in lei era misericordia; e perchè avea detto che spesse volte soccorrea inanti che si dimandasse, si dimostrava la pietà; e perchè ella arreca a perfezione tutte le grandi cose, si dimostrava la magnificenzia. in te s’aduna; cioè in te sola Vergine Maria si trova raccolto, Quantunque 4 in creatura è di bontate; cioè tutta la bontà de la creatura; cioè delli Agnoli, delli omini e di tutte l’altre cose create da Dio; e così dimostra ch’ella vogli fare grazia a chi la dimanda. E però bene àe osservato l’autore quello che si osserva da’ Poeti ne le loro petizioni, dimostrando che colui da cui si dimanda, possa, debbia e voglia e sappia fare quello che si debbe dimandare: imperò che, mancando una di queste quattro cose in colui a cui è dimandato, in vano si dimanderebbe; e così sarebbe stolta dimanda.
C. XXXIII — v. 22-39. In questi sei ternari lo nostro autore finge che santo Bernardo finisse la sua orazione devota la quale fece per lui, adiungendo la sua dimanda a la parte detta di sopra, che fu preparativa, dicendo così: Or; cioè ora, questi; cioè Dante, che; cioè lo quale, Dall’infima lacuna dell’universo; cioè dal luogo bassissimo di tutti li altri del mondo: lacuna è proprio luogo d’acqua; ma qui si pillia per lo luogo basso de lo inferno; universo si dice lo mondo: imperò che ogni cosa è congregata a fare uno; cioè lo mondo, e però universo è ogni cosa volta ad uno; cioè a fare uno, fin qui; cioè infine al paradiso dove finge l’autore ch’elli fusse, quando santo Bernardo fece questa orazione, à vedute Le vite spiritali; cioè àe veduto, secondo la lettera, colli occhi corporali; ma, secondo l’allegoria e la verità, colli occhi mentali le vite de li spiriti che sono senza li corpi, ad una ad una: imperò che àe veduto lo inferno, e per questo s’intende tutt’i modi di vivere delli omini viziosi; lo purgatorio, e per questo s’intende tutti li modi di vivere, secondo le virtù purgatorie; e lo paradiso, cioè tutt’i modi di vivere, secondo le virtù dell’animo purgato e contemplativo; et àe considerato in questi stati et in questi modi di vivere singularmente li omini famosi, facendo di loro ad uno ad uno speciale menzione. Supplica te; cioè umilmente prega te: supplicare 5 è sotto altrui sè piegare, sì che supplicare è con umilth pregare, per grazia; cioè che tu per grazia, non per suo merito li concedi, Tanto di virtute; cioè tanta quantità di virtù, ch’ei; cioè ch’elli, possa colli occhi levarsi; cioè colli occhi della mente; cioè colla ragione e co lo intelletto levare sè; cioè la mente sua e la contemplazione sua, Più alto; che non s’è levato in sin qui, verso l’ultima salute; cioè verso Iddio, che è l’ultima nostra salute. Et io; cioè Bernardo, che mai; cioè lo quale mai, non arsi; cioè non ardentemente desiderai, per mio veder; cioè acciò che io vedesse, Più ch’io or fo; cioè più, che io Bernardo ardentemente ora desideri, per suo; cioè per lo suo vedere; cioè acciò ch’elli vegga, tutti miei preghi; cioè di me Bernardo, Ti porgo; cioè porgo a te Vergine Maria, e priego; cioè te Vergine Maria, che non siano scarsi; cioè li miei prieghi, Perchè tu; cioè acciò che tu, ogni nube; cioè ogni ignoranzia, li disleghi; cioè sciolghi, Di sua mortalità; cioè de la quale ignoranzia è cagione la sua mortalità, coi prieghi tuoi; cioè pregando tu Iddio che li facci questa grazia, Sì; cioè per sì fatto modo, che ’l sommo piacer; che è Iddio, si li dispieghi; cioè si manifesti a lui. Ancor; cioè anco ora, ti prego, Regina; cioè te Reina del cielo, che puoi; cioè la quale puoi, Ciò che tu vuoli: imperò che Iddio ogni cosa, che tu vuoi, ti concede, che conservi sani, Dopo tanto veder, li affetti suoi; cioè, poichè arà veduto Iddio, che tu conservi sani li suoi desidèri. Vinca tua guardia; cioè la guardia di te Vergine Maria, i movimenti umani; cioè le passioni che l’umanità dà, le quali muoveno la voluntà. Vedi; tu, Vergine Maria, Beatrice; che s’interpreta ora grazia perficiente e cooperante, la quale àe figurato che segga nel terzo scanno, con quanti Beati: imperò che finge che tutti li beati pregasseno la Vergine Maria per Dante, perchè santo Bernardo ne li avea pregati; e però dice: ti chiudon le mani; cioè chiudono et accoppiano le mani, inchinandosi a te per lui, Per li miei prieghi; cioè imperocchè io ne gli ò pregati che ciò faccino. E qui finisce l’orazione di santo Bernardo, e più non parlerà. Seguita.
C. XXXIII — v. 40-54. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che la Vergine Maria facesse cenno a santo Bernardo che la sua orazione era esaudita; e com’elli si sentì venuto al suo desiderio, dicendo così: Li occhi; cioè della Vergine Maria, diletti e venerati da Dio: imperò che Iddio amò et onorò li occhi suoi, Fissi; cioè fermati, nell’orator; cioè in santo Bernardo, che avea fatta l’orazione e detta, mi dimostraro, cioè dimostraro a me Dante, Quanto i devoti preghi; cioè fatti con devozione, li son grati; cioè sono a grado a la Vergine Maria. Indi; cioè di quindi e di poi, a l’eterno lume; cioè a Dio, che è lume eterno, indeficiente, senza principio e senza fine, sè drizzaro; cioè dirizzorno sè, Nel qual; cioè lume, non si può creder; da alcuno, che Per creatura; cioè nè per Agnolo, nè per omo, s’inii; cioè si metta dentro: iniare 6; cioè mettere dentro, l’occhio tanto chiaro; quanto si mette quello della Vergine Maria. Et io; cioè Dante, ch’al fine di tutti disii; cioè lo quale al fine di tutti li desidèri, M’appropinquava; cioè m’approssimava, finii; cioè finitti, L’ardor del desiderio; lo quale io avea, in me; cioè in me Dante, sì; cioè per sì fatto modo, com’io; cioè come io Dante, dovea; cioè finire. Bernardo m’accennava; cioè santo Bernardo accennava me Dante, acciò che io ragguardasse ne la divina luce, e sorridea; cioè rideva pianamente e modestamente, Perch’io; cioè acciò che io Dante, guardasse insuso; cioè inverso Iddio, ma io era Già per me stesso; cioè per me medesimo, senza il cenno di santo Bernardo, tal, qual io volea; cioè essere desiderava. Chè la mia vista; cioè imperò che la mia veduta di me Dante, venendo sincera; cioè pura e chiara, E più e più entrava per lo raggio; cioè de la Divinità di poi più, che da prima, Dell’alta luce; che è Iddio, unde santo Ioanni: Erat lux vera, quae illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum -, che; cioè la quale luce, da sè è vera: Iddio è vera luce da sè, perchè da altro non depende. E qui finisce la prima lezione del canto xxxiii della terza cantica, e seguita la seconda.
Da quinci innanzi ec. Questa è la seconda lezione dell’ultimo canto della terza cantica del nostro autore Dante, nel quale finge ch’elli vedesse la Divinità, e così conchiude suo poema. E dividesi tutta in sei parti: imperò che prima finge ch’elli più vedesse che non è possibile a dire, e così si scusa ch’elli non può di quel, che vidde, parlare a pieno; nella seconda parte finge com’elli fece orazione a Dio che li prestasse grazia di potere ridire di lui alquanto di quel ch’elli vidde, e ritorna a dire com’elli passò per lo raggio de la divina luce a vedere Iddio colli occhi suoi, et incominciasi quine: O somma luce ec.; nella terza descrive quello ch’elli prese della Divinità, e finge che uno punto li è dimenticato, et incominciasi quine: O abundante grazia ec.; nella quarta parte si scusa che ’l suo parlare conviene oggimai essere corto: imperò che non si può dire da lui quello che vidde, et incominciasi quine: A quella luce cotal ec.; nella quinta parte finge com’elli vedesse ne la Divinità la Trinità delle persone e l’umanità di Cristo, et incominciasi quine: Ne la profonda e chiara ec.; nella sesta et ultima parte finge com’ellì volea vedere come l’umanità si congiungea co la Divinità; ma non fu di tanta potenzia, e pone fine al suo poema, et incominciasi quine: Qual è ’l geometra ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co la esposizione letterale, allegorica e morale.
C. XXXIII — v. 55-66. In questi quattro ternari l’autore si scusa al lettore ch’elli non potrò tanto dire quanto elli vidde, e fa due similitudini, dicendo così: Da quinci innanzi; cioè da questo punto, ch’i’ò detto in là, il mio veder; cioè lo vedere di me Dante, fu maggio; cioè fu maggiore, Che ’l parlar mostri; cioè che ’l parlare mio possa mostrare, ch’a tal vista cede; cioè lo quale parlare dà luogo a tal vedere, E cede la memoria; cioè e dà luogo la memoria mia: imperò che non si ricorda, a tanto oltraggio; cioè a tanto soperchio. Et adduce una similitudine, dicendo: Qual è colui; cioè alcuno omo, che; cioè lo quale, sognando vede; cioè alcuna cosa, Che; cioè per sì fatto modo, dopo ’l sogno; cioè ch’elli àe fatto, la passione impressa; cioè la paura, o l’allegrezza, o lo dolore messo nella sua fantasia, Rimane; cioè impressa nella fantasia, et altro non riede alla mente; se non quella passione, nulla altra cosa torna a la memoria, Cotal son io; cioè io Dante sono sì fatto, come colui che sogna. chè; cioè imperò che, quasi tutta cessa Mia visione: imperò che di quella a pena mi ricorda 7, se non d’alcuna piccola particella, et ancor mi distilla Nel cuor; cioè mi viene nel cuore, il dolce; cioè la dolcezza e lo diletto, che nacque da essa; cioè dalla detta visione: che differenzia sia tra le cinque spezie de’ sogni altro’ è stato detto, e quine apparrebbe perchè l’autore chiama questa visione. Così la nieve; ecco che arreca un’altra similitudine, dicendo che Cosi la nieve al Sol; cioè a lo caldo del Sole, si dissigilla; cioè si disfà, come si disfece la mia visione, Cosi al vento; ecco che arreca un’altra similitudine, che pone Virgilio nel v de la sua Eneida, fingendo che ’l re Eleno troiano dicesse ad Enea ch’elli troverebbe in Italia una donna nel tempio d’Apolline, che si chiamava Sibilla, che dava risposta delle future cose, e chiamavasi Sibilla cumana, perchè era presso a la città chiamata Cume e stava nell’antro, dove era lo spirito che li dava a sapere le future cose; e quando era dimandata, dava le risposte in versi e scriveva li versi in su le follie de la palma, in ciascuna uno verso, e poneale in su l’uscio de l’antro, ordinatamente l’una dopo l’altra; e come a li usci sempre venteggia, venia lo vento e dava ne le follie e spargevale qua e là, e così si perdea la sentenzia di quelli versi, perchè non era nessuno che li sapesse recare ne l’ordine ch’ella li avea posti, e così si partiano senza risposta. E però Eleno consigliò Enea che la pregasse ch’ella li desse risposto 8 con voce e non con versi, e così fece; e però facendo similitudine l’autore, dice: Così al vento; ciò che facea l’antro di Sibilla, ne le follie levi; cioè de la palma, che erano poste in su l’uscio et eranovi scritti li versi, e perchè erano leggeri lo vento le facea volare, e turbavasi l’ordine de’ versi, sicchè non si potevano intendere poi, e però dice: Si perdea la sentenzia di Sibilla; come si perdeva in me la mia visione. Di queste Sibille è stato detto di sopra in altro luogo, e però qui non replico; e però chi ne vuole sapere, cerchi a drieto quine, dove si tratta ciò, nel canto de la prima cantica. Seguita.
C. XXXIII— v. 67-81. In questi cinque ternari lo nostro autore finge com’elli fece orazione a Dio, e pregollo che alquanto li prestasse di poter dire di lui; e come ebbe grazia di potere ragguardare nel raggio divino, dicendo così: O somma luce; cioè o Iddio, che se’ somma luce sopra tutte le luci, che tanto ti levi; cioè la quale luce tanto levi te in alto, Da’ concetti mortali; cioè da’ pensieri delli omini che sono mortali, che nessuno può adiungere col suo pensieri a te, a la mia mente; cioè a la mia memoria, Ripresta; cioè un’altra volta presta e concede, cioè a vale, che l’òne a scrivere come mel prestasti, quando addimandai, un poco; cioè alcuna particella, non tutto, di quel che parevi; cioè di quello che parevi a me, quando ti viddi, E fa la lingua mia; cioè tu, Iddio, fa la mia lingua di me Dante, tanto possente; cioè ch’ella possa tanto, Ch’una favilla; cioè alcuna particella: come la favilla è piccola parte del fuoco; così una piccola notizia de la tua grandissima e smisurata luce, sol; cioè solamente, de la tua gloria; cioè della tua beatitudine, Possa lassare; cioè io Dante, a la futura gente; cioè a la gente che debbe venire, che leggerà questa mia comedia. Chè; cioè: imperò che, per tornar alquanto a mia memoria; cioè se io tornerò un poco a la memoria di quello, che io viddi della tua gloria, E per sonar un poco; cioè per cantare colle mie parole, in questi versi; cioè in questi miei versetti, che sono in questi ternari, Più si conceperà di tua vittoria; cioè più s’intenderà da’ lettori e da l’ intelletti umani, di tua vittoria; cioè della vittoria, che ebbe lo Verbo Incarnato contra lo dimonio, che lo sconfìsse in sul legno de la croce, e tolseli la preda de’ santi Padri, che avea imprigionati nel limbo. E fatto l’orazione, ritorna a parlare della materia sua, dicendo: Io; cioè Dante, credo, per l’acume; cioè per la sottigliezza et eccellenzia, ch’io soffersi Del vivo raggio; cioè che usciva de la Divinità, ch’io; cioè lo quale io Dante, saria smarrito; cioè sarei uscito di me, Se li occhi miei; secondo la lettera, corporali; secondo l’allegoria, la ragione e lo intelletto di me Dante, da lui; cioè al detto raggio, fusser aversi; cioè si fusseno partiti e cessati da esso. Lo contrario opera la luce divina a quello che opera la luce del mondo: la luce del mondo, quando avanza la potenzia sensitiva, corrompe lo senso; ma la luce divina, quanto più cresce nell’anima umana, tanto più cresce lo cognoscimento e lo diletto: e diventa l’anima umana più utile 9 a contemplare Iddio, quanto più 10 vi sta e quanto più v’entra. Ei mi ricorda; cioè e’ ricorda a me Dante, ch’io; cioè che io Dante, fui più ardito Per questo; cioè, perch’io avea sofferto l’acume della divina luce, io fui più ardito, a sostener; cioè essa luce divina, ch’io non sarei stato, tanto ch’io iunsi L’aspetto mio; cioè lo vedere di me Dante, col valore infinito; cioè co la Divinità, che è valore senza fine. Ciascuna santa anima, che contempla Iddio, adiunge a Dio, secondo la sua facultà del comprendere: imperò che ogni cosa, che cognosce, cognosce secondo la sua facultà, e non secondo la facultà de la cosa cogniusciuta; e però Iddio, secondo sè, è incomprensibile; ma ciascuna mente ne cognosce tanto quanto può, sicch’ella rimane contenta. E questo volse dire l’autore ne le precedenti parole.
C. XXXIII — v. 82-99 In questi sei ternari lo nostro autore finge come elli, vedendosi tanto inalzato, esclamò a Dio; e com’elli dopo questo vidde in Dio ciò che è nel mondo, dicendo ancora quello che non potè vedere. Dice così: O abundante grazia; quasi dica: O quanto è abondante la grazia d’Iddio a chi la dimanda, ond’io; cioè per la quale io Dante, presunsi; cioè presi ardire, Ficcar lo viso; cioè mio di me Dante, cioè lo intelletto mio, Per la luce eterna; cioè per la Divinità, Tanto, che la veduta; cioè la vista mia intellettuale, s’intende secondo l’allegoria, vi consunsi; cioè vi consummai in essa imperò che tanto n’appresi, quanto era licito a me, e quanto era la facultà del mio cognoscimento! Nel suo profondo; ecco che dice com’elli vidde ne la profundità de la Divinità, cioè nell’altezza d’Iddio, viddi; cioè io Dante, che s’interna; cioè lo quale profondo è Trinità, cioè tre persone in una sustanzia, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, viddi io Dante, Legato con amore in un volume; cioè coniunto con amore in uno libro, cioè in Dio, cioè nella sapienzia sua, che è lo Figliuolo, Ciò, che per l’universo; cioè, che per tutto il mondo, si squaterna; cioè divisamente si fa: imperò che in Dio sono tutte le cose che si fanno, siccome nella prima cagione che provede ogni cosa. Sustanzie et accidenti; ciò, che è nel mondo, è sustanzia o accidente, e lor costume; cioè e le loro operazioni naturali, Tutti conflati insieme; cioè tutti coniunti insieme, per tal modo; cioè per sì fatto modo li viddi coniunti insieme in Dio, Che ciò, ch’io; cioè Dante, dico; di questo, è un semplici 11 lume; cioè erano per sì fatto modo in Dio, che erano una cosa semplici e non compiuta: imperò che in Dio non può essere alcuna cosa composta e per questo vuole dire ch’elli vidde in Dio l’idea 12 di tutte le cose; et è idea l’esemplare imagine di tutte le cose, benchè Aristotile disse essere idea la intesa similitudine di tutte le cose, tra sè differenti. La forma universal di questo nodo; cioè la forma d’ogni cosa, che è nodo fermo che tiene ogni cosa nel suo essere, e questo è Iddio, Credo ch’io viddi; cioè io Dante, dice l’autore; et assegna la cagione de la sua credenzia, perchè; cioè imperò che, Dicendo questo; cioè ch’io la viddi, mi sento ch’io godo più di largo; ch’io non faceva prima. Non può l’animo pensare d’Iddio, ch’elli non goda largamente, e così parlandone; e questa mia visione, che io ebbi d’Iddio, sempre fe me allegro e di quello sapere mi vorrei arricordare; e però dice: Un punto solo; cioè di quella beatifica visione che io ebbi di Dio. et è punto la sessagesima parte d’una ora, m’è maggior letargo; cioè maggiore dimenticagione è a me Dante e più noiosa, e più me ne duole, Che venticinque seculi; cioè che non sarebbono stati 25 seculi: seculo è tempo d’anni cento, dunqua 25 seculi, sarebbono 2500 anni, sicchè vuole dire che solo un punto, che sia dimenticato da lui la detta visione, li è maggiore oblivione che non sarebbono stati 2500 anni, a l’impresa; cioè a la disposizione, Che fe Nettunno a mirar l’ombra d’Argo; cioè lo Iddio del mare così chiamato, che si dispuose e fece impresa di mirare l’ombra de la prima nave che entrò in Grecia, che fu chiamata Argo, e perdettevi molto tempo. Fingeno li Poeti che Nettunno, iddio del mare, vedendo la terra abitata dalli omini, ebbe desiderio di vedere abitato lo mare, che era lo suo regno, dalli omini, com’elli vedea abitata la terra; e però fu fatta in Grecia la prima nave, che si chiamò Argo; e, varata in mare, iddio Nettunno n’ebbe grande allegrezza, et andò per vederla. Quando elli la vidde da lunga, pur dall’uno lato, unde la detta nave facea ombra, o vedendo sotto l’acqua la sua ombra, parveli sì grande cosa, e piacqueli tanto questa nave, ch’elli stette molto tempo a ragguardalla 13, e quanto più vi stava, più liene crescea la voglia di starvi: imperò che stava in allegrezza, vedendo che vi fusse; unde immobile et attento stava per vederla, et in questo perdette molto tempo: imperò che quanto più la vedeva, più li cresceva la vollia di vederla, come se mai non l’avesse veduta. E però bene dice l’autore che a lui è maggior noia e più increscevile la dimenticagione d’avere veduto Dio, che tanto lo rallegrava, durasse pure un punto ch’elli non si ricordasse de la visione beatifica, che non sarebbono stati 2500 anni che Nettunno fusse stato senza vedere l’ombra di quella nave, che fu chiamata Argo, e ricordarsi della sua ombra, a la quale stette molto tempo, non avvedendosi del tempo ch’elli stava per allegrezza, ch’elli n’avea, se tanto vi fusse stato. Fingeno li Poeti che, quando la detta nave si varò in mare, la terra n’ebbe dolore, vedendo che era cagione che la terra s’abbandonasse dalli omini, et abitassesi lo mare, e però mandò li scolli simplegadi 14 che la tenessono; ma giungendo pure la poppa di rieto liel tolseno, la quale li Dii, per prego di Nettunno, portorno in cielo e fecerne segno celeste, che si chiama Puppis, e che Nettunno stesse molto tempo a vederla per allegrezza che n’avea. Così. Ora adatta la similitudine in altra parte; prima àe posto la comparazione del tempo d’uno punto ad anni 2500, ne la fizione poetica detta di sopra, et ora fa similitudine del suo ragguardare la Divinità al ragguardare Nettunno l’ombra de la nave, dicendo: Così la mente mia; cioè per sì fatto modo la mente di me Dante, tutta sospesa; cioè levata dal desiderio di vedere la Divinità, come la mente di Nettunno a vedere Argo, Mirava fissa; cioè fermata senza di vertere 15 lo intelletto ad altre cose, immobile; cioè non mutevile da quello, cioè senza mutarsi dal luogo, et attenta; cioè sollicita di bene ragguardare: chi vuole bene vedere alcuna cosa, debbe avere queste 3 condizioni; cioè che stia attento, immobile e fisso: imperò che, se lo intelletto dentro non stesse attento a quello che l’occhio vede, invano vedrebbe; e se lo intelletto stesse attento, et ora si mutasse ad una cosa, ora ad un’altra, non comprenderebbe pienamente; e se in quello, che vuole apprendere, non vi sta fermo per spazio, non può anco avere sua perfezione; e però l’autore puose quelli tre adiettivi, per mostrare che la mente sua facea bene, come colui che vuole perfettamente comprendere. E sempre di mirar; cioè la Divinità, faceasi accesa; cioè la mia mente sempre diventava più ardente di considerare e cognoscere Iddio: quanto più l’uomo contempla a Iddio, tanto più cresce l’ardore di contemplarlo.
C. XXXIII — v. 100-114. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, continuando la sua materia, elli conferma quello che avea detto, e scusasi di 16 poter parlare a pieno de la Divinità, dicendo così: A quella luce; cioè divina, de la quale òe detto, cotal si diventa; quale io dissi di sopra, cioè che la mente mia era tutta inalzata e Mirava fissa et immobile et attenta la Divinità, e sempre in lei cresceva l’ardore di mirare a quella. Chè; cioè imperò che, volgersi da lei; cioè da essa luce divina, per altro aspetto; cioè per altro ragguardamento. cioè per ragguardare altra cosa, E impossibil che mai si consenta: non può la voluntà umana non volere lo sommo bene, quando li è mostrato; e però non si può volgere da esso per altro bene. E l’autore nostro assegna la cagione, dicendo: Però; cioè imperò, che l’ ben; cioè sommo, che è Iddio, che; cioè lo quale bene sommo, è obietto del voler: la voluntà umana àe per suo obietto lo sommo bene: imperò che non può volere se non quello, se non quando ella è ingannata, parendoli sommo bene quello che non è, Tutto s’accollie in lei; cioè ne la luce divina, e fuor di quella; cioè di quella luce divina, È defettivo ciò che è lì perfetto; cioè è bene imperfetto ogni bene, che in Dio è perfetto; e però dice: È defettivo ciò; cioè ogni bene, che; cioè lo quale, è lì; in essa luce divina, perfetto. Omai; cioè oggimai, serà più corta mia favella; cioè lo parlare di me Dante sarà più corto et 17 indeficiente, Pur a quel, ch’io ricordo; cioè non dico per rispetto di quel, ch’io mi ricordo; ma eziandio di quello, ch’io non 18 mi ricordo della Divinità, che d’un fante; cioè d’un fanciullo, Ch’ancor; cioè lo quale ancora, bagni la lingua; cioè sua, a la mammella; cioè a la puppa della sua nutrice, cioè che bea 19 ancora la puppa. Non perchè più ch’un simplici sembiante Fusse nel vivo lume; cioè non sarà corta la mia favella, perchè in Dio fusseno molte apparenzie; ma era lo contrario, che in lui è unità e simplicità; e però dice: Non sarà corta la mia favella, perchè più apparenzie e similitudini fusseno in lui, che in lui non era, se none una semplici apparenzia, ch’io; cioè lo quale vivo lume io Dante, mirava; cioè che io ragguardava, Che; cioè lo quale lume, tale è sempre: imperò che mai non si muta, qual s’era davante; cioè quale elli era innanzi, cioè inanzi a tutte le cose: imperò che Iddio sempre fu, è e sarà uno 20 medesimo semplice, Ma per la vista; cioè ma per la veduta mia, che s’avvalorava; cioè la quale prendeva valore e crescea, In me; cioè in me Dante, guardando; cioè avvisando in essa luce divina, una sola parvenza; cioè una sola apparenzia de la detta luce divina, che una, semplice e sola mi si mostrava, Mutando me; cioè mutando me Dante, donandomi sempre più grazia l’una volta che l’altra, a me si travalliava; cioè si mutava, quanto al cospetto mio; ma non quanto a l’essere suo, che è sempre immutabile. Seguita.
C. XXXIII — v. 115-132. In questi sei ternari l’autore nostro dichiara quello, ch’elli finge avere veduto de la Divinità ne la sua visione, dicendo: Ne la profonda e chiara sussistenza; cioè nell’alta e chiara sustanzia, Dell’alta luce; cioè divina, che è alta sopra tutte le luci, parvermi; cioè parveno a me Dante, tre giri; cioè tre persone: in giri li figura, a dimostrare la loro eternità: imperò che, come nel giro non è principio, nè fine; così ne le tre persone de la Divinità, Di tre colori; cioè di tre apparenzie ne la nominazione, cioè Padre, Figliuolo e Spirito Santo, e d’una continenza: imperò che eterno è lo Padre, eterno è lo Figliuolo et eterno è lo Spirito Santo, e così immenso, e così dell’altre adiettivazioni: ben sono adiettivazioni, che si convegnano pure ad una persona e non all’altre, come la nominazione lo Padre, si dice pure generatore e lo Figliuolo generato, e non lo Spirito Santo; e così lo Figliuolo incarnato, e non lo Padre, nè lo Spirito Santo, benchè tutti e tre sono una sustanzia. una Deità. E l’un; cioè lo Figliuolo, Parea reflesso dall’altro; cioè come per reflessione generato dall’altro, cioè lo Figliuolo dal Padre: imperò che solo lo Padre è generatore, e lo Figliuolo generato, come Iri 21 da Iri; arreca la similitudine, cioè che, come l’uno arco, che appare ne le nube, è cagione che per reflessione dei suoi colori ne le nube avverse, si generi l’altro; così lo Padre è cagione de la generazione del Figliuolo, sicchè lo Figliuolo si dice generato, e lo Padre generante, e ’l terzo; cioè lo Spirito Santo, parea foco: imperò ch’elli è l’amore, che l’uno e l’altro eternalmente spira, cioè lo Padre e lo Figliuolo ab eterno spira lo Spirito Santo, lo quale procede dal Padre e dal Figliuolo, Che; cioè lo quale, quinci; cioè dal Padre, e quindi; cioè dal Figliuolo, equalmente spiri; cioè equalmente proceda. Oh come è corto ’l dire; ora esclama l’autore, dimostrando che non si possa dire a pieno, nè a sufficienzia de la Trinità, dicendo: Oh; questo Oh è interiezione esclamativa o vero ammirativa, come è corto lo dire di questa Trinità, anco cortissimo che non si può tanto, quanto ella è, e come è fioco; cioè e come è non intelligibile, Al mio concetto; cioè appresso quello, che io òne nel mio concetto! Imperò che, come dice santo Augustino: Deus verius cogitatur, quam dicatur; et verius est quam cogitetur. Ideo non est pars parvae notitiae, si unquam possimus scire quod sit Deus, possimus scire quid non sit. — , e questo; cioè lo dire mio d’Iddio, secondo lo mio concetto. O volliamo dire: e questo; cioè lo mio concetto, che io òne d’Iddio, È tanto; cioè è sì grande, a quel, ch’io vidi; per rispetto di quello, che io viddi: imperò che lo concetto fu maggiore chce la vista e la vista anco fu maggiore che possa essere lo mio dire, che non basta a dicer poco: imperò che se ne vorrebbe dire assai e non si può. E però esclama l’autore a Dio, dicendo: O somma luce: imperò ch’elli è luce sopra ogni luce, che sola in te sidi 22; cioè la quale sola stai in te medesimo, Sola te ’n tendi; cioè tu sola luce intendi te medesimo tutto, e da te; cioè da te medesima luce, intelletta; cioè intesa tutta, Et intendente te; cioè te medesima tutta, a me arridi; cioè a me Dante fai festa e grazia, dandomi ad intendere alcuna particella di te, Questa circulazion; de’ detti tre giri, che sì concetta; cioè per sì fatto modo conceputa, Pareva in te; cioè in te luce, alquanto circuspetta; cioè un pocolino veduta intorno, Dalli occhi miei; cioè da la ragione e da lo intelletto di me Dante, come lume reflesso; cioè come lume ripiegato in tre giri, come detto è, Dentro da sè; cioè dentro da la sua essenzia, del suo fulgore stesso; cioè del suo medesimo splendore, Parea pinta; cioè figurata, de la nostra effige; cioè della nostra figura, Per che ’l mio viso; cioè per la qual cosa, cioè per la qual dipintura e figurazione de la nostra umanità lo mio vedere, in lei; cioè ne la detta nostra figurazione, tutt’era messo; cioè tutto lo mio sguardo era messo a guardare l’umanità di Cristo. Così fa la mente devota, quando contemplando la Divinità, non vi può intrare, ella si mette a contemplare l’umanità del nostro Salvatore che è in essa. Seguita.
C. XXXIII — v. 133-145. In questi quattro ternari et uno versetto lo nostro autore finge com’elli volse vedere come l’umanità si coniunse co la Divinità; ma lo suo intendimento non fu di tanto; ma ben dice che li sopravenne grazia, co la quale ebbe suo desiderio; ma elli si scusa che la fantasia sua nol potè ritenere, sicchè ’l potesse dire, o scrivere, e così conchiude che finisce lo suo poema, dicendo così: Qual è ’l geometra; ecco che fa una similitudine per relazione, dicendo che tale era elli, quale è lo geometra: geometra è l’artefice ammaestrato de la Geometria, che è scienzia di misurare la terra, e l’altre cose mensurabili. che; cioè lo quale geometra, tutto s’affige 23 Per misurar lo cerchio; lo quale elli è disposto a misurare, e non ritrova, Pensando; cioè col suo pensieri, quel principio; che egli pigli a la sua misura, ond’elli; cioè della quale elli, indige 24; cioè a bisogno, per volere misurare, Tal era io; cioè io Dante era tale, quale è el geometra, del quale è stato detto, a quella vista nova; cioè a quella nuova imagine, che io aveva veduta ne’giri de la luce de la Divinità. Saper voleva; cioè io Dante, come si convenne L’imago; cioè l’imagine dell’umanità di Cristo, che io viddi, al cerchio; come si convenne al cerchio secondo de la Divinità, che è lo Figliuolo; come fu fatta tale coniunzione de l’umanità co la Divinità del Verbo, e come vi s’indova; cioè e come vi s’acconcia la detta umanità ne la Divinità; com’ella v’è locata; indovare è verbo formato da questo vocabulo dove, che è uno de’ 10 predicamene in Dialettica. Grandissima cosa è tale coniunzione di due cose così differenti, cioè Creatore con creatura, Iddio et omo eterno col temporale e mortale, e così dell’altre differenzie che si possano dire. E però dice: Ma non eran da ciò; cioè di poter sapere quello, che detto è, le proprie penne; ciò la mia virtù dello intendere; ma dice in plurali, e perciò si può dire le mie scienzie acquistate per dottrina. Se non; ecco che pone l’eccezione dopo la parola precedente, cioè che la sua scienzia e potenzia intellettiva non era da tanto, ch’elli potesse vedere tale coniunzione in che modo fusse fatta, se non che per grazia divina, che venne in lui, li fu mostrato; e però dice: Se non che la mia mente; cioè di me Dante, fu percossa Da un fulgore; cioè da uno splendore, e questo fu avvenimento di nuova grazia, che lo illuminò di quello che volea sapere, in che; cioè nel qual fulgore, venne sua vollia; venne adimpiuta la volontà sua, cioè de la mia mente, et avea pensato di dirlo e scriverlo. Ma all’alta fantasia; la quale sopra ciò io avea, qui; cioè in questa parte, mancò possa; cioè di poterlo sì apprendere, che io lo potesse dire e scrivere. Ma già volgeva ’l mio disio; cioè ma già volgea lo mio desiderio, che io avea di scrivere e dirlo, e ’l velle; cioè e la mia voluntà, Siccome rota, che equalmente è mossa; cioè come si volge la rota, che è mossa parimente, non più ratto l’una volta che l’altra: la mente umana mossa da l’amore d’Iddio si muove equalmente a tutte le cose, accordando la sua voluntà co la voluntà d’Iddio; e però dice: L’Amor; cioè l’amore divino volgea lo mio desiderio e la mia voluntà, dice l’autore; e fa differenzia qui l’autore tra voluntà e desiderio, ponendo desiderio per lo confortamento de la voluntà, che seguita dopo lo primo atto de la voluntà; o volliamo dire che quella copula si pogna espositiva, cioè lo mio desiderio e lo mio velle; cioè lo mio volere, che; cioè lo quale amore, muove ’l Sole e l’altre stelle. Lo Spirito Santo è quello, che muove ogni cosa al suo volere e dovere: imperò che, come Creatore conserva le cose create nel suo essere, et in esse spira una inclinazione naturale, per la quale s’inclinano a seguitare l’opera sua naturale; e però lo Sole e le stelle sempre si muoveno secondo la inclinazione, che lo Spirito Santo àe spirato in loro naturalmente; e però disse lo Filosofo che Iddio muove, siccome amato, e così si debbe intendere de le intelligenzie poste a muoverli. E perchè dice l’altre stelle? Perch’è differenzia tra lo Sole e le stelle: debbesi intendere che muove lo Sole che è corpo celeste, e li altri corpi celesti che sono stelle. Amen, Deo gratias.
Qui finisce lo canto xxxiii de la terza cantica de la comedia di Dante Allighieri, e la sua lettura 25 fatta per maestro Francesco di Bartolo da Buti, e compiuta lo di’ della festa di santo Bernardo 26 a di’ 11 di Giugno nel 1395 27, Indizione seconda; de la quale cosa io rendo devotamente, quanto più posso, a lo onnipotente Iddio Padre, Figliuolo e Spirito Santo, et a la gloriosa Vergine e Madre del nostro Signore Iesu Cristo Madonna Santa Maria et al prefato Apostolo et a la corte tutta di Paradiso, grazie immense e debite. Ai quali sia sempre onore e gloria per infinita saecula saeculorum. Amen, Amen, Amen.
Note
- ↑ C. M. cantica della Comedia di Dante et ultimo canto di tutto lo suo poema
- ↑ C. M. e compiesse questa
- ↑ Avale, avverbio che significa ora. E.
- ↑ Quantunque; quanto unque, adoperato come il neutro latino quìdquid; checchè. E.
- ↑ Supplicare, nel significato originale indica inchinare, piegare il ginocchio, far reverenza. E.
- ↑ Iniarsi, dal latino ineo. E.
- ↑ Mi ricorda. Pongano l’intelletto i giovani alla vaghezza di certe maniere ellittiche. La memoria o la mente mi ricorda. E.
- ↑ Risposto, risposta, come dimando, dimanda. E.
- ↑ C. M. più abile
- ↑ C. M. vi sta e persevera e tanto più
- ↑ Semplici; semplice a duplice desinenza, come parecchi aggettivi anche presso i Latini. E.
- ↑ Idea nasce dal verbo greco εἴδω; vedere, conoscere. E.
- ↑ Ragguardalla; ragguardarla. E.
- ↑ C. M. li scogli in mare che si chiamano simplegade perchè la rompesseno; ma non venne loro fatto se non alla parte di rieto, cioè alla poppa
- ↑ Divertere; divertire, piegato come i verbi della seconda coniugazione. E.
- ↑ C. M. scusasi che non può parlare
- ↑ C. M. più certo et insufficiente,
- ↑ C. M. ch’io non mi ricordasse bene della
- ↑ C. M. che bea ancora lo latte e succhi la puppola della sua nutrice.
- ↑ C. M. e sarà uno simplici,
- ↑ Iri, iride; arco baleno dall’Iris latino. E.
- ↑ Sidi; dimori, stai, ti fermi, dal latino sido, is. E.
- ↑ C. M. s’affige; cioè tutto si ferma, Per
- ↑ Indige, secondo l ’indigeo, es dei Latini. E.
- ↑ C. M. lettura edita e compiuta per me Francesco di Bartolo da Buti cittadino di Pisa, lo di’ della festa di santo Bartolommeo a di’ 11 di Giugno nel MCCCLXXXV; e poi ricorso per me qui nel 22 di Dicembre MCCCLXXXVII, Indizione V. E scritto fu questo libro per me Ioanni di .... di Nicolaio, anno MCCCC .... Della qual cosa rendo devotamente, quanto più posso, a l’onnipotente Dio Padre, Filliuolo e Spirito Santo et a tutta la corte di Paradiso, grazie divotissime per infinita saecula saeculorum. Amen
- ↑ Il codice reca san Bernardo; ma dev’essere san Barnaba. E.
- ↑ Qualche anno impiegò il Da Buti nel compilare il suo Commento, perchè a pag. 463, v. 7 di questo Tomo à detto «benchè corra 1393 dalla incarnazione» il che rafferma quello che dicemmo in fine del Tomo primo che la data MDCCCCVII avea relazione alla Copia di quel Tomo I.° del Commento: così l’altra del 1413 che leggesi in fine al Tomo secondo. E.