Commedia (Buti)/Paradiso/Canto XXII

Paradiso
Canto ventiduesimo

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C A N T O     XXII.





1Oppresso da stupore a la mia guida
     Mi volsi, come ’l parvol che ricorre1
     Sempre colà, dove più si confida.
4Ma quella, come madre che soccorre
     Subito al fillio pallido et anelo
     Co la sua voce che ’l suol ben disporre.
7Mi disse: Non sai tu che tu se’ ’n Cielo?
     E non sai tu che ’l Cielo è tutto santo,
     E ciò che ci si fa vien da buon zelo?
10Come t’avrebbe trasmutato ’l canto,
     Et io ridendo, mo pensar lo puoi,
     Poscia che ’l grido t’ à mosso cotanto?
13Nel qual se ’nteso avessi i prieghi suoi,
     Già ti sarebbe nota la vendetta,
     Che tu vedrai inanti che tu muoi.2
16La spada di quassù non taglia in fretta,
     Nè tardo; ma ch’al parer di colui,3
     Che disiando, o temendo l’aspetta.
19Ma rivolgeti ormai in verso altrui:
     Ch’assai illustri spiriti vedrai,
     Se, come dico, l’aspetto redui.4

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22Come a lei piacque, li occhi dirizzai,5
     E viddi cento sperule, che ’nsieme
     Più s’abbellivan con mutui rai.
25Io stava come quei, che ’n sè ripreme
     La punta del disio, e non s’attenta
     Di dimandar: sì del troppo si teme.
28E la maggiore e la più luculenta
     Di quelle margarite inanti fessi,
     Per far di sè la mia vollia contenta,
31Poi dentro a lei udi’: Se tu vedessi,
     Com’io, la carità che tra noi arde,
     Li tuoi concetti sarebber espressi.
34Ma perchè tu, aspettando, non tarde
     All’alto fine, io ti farò risposta
     Pur al pensier di che sì ti riguarde.6
37Quel monte, a cui Casino è nella costa,
     Fu frequentato già in su la cima
     Da la gente ingannata e mal disposta.
40E quel son io che su vi portai prima7
     Lo nome di Colui, che ’n terra addusse
     La verità che tanto ci soblima.
43E tanta grazia sovra me rilusse,8
     Ch’io ritrassi le ville circustanti
     Dall’empio culto che il mondo sedusse.
46Questi altri fochi, tutti contemplanti,
     Uomini furno, accesi di quel caldo
     Che fa nascere i fiori e i frutti santi.
49Qui è Maccario, qui è Romualdo,
     Qui son li frati miei, che dentro ai chiostri
     Fermaro i piedi e tenner il cuor saldo.

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52Et io a lui: L’affetto, che dimostri
     Meco parlando, e la buona sembianza,
     Ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri.
55Così à dilatata mia fidanza,9
     Come ’l Sol fa la rosa, quando aperta
     Tanto divien, quant’ell’à di possanza.
58Però ti prego: e tu, padre, m’accerta
     S’io posso prender tanta grazia, ch’io
     Ti veggia con imagine scoperta.
61Ond’elli: Frate, il tuo caldo disio10
     S’adempierà in su l’ultima spera,
     Ove s’adempien tutti li altri e ’l mio.
64Ivi è perfetta natura, et intera11
     Ciascuna disianza: in quella sola
     E ogni parte là, dove sempre era:
67Perchè non è in loco, e non s’impola,
     E nostra scala infin ad essa varca;
     Onde così dal viso ti s’invola.
70Insin lassù la vidde il patriarca
     Iacob porger la superna parte,
     Quando li apparve d’Angeli sì carca.
73Ma per salirla mo nessun diparte
     Da terra i piedi; e la regola mia
     Rimasa è giù in danno de le carte.
76Le mura, che solcano esser badia,
     Fatte sono spilonche, e le cucolle12
     Sacca son piene di farina ria.
79Ma tanto usura grave non si tolle
     Contra ’l piacer d’Iddio, quant’è quel frutto,
     Che fa il cuor de’ monaci sì folle.

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82Chè quantunche la Chiesa guarda, tutto
     È de la gente che per Dio dimanda,
     Non de’ parenti, nè d’altro più brutto.
85La carne dei mortali è tanto blanda,
     Che giù non basta buon cominciamento
     Dal nascer de la quercia al far la ghianda.
88Pier cominciò senza oro e senza argento,
     Et io con orazioni e con digiuno,
     E Francesco umilmente il suo convento.13
91E, se guardi al principio di ciascuno,
     Poscia riguardi laddov’è trascorso,
     Tu lì vedrai del bianco fatto bruno.
94Veramente lordan volt’è retroso:
     Più fu lo mar fuggir, quando Iddio volse,
     Mirabil a veder, che quel soccorso.14
97Così mi disse, et indi si ricolse
     Al suo collegio, e ’l collegio si strinse;
     Poi come turbo in sè tutto s’accolse.
100La dolce donna dietro a lor mi pinse
     Con un sol cenno su per quella scala:
     Sì sua virtù la mia natura vinse.
103Nè mai quaggiù, dove si monta e cala,
     Naturalmente fu sì ratto moto,
     Ch’agguagliar si potesse a la mia ala.
106S’io torni mai, Lettor, a quel devoto
     Triunfo, per lo qual io piango spesso
     Le mie peccata, e ’l petto mi perquoto,
109Tu non avresti in tanto tratto e messo
     Nel fuoco il dito, in quanto viddi il segno,
     Che segue ’l Tauro, e fui dentro da esso

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112O gloriose stelle, o lume pregno
     Di gran virtù, dal quale io ricognosco
     Tutto, qual che si sia, il mio ingegno;
115Con voi nasceva, e s’ascondeva vosco
     Colui, che è padre d’ogni mortal vita,
     Quand’io senti’ da prima l’aire tosco.
118E poi, quando mi fu grazia largita
     D’entrar nell’alta rota che vi gira,
     La vostra region mi fu sortita.
121A voi devotamente ora sospira
     L’anima mia, per acquistar virtute
     Al passo forte che a sè la tira.
124Tu se’ sì presso all’ultima salute,
     Cominciò Beatrice, che tu dei
     Aver le luci tuoe chiare et acute;
127E però, prima che tu più t’illei,15
     Rimira in giù, e vedi quanto mondo
     Sotto li piedi già esser ti fei;
130Sicchè ’l tuo cuore, quantunche giocondo,
     S’appresenti a la turba triunfante,
     Che lieta vien per questo etere tondo.
133Col viso ritornai per tutte quante
     Le sette spere, e viddi questo globo
     Tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante.
136E quel consillio per miglior approbo16
     Che l’ à per meno; e chi ad altro pensa
     Chiamar si puote veramente probo.

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139Vidi la fillia di Latona incensa
     Senza quell’ombre, che mi fur cagione,17
     Per che io già la credetti rara e densa.
142L’aspetto del tuo nato, o Iperione,
     Quivi sostenni, e viddi com’ si move
     Circa, e vicino a lui Maia e Dione.
145Quindi m’apparse il temperar di Iove18
     Tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro
     Il variar che fanno di lor dove.
148E tutti e sette mi si dimostraro
     Come son grandi, e come son veloci,
     E come sono in distante riparo.
151L’aiuola, che ci fa tanto feroci,19
     Volgendom’io co li eterni Gemelli,
     Tutta m’apparve dal colle a le foci;20
154Poscia rivolsi li occhi alli occhi belli.

  1. v. 2. C. A. come parvol
  2. v. 15. Muoi; muoia, muora, dicesi indifferentemente. E.
  3. v. 17. C. A. Nè tarda mai che
  4. v. 21. Redui, da reduere o reduire, e codesti dal latino reducere. E.
  5. v. 22. C. A. gli occhi ritornai,
  6. v. 36. C. A. da che si
  7. v. 40. C. A. vi portò prima
  8. v. 43. C. A. relusse,
  9. v. 55 A. Così mi à dilatata
  10. v. 61. C. A. tuo alto
  11. v. 64 C. A. Quivi è perfetta, matura ed
  12. v. 77. C.A. cocolle
  13. v. 90. C. A. umilmente suo
  14. v. 96. C. A. che qui il
  15. v. 127. C. A. t’indei,
  16. v. 136. Approbo; approvo, alla maniera latina come venne pure adoperato da Fazio degli liberti, lib. ii, cap. x, «Costui per pro e per securo approbo».
  17. v. 140. C. M. C. A. quell’ombra che mi fu
  18. v. 145. C. A. apparve
  19. v. 151. Il Cod. Palatino publicato ed illustrato dal ch. cav. Palermo ne porge la variante: La mola, che ci fa tanto feroci. E.
  20. v. 153. C. A. da’ colli alle




C O M M E N T O


Oppresso da stupore ec. Questo è Io xxii, nel quale l’autore finge come li apparve santo Benedetto e parlamentò con lui; e come si trovò subitamente montato per la scala sopradetta nel segno di Gemini che è nell’ottava spera; e come fece invocazione ad esso; e come, ragguardando in giù, vidde tutti li pianeti che aveva passati e la spera della terra di vile condizione, in tanto ch’elli commenda chi la sa dispregiare. E però divide questo canto principalmente in due parti: imperò che prima finge come Beatrice li dichiarò che fusse lo grande suono che uditte, e come li apparve santo Benedetto e manifestòli la sua condizione, e come li dimandoe grazia di vederlo ne la sua essenzia, e come santo Benedetto li risponde a la sua dimanda; nella seconda finge che, non finita ancora la sua [p. 618 modifica]diciaria. l’incomincioe a contare della lentezza che è venuta nei monaci e ne’religiosi del mondo a fare bene, diventati tutti carnali dove solevano essere spirituali, e come gravemente li minacciò de l’iudicio d’Iddio, e come Beatrice l’accennò che montasse su per la scala predetta, e come si trovà 1 nell’ottava spera in Gemini e come a lui fece invocazione, e come per eonsillio di Beatrice si rivolse in giù e vidde tutti li pianeti ch’aveva passati e la terra che aveva lasciata, et incominciasi quine: Ma per salirla mo ec. La prima, che sarà la prima lezione, si divide tutta in cinque parti: imperò che prima finge come, meravigliandosi del suono predetto ricorse a Beatrice come fa lo figliuolo a la madre, e come Beatrice lo conforta e dichiaràlo di quel suono et ammonittelo che riguardasse a li spiriti che vedeva venire verso loro; nella seconda finge come uno di quelli spiriti, stando elli stupido a ragguardarli, l’incominciò a parlare,et incominciasi quine: Come a lei piacque ec.; nella terzia finge come, continuando suo parlare, li manifestò per circustanzie come elli era santo Benedetto, e come convertitte Monte Casino e le circustanzie a la fede cristiana, et incominciasi quine: Quel monte ec.; nella quarta parte finge com’elli fece prego a san Benedetto di vederlo nella sua essenzia, et incominciasi quine: Et io a lui ec.; nella quinta parte finge come santo Benedetto li dichiara che ora nol può vedere; ma quando sarà suso nel cielo empireo lo vedrà, cioè al sommo de la scala per la quale montavano e scendevano li beati spiriti, et incominciasi quine: Ond’elli: Frate, il tuo caldo ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo colle sue esposizioni allegoriche e morali.

C. XXII — v. 1-21. In questi sette ternari lo nostro autore finge com’elli, meravigliatosi del suono predetto, ricorse a Beatrice per soccorso; e com’ella lo dichiarò, dicendo così: Oppresso; cioè aggravato, da stupore; cioè da meraviglia io Dante, a la mia guida; cioè Beatrice, mi volsi; cioè volsi me Dante; e fa la similitudine: come ’l parvol; cioè lo fanciullo, che ricorre Sempre colà; cioè a quello luogo et a quella persona, dove più si confida; cioè nel qual luogo, o nella qual persona, àe maggior fidanza; e così ricorsi io a Beatrice. Ma quella; cioè Beatrice, come madre che soccorre Subito; cioè subitamente senza indugio, al fillio pallido; cioè smorto per la paura, et anelo; cioè et angoscioso per lo battere del pulmone, Co la sua voce; dicendo: Che ài tu, figliuol mio? che ’l suol ben disporre; cioè la quale voce suole bene disponere lo suo figliuolo, io ricorsi a Beatrice come figliuolo a la madre, et ella mi soccorse come la [p. 619 modifica]madre soccorre lo figliuolo. Et ecco le parole che usò: Mi disse; cioè disse a me Dante Beatrice: Non sai tu che tu se’ ’n Cielo; quasi dicesse: Ài tu dimenticato che tu se’ in cielo? E non sai tu; cioè Dante, che ’l Cielo è tutto santo? Ben lo debbi sapere questo; e non sai tu, Dante, ancora questo? E ciò che ci si fa; cioè in cielo, vien da buon zelo; cioè da buono amore e desiderio di bene? Adunqua se tu ài a mente queste tre cose; cioè che tu se’ in cielo, e ch’ elli è tutto santo, e che ciò che ci si fa viene da buono amore e desiderio, come temi tu o ti meravigli tu, Dante? Queste sono tre cose che moralmente si debbono attendere in ogni cosa, cioè lo luogo, li abitatori e l’opere che nel luogo si fanno: imperò che queste danno e tolliono ogni sospetto. Lo luogo santo, li abitatori santi, l’opere piene tutte di carità tollieno ogni timore et ammirazione; e così per contrario lo luogo maladetto, li abitatori scelerati, l’opere viziosissime danno ragionevilmente timore e meraviglia. Et oltra lo dimanda: Come t’avrebbe trasmutato ’l canto; cioè come arebbe travallato 2 la tua mente lo canto che qui si fa, se tu lo potesse udire? Ma come fu detto di sopra, li orecchi di Dante, che erano mortali, non potevano comprendere si fatto canto, come 3 quine si fa; cioè sì alto, che l’orecchio corporale nollo comprende, come l’occhio mortale non comprende la letizia che in quello grado dei beati è, come fu detto di sopra. Et io; cioè Dante, ridendo; rispuosi a Beatrice: Mo pensar lo puoi; cioè avale lo puoi pensare, cioè tu, Beatrice, come m’arebbe mosso lo canto. Poscia che ’l grido t’à mosso cotanto; e qui ritorna anco al parlare Beatrice, poi che Dante intermisse quella risposta, dicendo: Poi che ’l grido à mosso te Dante tanto, quanto tu pari mosso, Nel qual; cioè canto, se ’nteso avessi iprieghi suoi; cioè se tu, Dante, avessi inteso; nel qual grido fatto dai beati spiriti li preghi che contenne quel grido, Già ti sarebbe nota la vendetta; cioè sarebbe manifestata a te Dante la vendetta, cioè de’prelati della santa Chiesa, dei quali è stato detto di sopra, Che tu vedrai inanti che tu muoi; ecco che finge l’autore che Beatrice dica che Dante debbe vedere la vendetta dei prelati della Chiesa innanzi che muoia, siccome vidde in papa Bonifazio del quale fu detto nella seconda cantica, e de’cardinali che 4 preseno li Pisani in mare, quando fu la discordia tra la Chiesa e lo imperadore Federigo (1241). La spada di quassù; questo è notabile. Finge l’autore che Beatrice dicesse: E’ ti pare troppo indugiare a vedere questa vendetta? Or sappi che La spada; cioè la iustizia punitiva, di [p. 620 modifica]quassù; cioè del cielo, cioè d’Iddio, non taglia in fretta; cioè non fa in fretta la sua esecuzione, Nè tardo; cioè nè non tallia tardamente, cioè nè non tarda la iustizia punitiva d’Iddio: imperò che Iddio ogni cosa fa a modo et a misura: non fa Iddio nè troppo tosto, nè troppo tardo li suoi fatti, ma ch’al parer di colui; cioè se no al parere di colui, Che disiando; cioè lo quale con desiderio, l’aspetta; cioè la divina iustizia, et a colui non può essere sì tosto, che nolli paia tarda, o temendo l’aspetta; cioè la divina iustizia, et al parere di colui che l’aspetta temendo, non sa tanto indugiare che nolli paia troppo tosto; sicchè due sono le condizioni delle persone a le quali la iustizia punitiva d’Iddio non pare che vegna a modo debito. L’una di coloro che la desiderano in altri, che per lo desiderio che n’ànno non viene sì tosto, che non paia loro che troppo indugi; l’altra è di coloro che la temano in sè, che per la paura che n’ànno non viene sì tardi, che non paia loro troppo tosto: e questo intende di quelli che sono nel mondo, che chi la desidera e chi la teme: desideranola li buoni e temenola li rei; o di quelli che sono nello inferno che la temano; li altri, cioè li beati e quelli che sono in grazia, stanno contenti a la voluntà d’Iddio. Et anco può essere che uno medesimo uomo alcuna volta la desideri, et alcuna volta la tema, secondo le condizioni sue con sè medesimo: imperò che, se l’omo è bene disposto, desidera d’essere tosto punito del suo peccato; e s’elli è male disposto, n’à paura. Et anco uno medesimo omo la desidera in altrui, e temela in sè. Ma rivolgeti; cioè tu, Dante, omai; cioè ingiummai, in verso altrui; ecco che Beatrice l’ammonisce che si rivolga a vedere li spiriti, che quine sono, Ch’assai; cioè imperò che assai, illustri spiriti; cioè chiari spiriti, vedrai; cioè tu, Dante, Se, come dico; cioè io Beatrice, l’aspetto redui; cioè riduci lo tuo sguardo in verso loro. Seguita.

C. XXII — v. 22-36. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, ammonito da Beatrice, si rivolse e vidde molti beati spiriti; e come uno di quelli l’incominciò a parlare, dicendo così: Come a lei; cioè a Beatrice, piacque; che di ciò m’ammonitte, li occhi; cioè miei, dirizzai; cioè in verso la parte dirieto. E per questo nota l’autore ch’elli dirizzò la ragione e lo intelletto suo a considerare quelli che erano stati contemplativi nel mondo, di che la santa Scrittura fa menzione; e questo fu lo guardare a drieto; cioè considerare quelli che erano passati contemplativi, degni d’essere fatto menzione di loro in questo luogo; e dice che questo fece per ammonizione di Beatrice: imperò che qui non nomina, se non di quelli che la santa Chiesa tiene che siano santi; e la santa Teologia ci ammonisce che debbiamo tenere quello, che santa Chiesa tiene. E viddi; [p. 621 modifica]cioè io Dante colli occhi della mente, secondo l’allegorico intelletto e secondo la verità, cento sperule; cioè cento beati spiriti che mi s’appresentavano come piccole spere luminose, che colli occhi corporali non si debbe intendere che li vedesse, che ’nsieme; cioè le quali insieme, Più s’abbellivan; cioè che ciascuna non era per sè bella, con mutui rai; cioè con avvicendevili raggi, che l’una gittava a l’altra; e per questo dimostra la carità che è tra li beati, la quale sempre cresce tra loro. Io; cioè Dante, stava come quei; cioè come colui, che ’n sè; cioè che in sè medesimo, ripreme; cioè ristringne, La punta del disio; cioè la sollicitudine del desiderio, che lo punge, e non s’attenta Di dimandar; cioè quello che desidera di sapere, sì del troppo si teme; cioè sì teme di dimandar troppo. E la maggiore e la più luculenta; cioè quella luce che era maggiore e più chiara, che l’altre luci, Di quelle margarite; cioè di quelle anime, che riluceno più che margarite, inanti fessi; cioè inverso me più, che l’altre, Per far di sè la mia vollia contenta; cioè per farmi contento, dice Dante, di quello ch’io desiderava di sapere da lei. Poi dentro a lei; cioè dentro 5 dalla luce, udì’; cioè parlare lo spirito beato, che di quella luce si fasciava, udi’; cioè io Dante dire a lui. Se tu vedessi, Com’io, la carità che tra noi arde; cioè se tu, Dante, vedessi, disse quello spirito, la carità che arde tra noi beati, come veggo io che sono beato, Li tuoi concetti sarebber espressi; cioè li tuoi pensieri sarebbono manifestati da te a noi, e non aresti lasciato per dubitanza di non addimandare troppo: imperò che aresti veduto che noi siamo sì desiderosi del bene del prossimo e sì contenti, che c’è diletto di poterlo fare contento. Ma perchè tu; ma acciò che tu, Dante, aspettando; cioè aspettando che io sodisfaccia al tuo desiderio, non tarde; cioè non indugi, All’alto fine; cioè di venire a Dio, che è l’alto fine a che tu vuoi venire e quine finire la tua comedia, che so che questo è lo tuo grande desiderio, io; cioè beato spirito, ti farò risposta; cioè a te Dante, Pur al pensier; cioè che tu ài di voler sapere, di che; cioè del qual pensieri, sì ti riguarde; cioè tu, Dante, di dimandare. Seguita.

C. XXII — v. 37-51. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come lo detto beato spirito, lo quale elli finge che fusse santo Benedetto trovatore e componitore della regula monacile 6 dell’ordine di Camalduli, dicendo così: Quel monte; questo è uno monte altissimo in Campagna, chiamato Casino per uno castello che è chiamato così, posto nella costa del monte; e però dice l’autore: a cui; cioè al quale monte, Casino è nella costa; cioè uno castello così chiamato, Fu frequentato; cioè usato, già in su la cima: imperò che [p. 622 modifica]v’era lo tempio d’Appolline, al quale andava la gente pagana a fare sacrificio et ad avere risposta delle cose che doveano venire imperò che li populi di Campagna erano infideli et adoravano l’iduli; e però dice l’autore: Da la gente ingannata; cioè da’dimoni che parlavano nell’iduli, e così ingannavano la gente e facevano 7 credere che fussono iddii, e mal disposta: imperò che erano disposti tutti al culto dell’iduli. E quel son io; cioè io spirito, che ti parlo, sono quello, che su vi portai prima; cioè in su quel monte, Lo nome di Colui; cioè di Iesu Cristo, che ’n terra addusse; cioè lo quale Cristo arrecò in terra, La verità; cioè della fede, che; cioè la quale verità, tanto ci soblima; cioè tanto c’innalza, che ci fa montare in cielo in vita eterna. Questo fu santo Benedetto, lo quale fu di Norcia, monaco di santa vita e poi abbate, e fece la regola dei monaci bianchi: prima fu eremita e poi fece più monasteri di monaci, et in monte Casino ne fece e quine abitò coi suoi monaci al tempo di Iustiniano imperadore ne li anni della incarnazione di Cristo 529. E convertitte tutte quelle terre a la fede, e fece cadere lo tempio d’Apolline per divino miraculo, e quine fece fare la chiesa a Dio vivo e vero; e però finge l’autore che dica le parole predette. E però dice ancora: E tanta grazia; cioè d’Iddio, sovra me; cioè Benedetto, rilusse; cioè risplendè, Ch’io ritrassi le ville circustanti; cioè al monte Cassino, Dall’empio culto; cioè dell’iduli, che; cioè lo qual culto dell’iduli, il mondo sedusse; cioè ingannò: imperò che grande tempo fu ingannato lo mondo dal culto dell’iduli. E, poi che àe detto di sè, finge che dica delli altri spiriti che erano con lui, dicendo: Questi altri fochi; cioè questi altri spiriti, che sono dentro a questi fuochi, tutti contemplanti Uomini furno; e questo finge l’autore che dica santo Benedetto, perch’elli fu contemplativo; et in quella spera, secondo sua fizione, si rappresentano li contemplativi, accesi di quel caldo; cioè dello amore d’Iddio, Che; cioè lo quale caldo, fa nascere i fiori e i frutti santi; cioè le parole sante e l’opere sante; imperò che dal caldo de l’amore divino viene lo bene dire e lo bene operare. Qui è Maccario; questo anco fu santo omo contemplativo. qui è Romualdo; questo anco fu santo omo contemplativo. Qui son; cioè in questo luogo si rappresentano, li frati miei; cioè li miei monaci santi e buoni e contemplativi, che dentro ai chiostri; cioè dentro a le clausure de’ monasteri, Fermaro i piedi; cioè le loro affezioni; e, quanto alla lettera, fermorno la loro abitazione, e tenner, cioè li detti miei frati, il cuor saldo; cioè lo suo proposito saldo e fermo: imperò che, come detto è, l’autore nostro finge che nel cielo di Saturno si rappresentino li contemplativi, perchè [p. 623 modifica]tale influenzia viene di quinde, come Iddio àe ordinato che tali, che nasceno sotto tale costellazione, siano atti ad essere solitari e contemplativi, come è stato detto di sopra, dove si disse delle significazioni di Saturno 8. E finge che questo li dica santo Benedetto, e che elli li manifesti: imperò che per lui venne in tale pensieri e considerazione. Seguita. C. XXII — v. 52-60. In questi tre ternari lo nostro autore finge com’elli dimandò santo Benedetto s’elli lo poteva vedere nella sua formale essenzia, senza la fascia dell’ardore e de la fiamma, dicendo così: Et io; cioè Dante dissi così, a lui; cioè a santo Benedetto: L’affetto; cioè la carità e l’amore, che dimostri; cioè la quale carità dimostri tu, beato spirito, Meco parlando; cioè con me Dante parlando, come è detto di sopra, e la buona sembianza; cioè la buona vista, Ch’io; cioè la quale io Dante, veggio e noto in tutti li ardor vostri; li quali sono qui con teco 9 e che io òne veduto nell’altre spere del cielo, Così à dilatata mia fidanza; cioè così àne ampliato la mia fede, Come ’l Sol fa la rosa; cioè come il Sole fa ampia la rosa col suo caldo; così voi co la vostra ardente carità, quando aperta Tanto divien; cioè la rosa, quant’ell’à di possanza; cioè quant’ella si può aprire. Ecco che fa la similitudine vera; cioè che, come lo caldo del Sole fa aprire la rosa, quanto aprire si può; così la vostra carità àe ampliato la mia fede e la mia credenza; cioè di potere essere dichiarato da te, se io posso avere tanto di grazia, che io vegga la tua imagine senza lo velame della luce. E però dice: Però ti prego; cioè te beato spirito, e tu, padre; cioè santo Benedetto, padre di tanti monaci, quanti ànno seguitato la tua regola, m’accerta; cioè fammi certo, S’io posso prender; cioè se io Dante posso avere, tanta grazia; cioè da Dio, ch’io; cioè che io Dante, Ti veggia; cioè vegga te, con imagine scoperta; cioè con imagine manifesta, e non velata da questa luce. Qui si può muovere dubbio, perchè lo nostro autore finge, perchè più qui che altrove li venisse questa vollia di vedere l’anime nella loro propria imagine. A che si può rispondere, perchè lo luogo ne fa cagione: imperò che, s’elli era sallito alla spera de’contemplativi, degno era ch’elli avesse più alti pensieri che per l’altre spere: imperò che li contemplativi pensano tutte l’alte cose d’Iddio, contemplando la creatura s’inalzano a contemplare lo creatore; e perchè l’anima umana è fatta a similitudine sua, però ànno desiderio li contemplativi di vedere l’essenzia dell’anima umana più che di niuna a|tra cosa creata; e però finse l’autore che tale pensieri li venisse in questo luogo. [p. 624 modifica]

C. XXII — v. 61-72. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come santo Benedetto rispuose a la sua dimanda, dicendo così Ond’elli; cioè per la qual cosa elli, cioè santo Benedetto per la mia dimanda mosso rispuose, s’intende: Frate; disse a Dante, chiamandolo fratello, che è nome di carità, il tuo caldo disio; cioè lo tuo acceso desiderio, S’adempierà; cioè sarà sazio, in su l’ultima spera; cioè di sopra a la nona et ultima spera, dove è lo cielo empireo e dove è la gloria de’beati: imperò che quine è Iddio, ove s’adempien tutti li altri; cioè desidèri, e quine sono sazi e quieti, e ’l mio: cioè 10 et anco lo mio desiderio s’adempie e sazia, finge che dicesse santo Benedetto. Ivi; cioè di sopra a la nona spera, è perfetta natura: imperò che quine è Iddio, che dà perfezione a la natura naturata umana et angelica, e però s’intende: Quine è perfetta la nostra natura umana, et intera; cioè e compiuta, Ciascuna disianza; cioè ciascuno desiderio umano, in quella sola; cioè sopra la nona spera, E ogni parte là, dove sempre era; cioè sopra la nona spera, che è lo primo mobile, è lo cielo empireo che è immobile; e però dice che ogni parte è dove era prima: però che non à movimento; et ora rende la cagione, dicendo: Perchè non è in loco; cioè lo cielo empireo non è locato in luogo alcuno, sicchè non è contenuto da luogo, come sono le nove spere, e non s’impola; cioè e non si ferma in su’ poli, come l’altre spere: imperò che la nona spera àe due poli; artico et antartico, e così poi l’altre. E nostra scala; cioè lo nostro ascendimento, infin ad essa varca; cioè infine la sopradetta nona spera. Onde così dal viso ti s’invola: imperò che da indi insù non la puoi vedere tu, Dante. Insin lassù; cioè infine al detto luogo, la vidde il patriarca Iacob porger la superna parte. E scritto nel Genesi, ca.° xxviii che, quando Isaac ebbe benedetto Iacob, li disse che egli andasse in Siria, in Mesopotamia, e pigliasse donna de le figlie di Laban, e comandolli che non pigliasse di quelle di Canaan. Unde andando, una sera si puose a dormire nel cammino al sereno e puosesi una pietra per capezzale; e la notte vidde questa visione; cioè una scala che di terra ascendeva infine al cielo, e sopra essa li Angeli salliano e descendevano, et in capo a la detta scala era Iddio che li diceva: Io sono lo Iddio d’Abraam e d’Isaac, e l’altre 11 che quine sono scritte. E di questa scala finge l’autore che santo Benedetto facesse menzione: Quando li apparve; cioè al detto Iacob, d’Angeli sì carca; cioè la detta scala ne la sua visione 12, come [p. 625 modifica]detto è di sopra. E qui finisce la prima lezione del canto xxii, et incominciasi la seconda.

Ma per salirla ec. Questa è la seconda lezione del canto xxii, ne la quale lo nostro autore finge come della spera vii di Saturno sallitte insù l’ottava del cielo stellifero; e come si trovò nel segno Gemini. E dividesi tutta in parti sei: imperò che prima finge come santo Benedetto si lamenta che nessuno si leva dalle cose terrene per sallire quella scala, e lamentasi dei monaci suoi che sono in terra che non seguitano la regola sua; nella seconda parte finge come santo Benedetto, seguitando lo suo parlare, si lamentò dei prelati della Chiesa, e come li detti beati spiriti sallitteno per la detta scala, et incominciasi quine: Pier cominciò ec.; nella terzia parte finge come Beatrice lo pinse di rieto ai detti beati spiriti, e come subito si trovò nell’ottava spera nel segno Gemini, et incominciasi: La dolce donna ec.; nella quarta parte finge com’elli, trovatosi in Gemini fece al detto sengnio di Gemini 13 dimanda d’acquistare altezza d’ingegno per la materia alta a che salliva, et incominciasi quine: O gloriose stelle ec.; nella quinta parte finge come, ammonito da Beatrice, ragguardò in giuso a vedere quanto era quello che aveva montato, e com’elli l’ebbe in dispregio lo mondo che aveva lasciato, e conforta che l’omo l’abbia, parlando in generale, et incominciasi quine: Tu se’ si presso ec.; nella sesta et ultima fiuge come vidde la Luna e la Terra, e come anco confortò li lettori che la debbiano dispregiare, parlando singularmente de la Terra, et incominciasi quine: Vidi la fillia ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo coll’esposizioni letterali, allegoriche e morali.

C. XXII — v. 73-87. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come santo Benedetto continuò lo suo parlare, dicendo come la scala predetta non è frequentata; e così fa digressione da la materia di prima, lamentandosi dello sviamento dei suoi monaci da la vita virtuosa e contemplativa che solevano avere, dicendo così: Ma per salirla; cioè la detta scala, mo nessun; cioè avale nessuno omo, diparte Da terra i piedi; cioè non s’ingegna di partire li piedi da terra, per montare la detta scala delle virtù; et allegoricamente s’intende: Nissuno diparte l’affezione da le cose terrene, e la regola mia; dice santo Benedetto, Rimasa è giù; cioè nel mondo, in danno de le carte; cioè per logorare le carte, in che ella si scrive; ma non che s’osservi. Le mura, che soleano esser badia; cioè li monasteri che solevano 14 essere badia, cioè luogo che dà padre ai figliuoli [p. 626 modifica]spirituali che vogliano servire a Dio, Fatte sono spilonche; cioè ricettaculo di malandrini e di malifattori: spilonca è caverna di monte dove solliano appiattare 15 li malandrini, per non essere veduti e per aspettare lo mercatante che passi: imperò che i monaci non stanno a di’ d’oggi et al tempo d’oggi, se non per furare i frutti de le badie, e per essere fatti abbati e dispensare quello del monastero a loro modo, e le cucolle; cioè le cappe de’ monaci, che si chiamano cuculle, Sacca son piene di farina ria; cioè son piene di malvage anime e peccatrici, piene di mali pensieri e di mala voluntà. E come della mala farina esce male pane; così de le male voluntadi, che sono nei monaci, esceno male operazioni; li quali monaci per l’abbondanzia dei beni temporali diventano oziosi e viziosi. E però il pigliare più, che non è bisogno al viver virtuosamente, è loro grave più, che non è l’usura che si piglia contra ’l piacere d’Iddio; e però dice: Ma tanto usura grave non si tolle Contra ’l piacer d’Iddio; cioè non è usura tanto grave che non si tollia contra ’l piacere d’Iddio dall’usurieri a l’anima sua, quanto sarà grave quello che’ monaci pigliano più che non debbono, oltra la vita onesta, all’anime loro; e però dice: quant’è; cioè quanto grave è, quel frutto; all’anime de’ monaci e del li abbati, Che; cioè lo quale frutto, preso più che non si debbe, fa il cuor de’ monaci sì folle; cioè si stolto, che li fa vaneggiare et intendere a le cose del seculo, a le lascivie e disoneste cose, quando vivendo sobriamente intendrebbeno a la contemplazione d’Iddio. Et assegna la cagione, per che è più ch’ogni usura: imperò ch’eglino lo 16 toggano a ai poveri d’Iddio: imperò che ciò, che avanza a la vita necessaria dei monaci, si debbe distribuire ai poveri per l’amore d’Iddio; e però dice: Chè; cioè imperò che, quantunche la Chiesa guarda; cioè ciò, che la Chiesa àe e possiede, oltra la vita del cherico che serve a la chiesa, tutto È de la gente che per Dio dimanda; cioè de’poveri mendicanti, Non de’parenti, nè d’altro più brutto; cioè non è de’ parenti de’monaci, nè delli abbati quello che v’avanza, nè de le meretrici, nè di disoneste persone; ma dei poveri mendicanti per l’amore d’Iddio. Dimostra ora la cagione, onde sia proceduta questa mutazione nei monaci da tutta virtù e santità in tanta lascivia e disonestà. E dice che è venuta da la corruzione della carne, dicendo: La carne dei mortali; cioè l’appetito carnale delli omini, è tanto blanda; cioè è tanto lusinghevile a la ragione, che inganna la ragione che si lascia ingannare, e però non dura molto lo buono principio; e però dice: Che giù; cioè nel mondo, non basta; cioè non [p. 627 modifica]dura, buon cominciamento; che fatto sia, Dal nascer de la quercia al far la ghianda; cioè non dura tanto, quanto di tempo è da poi che è nata la quercia infine ch’ella pena a fare delle ghiande, che si dice che comunemente pena anni 20, sicchè innanzi che la quercia faccia ghiande àe bene anni 20. E così dice santo Benedetto: Benchè li monaci miei facesseno buono principio, non è loro durato 17 per la sensualità che li à ingannati co le sue lusinghe.

C. XXII — v. 88-99. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come santo Benedetto, continuando lo suo parlare, dimostrò questa mutazione fatta non pure ne’ monaci; ma ne’ prelati della Chiesa e ne’ mendicanti; e come santo Benedetto se ne ritornò ai suoi e rinstrinsenosi insieme e volonno su per la scala predetta, come apparra di sotto, dicendo così: Pier; cioè santo Piero apostolo, primo papa, cominciò senza oro e senza argento; la Chiesa e l’ordinazioni de’ preti e de’ prelati, cioè con povertà, Et io; cioè Benedetto cominciai li miei monasteri, con orazioni e con digiuno: imperò che con aspra vita incominciai, stando ne l’eremo con grande astinenzia, E Francesco; cioè santo Francesco, istitutore dell’ordine dei frati minori incominciò, umilmente il suo convento: imperò che in povertà et umiltà fondò la regola sua e lo convento dei suoi frati minori. E, se guardi; cioè tu, Dante, al principio di ciascuno; cioè di san Piero e di me Benedetto e di san Francesco, Poscia riguardi; cioè tu, Dante, laddov’è trascorso; cioè lo principio di ciascuno di noi tre, Tu; cioè Dante, lì; cioè nelle dette tre istituzioni, vedrai del bianco fatto bruno; cioè fatta mutazione contraria, come del bianco al bruno: imperò che li prelati della Chiesa al tempo d’oggi vogliano essere ricchi, e li miei monaci vogliano ben mangiare e ben bere e stare in piaceri mondani, e li frati minori diventati superbi et ipocrite 18. E però adatta la parola de la santa Scrittura, cioè del Salmista a suo proposito, quando dice: Quid est tibi mare, quod fugisti; et tu Iordanis, quia conversus es retrorsum? Quasi meravigliandosi, dice: Veramente Iordan volt’è retrorso 19; cioè tanto sono mutati dal suo principio li prelati della Chiesa, li monaci e li frati minori, che veramente si può dire che siano volti a drieto, come ’l fiume Iordano, quando passò lo popolo d’Iddio in terra di promissione si ritornò verso la sua fonte e lasciò lo fondo asciutto al passamente del popolo d’Iddio, come appare nella Bibbia, Iosue iii. Et adiunge la speranza del remedio, che Iddio porrà a questi così rivolti, dicendo dell’altra parte della detta autorità et arrecandola anco a suo proposito dicendo: Più fu fuggir, Mirabil a veder, lo [p. 628 modifica]mar; cioè lo mare rosso, quando s’aperse e stette da la parte ritta e manca come muro, perchè passasse Moise col popolo d’Israel, come è scritto ne la Bibbia, Esodi xiv, quando Iddio volse: imperò che questo fatto fu miraculosamente, secondo la voluntà d’Iddio e fu mirabile cosa a vedere a Faraone et ai suoi et al popolo d’Iddio; e niente di meno pur fu, quando Iddio volse; e così sarà quando Iddio vorrà ponere rimedio a queste cose, che quel soccorso; cioè che non sarà mirabile a vedere da te lo soccorso a questa ruina, quando Iddio vorrà, come volse quello. E per questo induce santo Benedetto Dante in buona speranza che Iddio apporrà rimedio, quando vorrà. Così mi disse; cioè così disse a me Dante santo Benedetto, come detto è di sopra, et indi; cioè da quello luogo, dove era venuto per parlarmi, Al suo collegio si ricolse; cioè si ritornò a li altri beati spiriti che erano discesi con lui, come fu detto di sopra; lo qual descendere non fu se non la fizione dell’autore, che tirò la memoria dei detti santi a la sua fantasia, e ’l collegio; cioè dei detti beati, si strinse; cioè insieme: però che tutti li considerò l’autore insieme ritornare, unde erano descesi, a la sua fantasia. Poi, cioè poi che furno stretti, come turbo; questo è vocabulo di Grammatica, et è a dire raccoglimento di vento e spingimento, in sè tutto s’accolse; cioè lo detto globo dei beati spiriti, coi quali era disceso santo Benedetto a parlare con Dante.

C. XXII — v. 100-111. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Beatrice l’ammonitte col cenno che montasse dirieto a loro all’ottava spera, dove era a sallire, dicendo così: La dolce donna; cioè Beatrice, dietro a lor; cioè a quelli beati spiriti detti di sopra, che rimontavano su per la scala, und’erano discesi, mi pinse; cioè pinse me Dante, Con un sol cenno; cioè con uno solo atto, ch’ella mi fece, su per quella scala; cioè su per la quale montavano li detti beati spiriti. Sì sua virtù; cioè di Beatrice, la mia natura; cioè di me Dante, che era natura d’omo mortale, vinse; cioè soperchiò. E per questo dà ad intendere che elli per sua natura non sarebbe potuto montare la detta scala dirieto ai detti beati spiriti, se non fusse la virtù de la santa Teologia che ammaestrò lo ingegno suo, sicchè con esso montò di rieto a loro, imaginando e contemplando tale montamento. Nè mai quaggiù; cioè nel mondo dove l’autore era, quando scrisse quello che finge avere veduto nella sua visione, dove si monta e cala; cioè nel quale mondo si sale e scende, Naturalmente; cioè secondo natura: imperò che in cielo si monta per grazia, che è cosa sopra natura, fu sì ratto moto; cioè sì veloce movimento, Ch’agguagliar si potesse a la mia ala; cioè che si potesse pareggiare al mio 20 montamento. e vero dice: [p. 629 modifica]imperò che nessuno movimento naturale si può assimilare per pari al movimento 21, che è per grazia d’Iddio. E bene dice a la mia ala: imperò che, come è stato detto di sopra, l’ale con che si monta mentalmente sono due, cioè la ragione che è l’ala sinistra, e lo intelletto che è l’ala destra: al cielo stellifero, ottava spera, non si può montare coll’ala della ragione, che non apprende se non natural montamento; ma coll’ala dello intelletto, che apprende per grazia data da Dio le cose sopra natura. S’io torni; ecco che conferma per ossecrazione lo suo veloce montamento, dicendo: Se io Dante, torni mai, Lettor; ecco che dirizza suo parlare al lettore, a quel devoto Triunfo; cioè di paradiso: triunfo è allegrezza di vittoria avuta sopra inimici, del quale è stato detto pienamente di sopra; e veramente la gloria di paradiso si può chiamare triunfo: imperò che triunfano li beati della vittoria avuta contra ’l dimonio, contra ’l mondo e contra la carne. per lo qual; cioè triunfo avere, io piango spesso Le mie peccata; cioè di me Dante, e ’l petto mi perquoto; dicendo mia colpa d’esse. Tu; cioè lettore, non avresti intanto tratto e messo Nel fuoco il dito; cioè tuo, che è cosa che quanto l’uomo più tosto può fare, tanto lo fa, in quanto viddi il segno; cioè io Dante, lo quale fu mentale vedere, e nessuna cosa corre più tosto che la mente, Che; cioè lo qual segno, segue ’l Tauro; cioè quel segno che si chiama Gemini, che viene di rieto a Tauro, secondo l’ordine dei segni del zodiaco, e fui; cioè io Dante, dentro da esso; cioè dentro da esso segno Gemini. Benchè l’autore finga che v’intrasse dentro, non si debbe intendere che v’intrasse se non co la mente; e la cagione, per che dice che si trovò più tosto in questo segno che in altro, si dirà di sotto. Seguita.

C. XXII — v. 112-123. In questi quattro ternari lo nostro autore finge che, quando fu dentro al segno che si chiama Gemini, congratulandosi a quelle stelle che fanno lo detto segno, perch’elli nacque quando lo Sole era in Gemini, dice sè avere avuto la influenzia dello ingegno suo da le dette stelle, siccome da cagione seconda: imperò che Iddio è prima cagione d’ogni umano bene, dicendo così: O gloriose stelle; cioè le quali costituite lo segno di Gemini; e dice gloriose; cioè piene di gloria: imperò che danno gloria a coloro, ai quali danno influenzia d’ingegno, o lume pregno 22 Di gran virtù; cioè pieno et atto a parturire grande virtù giuso; e ben dice lume: però che le stelle infundeno le sue influenzie coi suoi raggi de la loro luce e splendore, dal quale; cioè lume, io; cioè Dante, ricognosco Tutto, qual che si sia, il mio ingegno; cioè tutto l’òne da voi o buono, o rio che si sia, o grosso o sottile. Con voi [p. 630 modifica]cioè con voi stelle, che fate lo segno di Gemini, nasceva e s’ascondeva vosco; cioè con voi nasceva e 23 tramontava lo Sole, Colui che è padre d’ogni mortal vita; cioè lo Sole è generativo d’ogni vita che muore; e questo dice, a dare ad intendere che non è generativo dell’anime umane, che sono immortali e generate senza mezzo da Dio, Quand’io senti’ da prima l’aire tosco; cioè quando prima nacqui in questa vita 24, che fu la mia natività in Toscana, cioè in Fiorenza; e però dice: Quand’io senti’ da prima l’aire toscana. E poi, quando mi fu grazia largita; cioè quando a me fu donato grazia, D’entrar nell’alta rota; cioè nel cielo ottavo stellifero, che è più alto che tutti gli altri sette cieli de’ pianeti, che vi gira: imperò che ’l detto cielo girando sè tutto, gira cioè che in esso è, e girali in due modi; l’uno modo è quando in 24 ore fa revoluzione sua tonda; lo secondo modo è quando in cento anni va uno grado contra ’l primo, La vostra region; cioè lo sito vostro, mi fu sortita; cioè per sorte fu dato a me Dante. A voi; cioè stelle, che costituite lo segno di Gemini, devotamente; cioè dispostamente, ora sospira; cioè si leva su a voi considerare, L’anima mia; cioè di me Dante, per acquistar virtute; cioè d’ingegno, Al passo forte che a sè la tira; cioè a passare e montare a la contemplazione d’Iddio, e dire di lui quanto a me fia possibile; la quale cosa tira l’anima mia a sè. E perchè in questo luogo l’autore àe figurato sè sallito in Gemini molto velocemente, secondo l’ordine che abbiamo preso, debbiamo dichiarare quanto ene la distanzia da la terra a l’ottava spera. Et appresso, perchè dice che ebbe influenzia d’ingegno da Gemini, vedremo le significazioni sue, come abbiamo veduto dei sette pianeti. E però debbiamo sapere che la più presso lunghezza de l’ottava spera che, come fu detto quando dicemmo di Saturno, è la più lunga lunghezza di Saturno, secondo che dice Alfragrano ca. xxi, è sessantacinque volte mille volte mille, e trecentocinquantasette volte mille e cinquanta miglia; e la più lunga lunghezza non è colta dal predetto autore se non in questa forma, ch’elli dice che la ritondità sua è dal lato d’entro di verso noi quattrocento diece volte mille volte mille, e centoquarantuna volta mille, e centosessantadue miglia; e la grossezza delle stelle fisse maggiori che sono 15: imperò ch’elle sono sedici, si comprende per lo diametro loro, lo quale, secondo che scrive lo prefato autore, è cento sette volte quanto la Terra, e delle minori è diciotto volte quanto la Terra. E poi che in queste misure siamo intrati, diremo lo diametro di ciascuno corpo celeste. E adunque lo diametro dell’ottava spera cento trenta volte mille volte mille e settecento quindici volte mille miglia, e la sua rotundità d’entro e di fuora è stata detta. Lo corpo di Saturno è [p. 631 modifica]novantuna volta quanto la Terra; lo corpo di Iove novantacinque volte quanto la Terra; lo corpo di Marte ene una volta e mezzo e la metà d’una ottava volta quanto la Terra; lo corpo del Sole è cento sessanta sei, e quarta et ottava d’un’altra volta quanto la Terra; lo corpo di Venere è la trigesima nona parte de la Terra; il corpo di Mercurio è una parte di ventidue migliaia di parti del corpo della Terra; e lo corpo della Luna è la trigesima nona parte del corpo della Terra; e lo corpo della Terra è tutto quanto a la superficie sua cento trenta due volte mille miglia. Adunqua lo maggiore corpo delle spere è l’ottava spera, è bene maggiore ancora la nona; ma qui s’intende delle spere visibili. E dei corpi lo maggiore è lo Sole 2.°, e poi le 15 stelle fisse maggiori 20, e poi Iove 30, e poi Saturno 40, e poi tutte l’altre stelle 50 secondo l’ordine loro, e poi Marte 6, e poi la Terra 7, e poi Venus 8, e poi la Luna 9, e poi Mercurio 10, e così digradano l’uno minore che l’altro. E, detto de la distanzia e del sito di Gemini e degli altri cieli e pianeti, ora è da dire delle sue significazioni, secondo che pone Albumasar nel suo Introduttorio, tractatu vi. E prima debbiamo sapere che Gemini àe significazione di forte voto e d’ingegno, come si convenia a l’autore parlando di sì alta materia: àe ancora significazione di sterilità, e temperamento nell’onestà e nella religione, e bellezza et onestà e mondezza quando lo detto segno è ascendente, o che vi sia lo signore de la descendente 25 o la Luna; e larghezza d’animo e bontà e latitudine di spese. Et àne nel corpo umano le spalle, le braccia e le mani, et àe a significare spezie d’uomini grandi, in istato e nobili, et altre cose che, perchè non fanno alla materia, lasciato òne per brevità. E però finge che facesse l’autore la detta deprecazione a’ Gemini, intendendo di farla principalmente a Dio. siccome a prima cagione, sapendo che le seconde cagioni non operano, se non sono mosse da la prima cagione, che è Iddio. Seguita.

C. XXII — v. 124-138. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come, ammonito da Beatrice, ragguardò lo mondo che aveva lasciato di sotto da sè, poi che fu montato in Gemini; e viddelo vile cosa et approva chi lo sa dispregiare, e però dice: Tu se’ sì presso; cioè tu, Dante, all’ultima salute; cioè a Dio, che è l’ultima nostra salute, Cominciò Beatrice; a dire, s’intende; e questo finge che dica Beatrice: imperò che la santa Scrittura sempre ci ammonisce d’amare lo cielo e dispregiare lo mondo, che tu; cioè Dante, dei Aver le luci tuoe; cioè delli occhi corporali, secondo la lettera; ma, secondo l’allegoria, le luci mentali, cioè la ragione e lo intelletto, chiare; cioè non turbate da passione, et acute; cioè sottili [p. 632 modifica]a discernere e vedere le viltà del mondo, sicchè bene ti puoi rivolgere a guardare lo mondo, senza timore che lo suo sguardo t’inganni e tiriti a sè. Di sopra sempre àe detto che quanto l’omo più monta in su, tanto più schiara Io intelletto; imperò che più s’approssima a Dio. E questo montamento s’intende mentale e non corporale, del quale dice santo Agustino: Accedendo enim ad Dominum illuminatur ignorantia et corroboratur infirmitas, data sibi intelligentia qua videat, et charitate qua serviat. — E però, prima che tu: cioè Dante, più t’illei; cioè più t’approssimi a lei, cioè a la salute ultima, cioè Iddio: illeare ene in lei entrare, et è verbo derivato da questo vocabulo ella, come spesso l’autore finge 26 sì fatti verbi, Rimira in giù; cioè ragguarda tu, Dante, giuso a le cose del mondo, e vedi quanto mondo; cioè come grande mondo, o vero quantità del mondo, Sotto li piedi già esser ti fei; secondo la lettera òne fatto essere sotto li tuoi piedi, chè se’ già montato a l’ottava spera: e, secondo l’allegoria, òne fatto essere sotto la tua affezione: imperò che la santa Scrittura t’à fatto dispregiare lo mondo, e ponere l’affezione a Dio. Sicchè ’l tuo cuore, cioè di te Dante, quantunche giocondo; cioè in ogni modo allegro, S’appresenti a la turba triunfante; cioè a la turba e moltitudine che triunfa in paradiso, senza avere affezione a le cose mondane, Che; cioè la quale turba, lieta vien per questo etere tondo; cioè per questo cielo tondo, cioè per questa ottava spera che è tonda come sono tutte l’altre; e benchè aether sia l’aire puro che è sopra l’aire grosso, qui si pone per lo cielo, come usanza è de’poeti di ponere una parte per un’altra. Col viso; cioè mentale, quanto a la verità; ma, quanto a la lettera, corporale di me Dante, ritornai; cioè io Dante, per tutte quante Le sette spere; cioè dei sette pianeti detti a drieto, e viddi questo globo; cioè della terra, nel quale elli era quando scrisse quello che aveva veduto; e però dice, questo Tal; cioè sì fatto e sì vile, ch’io; cioè che io Dante, sorrisi del suo vil sembiante; cioè della sua vile apparenzia. E quel consillio per miglior approbo; cioè io Dante, Che; cioè lo qual consiglio, l’à; cioè la terra, per meno; cioè per meno la pregia e meno la stima, e chi; cioè colui lo quale, ad altro pensa; cioè che a la terra, cioè che à lo suo pensieri ai beni celesti e non terresti, Chiamar si puote veramente probo; cioè virtuoso e galliardo d’animo.

C. XXII — v. 139-154. In questi cinque ternari et uno versetto lo nostro autore finge che, volto in giuso poi che ebbe veduto la terra vilissima e dispregiatola, ragguardò li corpi celesti e viddeli più certamente che non aveva veduto prima, dicendo così: Vidi; cioè io Dante, la fillia di Latona; cioè la Luna che si chiama Diana ne le [p. 633 modifica]selve, Luna è in cielo, e Proserpina ne lo inferno; e secondo li autori Iove stette con Latona e generò Febo e Diana. Et altri diceno che Proserpina fu figliuola di Cerere, e messer Boccaccio fiorentino dice nel libro De Genealogia Deorum che Titanus, figliuolo di Celio, de la Terra generò li giganti, e nominane alquanti; Iperione, lo quale dice che generò lo Sole e la Luna. E debbiamo sapere che tutti questi furno omini e donne, li quali li autori fingeno essere pianeti e stelle, per compiacere ai loro genitori e progenitori, dai quali conti, regi potentissimi e ricchissimi aveano le grandi provigioni. L’autore nostro seguita in questa fizione Ovidio che dice Febo e Diana nati di Latona e di Iove, incensa; cioè quando ella era in combustione, che era volta la parte fulgida insuso, e così conveniva che fusse volendo fare verisimile la fizione dell’autore: imperò che, se l’autore era nell’ottava spera in Gemini, com’elli finge, come arebbe potuto vedere la Luna, se non fingendo che ella fusse allora sotto lo Sole in combustione, che essendo altramente arebbe avuto la faccia luminosa in verso noi del mondo, e non in verso l’ottava spera? Senza quell’ombre; cioè senza quelle tre ombre che si vedeno da noi del mondo, quand’ella è tonda, che mi fur; cioè le quali ombre furno, cagione; a me Dante 27, Per che; cioè per la qual cagione, io; cioè Dante, già la credetti rara e densa; siccome appare nel secondo canto di questa terza cantica, quando l’autore disse: Ciò che riappar quassù diverso, Credo che ’l fanno i corpi rari e densi. E per questa fizione, che l’autore fa ora qui, appare ch’elli voglia tenere che quelle ombre siano l’ombre della terra, che è divisa in tre parti divise: per l’acqua si rappresenta in essa come in uno specchio, e nella parte chiara si rappresenti l’acqua: imperò che non è altro a dire che, quando è volta in verso la terra, abbia l’ombre; e, quando è volta in su, non l’abbia, se non che la terra ne sia cagione. L’aspetto del tuo nato, o Iperione; volge ora l’autore lo suo modo del parlare ad Iperione che, come è stato scritto di sopra, figliuolo di Titano, figliuolo di Celio, generò lo Sole e la Luna, sicch’elli dice: o Iperione, L’aspetto del tuo nato; cioè del Sole tuo figliuolo, Quivi; cioè in quello luogo essente 28, sostenni; cioè patittono li miei occhi di guardare nella rota del Sole; la qual cosa non poteva fare, quando io Dante era in terra, sicchè questo era confermamento di quel che fu detto di sopra; cioè ch’elli doveva avere le luci sue chiare et acute, e viddi; cioè io Dante, com’ si move Circa; cioè intorno, a lui; cioè al Sole, e vicino; cioè prossimano al [p. 634 modifica]Sole, Maia; cioè Mercurio nato di Maia figliuola d’Atlante e di Iove e Dione; cioè Venere nata di Celio e di Dione che fu madre della seconda Venere, che la prima Venere fu figliuola di Celio ancora e d’Orne. E qui l’autore pone Maia per Mercurio, e Dione per Venere, e così tocca uno punto d’Astrologia, cioè come questi due pianeti, Mercurio e Venus, vanno sempre prossimani al Sole. E se non fusse che ànno epiciclo, per lo quale alcuna volta vanno innanti al Sole, et alcuna volta dirieto, et alcuna volta insieme, secondo che si trovano in vari siti de’suoi epicicli, sempre andrebbono coniunti col Sole e non si vedrebbono; e però dice l’autore che allora vidde la cagione di questa vicinità. Quindi; cioè del luogo, nel quale io era; e nel segno di Gemini, m’apparse; cioè apparitte a me Dante, il temperar di Iove; cioè la temperanza, che fa lo pianeto Iove, Tra ’l padre e ’l figlio; cioè tra Saturno e Marte. Saturno, secondo le finzioni poetiche, fu padre di Iove e Iove fu padre di Marte e fumo traslati in cielo e fatti pianeti, e sono in questo ordine, come è stato mostrato di sopra, che Saturno è lo supremo, lo secondo è Iove, lo terzo è Marte, lo quarto è lo Sole, lo quinto è Venere, lo sesto è Mercurio, lo settimo è la Luna; sicchè Iove, che è in mezzo tra Saturno e Marte, tempera colla sua buona influenzia la influenzia di Saturno, e di Marte 29. e quindi, cioè da quel luogo, mi fu chiaro; cioè a me Dante, Il variar; cioè lo variamento, che ànno li detti pianeti, che fanno; cioè lo quale variare fanno li detti pianeti, di lor dove; cioè di loro luogo: imperò che li pianeti ora si vedeno innanzi, ora adrieto, ora fermi in uno medesimo luogo; e però diceno li Astrologi che li pianeti alcuna volta sono progressivi, alcuna volta retrogradi, et alcuna volta stazionari, e questo addiviene per lo moto che ànno nel loro epiciclo: imperò che tutti anno epiciclo, salvo che’l Sole. E tutti e sette; cioè pianeti, mi si dimostraro; cioè mi si dimostrorno a me Dante, Come son grandi: imperò che vidde la grandezza dei loro corpi e de le loro spere, le misure de le quali sono dette di sopra. e come son veloci; cioè come fanno o tardo, o veloce lo suo corso; e di questo è stato detto di sopra, quando è stato detto in quanti anni, o in quanto tempo ciascuno pianeto fa suo corso. E come sono; cioè li detti pianeti, in distante riparo; cioè in differente ritornamene al principio del suo moto: imperò che alcuno ritorna tosto, et alcuno tardo, siccome è stato dichiarato di sopra. L’aiuola; cioè la piccola aia cioè la terra che appare fuor dell’acqua, che, come dice Boezio nel libro ii della Filosofica Consolazione, unde l’autore nostro prese [p. 635 modifica]questa sentenzia, dice: Hujus igitur tam exiguae in mundo regionis, quarta fere portio est.., quae a nobis cognitis animantibus incolatur. Huic quartae, si quantum maria, paludesque premunt, quantumque siti vasta regio distenditur, cogitatione subtraxeris, vix angustissima inhabitandi hominibus area relinquetur 30; e però dice l’autore L’aiuola, che ci fa; cioè che fa noi omini, tanto feroci: imperò che per li beni de la terra l’omini sono feroci e crudeli, l’uno contro l’altro, Volgendom’io; cioè mentre che io Dante mi volsi per lo cielo, girando per l’uno emisperio e per l’altro, co li eterni Gemelli; cioè con quel segno che si chiama Gemini; e dice eterni, cioè sempiterni: imperò che ebbono principio et aranno fine; ma dureranno alcuno tempo, secondo alcuna opinione: alcuni altri diceno che ànno bene avuto principio; ma non aranno fine: imperò che Iddio li commutrà in mellio, e che li farà stabili e non gireranno più; e così si pone eterni; perpetui; e dice l’autore Gemelli; cioè fratelli, avendo rispetto a la fizione dei Poeti, che diceno che Polluce e Castore furno fratelli figliuoli di Iove e di Leda, co la quale Iove stette in ispezie di ciecino 31, et ella fece due uova, che dell’uno nacque Clitennestra et Elena, e dell’altro Polluce e Castore; e che essendo morto Castore et andato a l’inferi, Polluce addimandò di grazia ad Iove che lo rivocasse, et Iove disse che non si poteva; imperò che non si poteva rompere lo statuto de la iustizia; ma, s’elli voleva participare lo suo stato con lui, l’arebbe. La quale cosa accettò, e così Iove li unitte insieme, e feceli segno del cielo che si chiama Gemini, che sei mesi dell’anno stanno nell’altro emisperio, e sei in questo: imperò che ogni di’ 12 ore stanno di sotto, e 12 ore di sopra, e così s’adempie la iustizia, e questi fratelli participano insieme lo stato l’uno coll’altro. E che Iove stesse con Leda in forma e spezie di ciecino significa che Iove venne a lei in su una galea, che portava per insegna lo ciecino; ch’ella facesse due uova significa ch’ella fece due parti, e parturittene due ad uno parto ogni volta. Tutta m’apparve; cioè a me Dante la detta aiuola, dal colle a le foci; cioè dall’oriente a l’occidente, e non dice e converso, perchè nell’altro emisperio non appare la terra, che non v’è se non acqua. Poscia rivolsi; cioè io Dante, li occhi; cioè miei, alli occhi belli: cioè di Beatrice, che sono li due intelletti della santa Scrittura, cioè letterale et allegorico. E qui finisce il canto xxii, et incominciasi il canto xxiii della terza cantica.

Note

  1. Truovà, cadenza primitiva, che è la base della terza persona plurale, formata dalla giunta di ro o rono. Trova-rono. E.
  2. C. M. travagliato
  3. C. M. come si fa qui, perchè essendo la virtù sensitiva dell’audito colla sua altezza, sì come gli occhi corporali non possono apprendere lo riso e la letizia
  4. C. M. che funno affogati in mare dalla gente dell’imperador Federigo, quando ebbe la guerra col papa. La spada
  5. C. M. dentro alla ditta luce, udi’; cioè io Dante una voce parlare in verso di me che usciva di quella luce, in quella forma: Se tu
  6. C. M. monachile
  7. C. M. facevano vedere le cose che dovevano, e così facevano credere che fusseno
  8. C. M. di Saturno si rappresentino gli contemplativi. E finge
  9. Con teco, con meco, con seco sono modi frequentissimi tra il popolo toscano; laonde chi li taccia di affettazione dà indizio d’ignorare affatto la lingua viva. E.
  10. C. M. cioè quine, dove tutti gli altri desidèri e lo mio sono sazi et adempiuti e quieti, perchè quine è vita eterna e perfetta beatitudine, et anco
  11. Notisi questa vaga ellissi: l’altre; cioè l’altre cose ec. E.
  12. C. M. visione, sì caricata d’Angeli, come apparitte ora all’autore carica di beati spiriti. E qui
  13. Apprendano i giovani con quanta proprietà ed eleganza venga l’uso d’alcune particelle presso i Classici. Qui abbiamo la di, indicante la cagione formale, ora espressa: segno di Gemini, e più sopra taciuta: segno Gemini. E.
  14. C. M. soleano esser luoghi di monaci figliuoli obedienti ai padri loro abati nella religione al servigio di Dio, Fatte
  15. Appiattare; appiattarsi, usato assolutamente come talora costumano i Classici. E.
  16. Toggano da toggere e codesto da toiere. Tra il volgo sono frequenti toggo, daggo e simili per tolgo e do; ma l’uso accetta seggo e veggo, i quali pure sono della stessa forma. E.
  17. C. M. durato per la carnalità che
  18. Ipocrite plurale, formato sul nominativo latino plurale hypocritae, come eresiarche, profete ec. E.
  19. retrorso dee pur leggere il testo, v. 94. E.
  20. C. M. al mio veloce montamento;
  21. C. M. al movimento mentale che è
  22. C. M. pregno; cioè o lume o sprendore pieno, Di gran virtù
  23. C. M. e coricavasi lo sole
  24. Dante nacque nel maggio del 1265. E.
  25. C. M. lo signore dell’ascendente o la
  26. Fingere, comporre, formare ad imitazione dei Latini. E.
  27. C. M. Dante, Per che già la credetti rara e densa; cioè per le quali cagioni io Dante credetti che ’l corpo lunare fosse raro dove erano l’ombre, e denso dove era lo fulgore; siccome
  28. C. M. Quivi sostenni; cioè in quel luogo essente potenno sostenere gli miei occhi vedere la rota
  29. C. M. di Marte, ohe sono rie se non fussino temperate e nocerebbeno. e quindi
  30. C. M. relinquetur, sicchè ben dice l’autore: L’aiuola; cioè la piccola aia. imperocchè è coperta dall’acqua, che ci
  31. Ciecino, cecino, cicino, cigno, dal latino cycnus, frammessovi l’i. E.
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