Commedia (Buti)/Paradiso/Canto XXIII

Paradiso
Canto ventitreesimo

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Paradiso - Canto XXII Paradiso - Canto XXIV
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C A N T O     XXIII.





1Come l’augello, infra l’ amate fronde
     Posato al nido dei suoi dolci nati
     La notte che le cose ci nasconde,
4Che, per veder li aspetti disiati,
     E per trovar lo cibo unde li pasca,
     In che i gravi labor li sono agiati,1
7Previene il tempo in su l’ aperta frasca,
     E con ardente affetto il Sole aspetta,
     Fiso guardando pur che l’alba nasca;
10Così la donna mia si stava eretta2
     Et attenta, rivolta inver la plaga,
     Sotto la qual il Sol mostra men fretta;
13Sicchè, veggendola io sospesa e vaga,
     Fecimi quale è quei, che disiando
     Altro vorrea, e sperando s’appaga.
16Ma poco fu tra uno et altro quando;
     Del mio attender, dico, e del vedere
     Lo Ciel venir più e più rischiarando.
19E Beatrice disse: Ecco le schiere
     Del triunfo di Cristo, e tutto ’l frutto
     Ricolto del girar di queste spere.

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22Pareami che ’l suo viso ardesse tutto;
     E li occhi avea di letizia sì pieni,
     Che passar mi convien senza costrutto.
25Quale nei pleniluni e ne’ sereni3
     Trivia ride tra le ninfe eterne,
     Che dipingon lo Ciel per tutti i seni,4
28Vidd’io sopra milliaia di lucerne5
     Un Sol, che tutte quante l’accendea,
     Come fa ’l nostro le viste superne.
31E per la viva luce trasparea
     La lucente sustanzia tanto chiara,
     Che ’l viso mio nolla sostenea.6
34O Beatrice, dolce guida e cara!7 8
     Ella mi disse: Quel, che ti sovranza,
     È virtù da cui nulla si ripara.
37Quivi è la sapienzia e la possanza,
     Ch’ aprì le strade dal Cielo a la Terra,9
     Onde fu già sì lunga disianza.
40Come foco di nube si disserra
     Per dilatarsi, sì che non vi cape,
     E fuor di sua natura in giù s’ atterra;
43La mente mia così, tra quelle dape
     Fatta più grande, di sè stessa uscio,
     E che si fece rimembrar non sape.10 11
46Apri li occhi, e riguarda qual son io:
     Tu ài vedute cose, che possente
     Se’ fatto a sostener lo riso mio.

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49Io era come quei che si risente
     Di vision oblita, e che s’ingegna
     Indarno di ridurlasi a la mente,
52Quand’ io udi’ questa proferta degna
     Di tanto grado, che mai non si stingue
     Del libro che ’l preterito rassegna.12
55Se mo sonasser tutte quelle lingue,
     Che Polinnia co le suore fero
     Del latte lor dolcissimo più pingue,
58Per aiutarmi, al millesmo del vero
     Non si verrea, cantando il santo riso,13
     E quanto il santo aspetto il facea mero.14
61E così, figurando ’l Paradiso,
     Convien saltare il sacrato poema,
     Come chi truova suo cammin reciso.
64Ma chi pensasse ’l ponderoso tema,
     E l’ umero mortal che se ne carca,15
     Nol biasmerebbe, se sott’esso trema.
67Non è paleggio da picciola barca
     Quel, che fendendo va l’ ardita prora,
     Nè da nocchier ch’ a sè medesmo parca
70Perchè la faccia mia sì t’innamora,16
     Che tu non ti rivolgi al bel giardino,
     Che sotto i raggi di Cristo s’infiora?
73Quivi è la rosa, in che il Verbo Divino
     Carne si fece; quivi son li gilli,
     Al cui odor s’aperse ’l buon cammino.17
76Così Beatrice; et io, ch’ a’ suoi consilli
     Tutto era pronto, ancora mi rendei
     A la battallia dei debili cilli.

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79Come a raggio di Sol, che puro mei
     Per fratta nube, già prato di fiori18
     Vidder coperti d’ombra li occhi miei;19
82Viddi così più turbe di splendori20
     Fulgurate di su da raggi ardenti,
     Senza veder principio dei fulgori.
85O benigna virtù, che sì l’imprenti,
     Sì t’ esaltasti per largirmi loco21
     Alli occhi lì, che non eran possenti.
88Il nome del bel fior, ch’ io sempre invoco
     E mane e sera, tutto mi ristrinse
     L’animo ad avvisar lo maggior foco.
91E come ambe le luci mi dipinse
     Il qual e ’l quanto de la viva stella,
     Che lassù vince, come quaggiù vinse,
94Per entro ’l Cielo scese una facella
     Formata in cerchio a guisa di corona,
     E cinsela, e girossi intorno ad ella.
97Qualunche melodia più dolce sona
     Quaggiù, e più a sè l’anima tira,
     Parrebbe nube che squarciata tona,
100Comparata al sonar di quella lira,
     Onde si coronava il bel zafiro,
     Del qual il Ciel più chiaro s’inzafira.
103Io sono amore angelico, che giro
     L’alta letizia che spira del ventre,
     Che fu albergo del nostro disiro;
106E girerommi, Donna del Ciel, mentre
     Che seguirai tuo Figlio e farai dia
     Più la spera suprema, perchè lì entre.

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109Cosi la circulata melodia
     Sì si girava, e tutti li altri lumi22
     Facea sonar lo nome di Maria.23
112Lo real manto di tutti i volumi
     Del mondo, che più ferve e più s’avviva
     Nell’abito d’Iddio e nei costumi,24
115Avea sovra di noi l’interna riva
     Tanto distante, che la sua parvenza
     Laddove io era, ancor non m’appariva.
118Però non ebber li occhi miei potenza
     Di seguitar la coronata fiamma,
     Che si levò appresso sua semenza.
121E come ’l fantolin, che ’n ver la mamma25
     Tende le braccia, poichè ’l latte prese,
     Per l’animo che ’nsin di fuor s’infiamma,
124Ciascun di quei candori insù si stese
     Co la sua fiamma, sì che l’alto affetto,26
     Ch’elli aveano a Maria, mi fu palese.27
127Indi rimaser lì nel mio aspetto,28
     Regina Coeli cantando sì dolce,
     Che mai da me non si parte ’l diletto.29
130O quanto è l’ubertà, che si sofolce30
     In quelle arche ricchissime, che fuoro
     A seminar quaggiù buone bubolce!31
133Quivi si vive e gode del tesoro,
     Che s’acquistò piangendo ne l’esilio
     Di Babilon, ove si lasciò l’oro.

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136Quivi triunfa, sotto l’alto Filio
     D’Iddio e di Maria, di sua vittoria,
     E con l’antico e col nuovo concilio
139Colui, che tien le chiavi di tal gloria.

  1. v. 6. C. A. In che gravi labor gli sono aggrati,
  2. v. 10. C. A. mia stava
  3. v. 25. C. A. ne’ pieni numini sereni
  4. v. 27. C. A. i Ciel
  5. v. 28. C. A. Vidi di sopra
  6. v. 33. C. A. Nel viso mio, che non la
  7. v. 34. C. A. E Beatrice
  8. v. 34. C. M. guida e chiara !
  9. v. 38. C. A. la strada tra il Cielo e la
  10. v. 45. C. A. E che si fesse
  11. v. 45. Sape, terminazione naturale dall’infinito sapere. E.
  12. v. 54. C. A. ti segna.
  13. v. 59. C. A. verria,
  14. v. 60. C. A. aspetto facea
  15. v. 65. C. A. l’ omero
  16. v. 70. C. A. tua sì
  17. v. 75. C. A. si prese il
  18. v. 80. C. A. Per fredda nube,
  19. v. 81. C. A. Vider coperto
  20. v. 82. C. M. C. A. Vidi io così
  21. v. 86. C. A. Su t’esaltasti
  22. v. 110. C. A. Sì sigillava,
  23. v. 111. C. A. Facièn sonare il
  24. v. 114. C. A. Nell’alito di Dio
  25. v. 121. C. A. E come fantolin,
  26. v. 125. C. A. Con la sua cima sì,
  27. v. 126. C. A. avieno a
  28. v. 127. C. A. cospetto,
  29. v. 129. C. A. partì il
  30. v. 130. C. M. C. A. soffolce
  31. v. 132. C. M. C. A. buone bobolge!




C O M M E N T O


Come l’augello, intra l’amate fronde ec. Questo è lo canto xxiii della terza cantica, nel quale lo nostro autore finge come, sallito a l’ottava spera, trovò quine Cristo e la Vergine Maria e li santi Apostoli e quelli 1 del vecchio Testamento. E dividesi tutto in due parti principali: imperò che prima finge come vidde fatta la grande moltitudine dei beati, che con Cristo e co la Vergine Maria e coi beati Apostoli si rappresentava nell’ottava spera; nella seconda finge come, ammonito da Beatrice che ragguardasse a quella, elli si dispuose a ciò, e descrive come vidde la Vergine Maria 2 et in che forma, e dichiara che era in quello numero d’alquanti, et incominciasi la seconda: Perchè la faccia mia ec. La prima, che sarà la prima lezione, si divide in parti cinque: imperò che prima fa una similitudine, a dimostrare come Beatrice stava attenta a sanare lo suo desiderio; nella seconda parte finge com’ella li dimostrò coloro che furno prima salvati ne la primitiva Chiesa generalmente, et incominciasi quine: Sicchè, veggendola io ec.; nella terza finge come Beatrice li dimostrò Cristo sopra molte migliaia di santi e di beati, et incominciasi quine: Quale nei pleniluni ec.; nella quarta finge come Beatrice si li mostrò più eccellente che nessuna altra volta, et incominciasi quine: Come foco di nube ec.; ne la quinta parte finge com’elli non potrebbe dire come era fatta Beatrice: tanto eccedeva, e com’elli era tirato a maggiore cura, et incominciasi quine: Se mo sonasser ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo co la esposizione letterale, allegorica, o vero morale.

C. XXIII — v. 1-12. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Beatrice stava attenta per cibarlo di cibo spirituale, inducendo una similitudine dell’uccello che sta sollicito pur che venga lo di’, per arrecare lo cibo al suo nido, dicendo così: Come l’augello, [p. 642 modifica]intra l’amate fronde 3; cioè dell’arbore, in sul quale àe lo suo nido sta attento e ritto, Posato al nido dei suoi dolci nati La notte che; cioè la qual notte, le cose; cioè visibili, ci nasconde; cioè appiatta a noi omini, che nolle possiamo vedere per l’oscurità, Che; cioè lo quale uccello, per veder li aspetti disiati; cioè per vedere le cose che desidera di vedere, cioè unde possa prendere l’esca per arrecare ai suoi figliuoli; e però dice: E per trovar lo cibo 4; cioè conveniente ai suoi figliuoli, unde; cioè lo qual cibo, li pasca; cioè pasca loro, In che; cioè nella qual cosa, cioè nel pascere li suoi figliuoli, i gravi labor; cioè le gravi fatiche, li sono agiati: imperò che non l’increscono: ogni animale, che opera per natura, non li è faticoso l’operare, anco li è diletto, come a l’uomo lo mangiare et il bere e lo dormire, che sono atti naturali 5, sono faticosi; ma dilettevili, e così delli altri atti, Previene il tempo; cioè ragguarda il tempo inanti che venga, et apparecchiasi per andare a procacciare, in su l’aperta frasca, E con ardente affetto il Sole aspetta; cioè stando in su l’aperte foglie non chiuse, sicchè possa vedere l’alba quando lo Sole s’approssima al nostro emisperio, Fiso guardando pur che l’alba nasca; di questi colori, che l’aire muta è stato detto di sopra, quando altra volta fu detto dell’apparimento del Sole. Così la donna mia; cioè Beatrice, si stava eretta; cioè levata su per vedere mellio; ecco che adatta la similitudine: Et attenta; cioè sollicita, rivolta inver la plaga; cioè in verso la contrada del cielo, Sotto la qual; cioè contrada, il Sol mostra men fretta: lo Sole va molto dilungi dall’ottava spera; ma niente di meno sempre va per linea eclittica sotto lo zodiaco; ma seguendo lo moto naturale del primo mobile, che al Sole è violento 6; imperò che è girato per l’uno emisperio e per l’altro in 24 ore, e quando è al mezzo di’, pare andare meno ratto perchè viene sopra i nostri capi; e però vuole dire che Beatrice stava attenta in verso lo mezzo di’. E questo finge l’autore, perch’elli vuole mostrare che Cristo colli suoi Apostoli, con tutti li beati del vecchio Testamento si rappresentino nel cielo ottavo, tra’ quali Cristo splendeva come e più che’l Sole; sicchè degna cosa è che elli finga che Cristo si rappresentasse nel mezzo di’, acciò soprastesse sopra tutti li beati, come lo Sole sta sopra noi, quando è al meridiano. Seguita.

C. XXIII — v. 13-24. In questi quattro ternari lo nostro autore finge come Beatrice, dopo l’attenzione grande ch’ella mostrava, [p. 643 modifica]mostrò a lui la cagione che la fece essere attenta, cioè l’avvenimento dei beati, che si rappresentavano nel cielo ottavo con Cristo e co la Vergine Maria, dicendo cosi: Sicchè; cioè per la qual cosa, veggendola io; cioè vedendo io Dante lei, cioè Beatrice, sospesa e vaga; cioè attenta ad aspettare, e gioconda, perchè sapeva quello ch’ell’aspettava, Fecimi; cioè diventai io Dante tale, quale è quei; cioè quelli, che disiando; cioè lo quale desiderando, Altro vorrea; cioè che egli non à, e sperando; cioè et avendo speranza d’averlo, s’appaga; cioè s’accheta lo suo desiderio. Ma poco fu; cioè di tempo, tra uno et altro quando; cioè tra uno et altro spazio, Del mio attender, dico; cioè io Dante, e del vedere Lo Ciel venir più e più rischiarando; cioè poco spazio fu tra ’l mio attendere a quello che s’aspettava, et a vedere incominciare a rischiarare lo Cielo per l’avvenimento dei beati, che venivano con Cristo e co la Vergine Maria. E Beatrice disse; cioè a me Dante: Ecco le schiere Del triunfo di Cristo: imperò che come li Romani, quando triunfano, menano inanti al carro la preda tolta ai nimici; così finge l’autore che venisse Cristo co la preda ch’aveva tolto al dimonio, e sì de’ santi Padri del limbo, e sì dei santi cristiani che sono salvati per la passione di Cristo, e tutto ’l frutto Ricolto del girar di queste spere; cioè ecco lo premio e lo guadagno, che ànno fatto li cieli col suo girare e mandare influenzie giuso nel mondo, e del mantenere e notricare li omini del mondo: imperò che li beati si possano dire frutto acquistato 7 dei cieli, e li dannati sono la perdita dei cieli, che li ànno notricati 8 invano. È convenientemente da lo nostro autore lo frutto di tutte le spere rappresentato nell’ottava spera: imperò che tutte le spere riceveno influenzia da essa, et ella dal primo mobile, e ’l primo mobile da la intelligenzia che Iddio v’à posto, e quella intelligenzia da Dio siccome da prima cagione. E finge che questo li mostrasse Beatrice: imperò che la santa Scrittura è quella, che manifesta li beati e li santi. E descrive poi chente diventò Beatrice, approssimandosi lo triunfo di Cristo, dicendo: Pareami; cioè pareva a me Dante, che ’l suo viso; cioè che ’l volto di Beatrice, ardesse tutto; cioè di fiamma di carità e d’amore. E li occhi; cioè suoi di Beatrice, avea di letizia sì pieni; cioè era lo suo intelletto e letterale et allegorico, quanto a questa parte, tutto pieno di letizia, Che passar mi convien; cioè a me Dante convien passare questa parte, senza costrutto; cioè senza ordinarla nel mio poema: imperò che io non saprei, nè potrei esprimere 9. Non è lingua, che potesse mai dire quanta è l’allegrezza e la carità dei santi uomini, quando pensano, o quando è mostrato loro la beatitudine di vita eterna. [p. 644 modifica]

C. XXIII — v. 25-39. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come apparve quine nel cielo ottavo Cristo con tutti li beati, rappresentandosi quine, siccome in quello luogo dal quale vegnano le influenzie di tutte le virtù, e dal qual s’infundeno nelli altri cieli che sono di sotto a lui, ponendo due similitudini, prima così: Quale; cioè sì fatto, chente è la Luna, nei pleniluni; cioè quando la Luna è piena, e ne’sereni; cioè quando la notte l’aire è puro, che non è turbato, Trivia; cioè la Luna che è chiamata Trivia, per tre potestati ch’ella àe: imperò ch’ella si chiama Luna in cielo, Diana nelle selve, Proserpina nello inferno; qui si pone per la Luna, ride; cioè risplende: è traslazione colore retorico, tra le ninfe eterne; cioè tra le stelle le quali sono state ninfe nel mondo, secondo le fizioni poetiche, e poscia trasmutate in stelle; e pone eterne improprie, cioè perpetue, o sempiterne, Che; cioè le quali stelle, dipingon lo Ciel per tutti i seni; cioè 10 per tutte le sue piegature: imperò che ’l cielo è curvo e piegato in verso noi, Vidd’io; cioè viddi io Dante, sopra milliaia di lucerne; cioè sopra migliaia di beati spiriti, che tutti risplendevano a modo di lumi e di lucerne, Un Sol; cioè uno splendore eccessivo e smisurato, come lo nostro Sole e via maggiore; e questo era Cristo, che; cioè lo quale Sole, tutte quante l’accendea; cioè tutte quelle beate anime: tutte risplendevano per lo splendore di questo Sole; et adiunge la similitudine: Come fa’l nostro; cioè 11 Sole, le viste superne; cioè le stelle che sono in cielo, che tutte ànno splendore dal Sole: tutti li corpi celesti riceveno lo splendore, che rendono, dal Sole, siccome corpi lucidi; e chiama le stelle viste: imperò che si vedeno. E ben finge l’autore che lo splendore di Cristo facesse lucide tutte quelle beate anime: imperò che ne la virtù de la passione di Cristo e nel suo sangue e ne le sue virtù tutti li santi sono salvati e santificati. E per la viva luce; cioè per lo grande splendore maggiore che’l Sole, trasparea; cioè si vedeva 12, La lucente sostanzia; cioè l’umanità di Cristo, tanto chiara; cioè essa sustanzia, Che ’l viso mio; cioè che la vista di me Dante, nolla sostenea; cioè non sosteneva di vedere quella lucente sustanzia; unde congratulandosi ora l’autore a Beatrice, dice: O; questo O è interiezione, che significa ammirazione e congratulazione, Beatrice, dolce guida e cara; s’intende era a me allora! Ella; cioè Beatrice, mi disse; cioè disse a me Dante: Quel, che ti sovranza; cioè quello, che soperchia la tua virtù visiva, È virtù da cui; cioè da la quale virtù, nulla si ripara: imperò ch’ella è virtù divina, che ogni cosa [p. 645 modifica]avanza; e pero non è meraviglia, s’ella avanza la tua virtù visiva. Quivi; cioè in quello luogo, è la sapienzia; cioè divina: imperò che’l Figliuolo si dice Sapientia patris — , e la possanza; cioè e la potenzia: imperò che, benchè la potenzia s’attribuisca al Padre, anco è onnipotente lo Figliuolo, Ch’apri; cioè lo quale aprì, le strade 13; cioè le vie, dal Cielo a la Terra: imperò che siccome lo Verbo Divino discese di cielo in terra; così ritornò dalla terra al cielo, et aperse quella via che era chiusa, Onde; cioè de le quali strade, fu già sì lunga disianza: imperò che cinque milia anni e più desiderò l’umana generazione che tale via s’aprisse. Seguita.

C. XXIII — v. 40-54. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come la mente sua uscì di sè in quella visione; e come Beatrice lo confortò che ragguardasse la sua allegrezza, dicendo così, inducendo prima una similitudine: Come foco di nube; cioè che era acceso nella nube, generato di vapore secco, si disserra; cioè s’apre, Per dilatarsi; cioè per ampiarsi e crescere, sì; cioè per sì fatto modo, che non vi cape; cioè nella nube, E fuor di sua natura; che è pur di montare in alto, in giù s’atterra; cioè scende in giuso inverso la terra, che è contra sua natura. E così dimostra unde viene lo fulgore, che è vapore secco, involto nella nube; et, accendendovìsi, si dilata e cresce tanto, che la nube nol può contenere, unde si squarcia et apresi, et allora tuona, e lo fuoco n’esce fuora e cade inverso la terra, benchè la natura sua sia di montare in alto: imperò che natura è delle cose leggeri. La mente mia; cioè di me Dante, così, tra quelle dape; cioè tra quelli diletti di vedere Cristo e li beati; la quale visione è saziamento e nutrimento de la mente, Fatta più grande; che non era prima, di sè stessa uscio; cioè uscitte di sè medesimo. E che si fece; cioè quello che, allora ch’ella uscitte di sè, diventò la mente mia, o vero operò in quel mezzo, rimembrar non sape; cioè non si sa ricordare di quello ch’ella fece, poi che uscitte di sè. Apri li occhi; cioè tuoi, Dante, disse Beatrice, e riguarda; tu, Dante, qual son io; cioè Beatrice. Tu ài vedute cose; cioè tu, Dante, che possente Se’ fatto a sostener lo riso mio; cioè di me Beatrice; quasi dica: Poi che tu ài veduta la beatitudine di Cristo e delli altri beati, tu se’ fatto potente a sostener lo mio riso. E qui è da notare, perchè l’autore finge che la mente sua uscisse fuora di sè; e questo finse l’autore, per dimostrare che la mente umana, essendo in carne, non è potente a vedere la glorificazione di Cristo, siccome appare nella santa Scrittura, quando Cristo si trasfigurò ai tre discepoli che caddono in terra, non potendo sostenere lo splendore e per la voce paterna che [p. 646 modifica]udittono; e così finge l’autore di sè. Io; cioè Dante, era come quei; cioè come colui, che si risente; cioè che ritorna in sè, Di vision oblita; cioè dimenticata, e che; cioè e la qual vision, s’ingegna Indarno; cioè invano, perchè non può, di ridurlasi a la mente; cioè di ricordarsene, Quand’io; cioè Dante, udi’ questa proferta; cioè quella, che si fece Beatrice, degna Di tanto grado; cioè degna di ricevere tanto e sì grande grado, o vero d’essere avuta sì a grado, che mai non si stingue; cioè non si spegna 14, Del libro che ’l preterito rassegna; cioè rappresenta lo passato, cioè della memoria mia, che come libro rappresenta lo passato.

C. XXIII — v. 55-69. In questi cinque ternari lo nostro autore finge che tanto fu lieto e puro lo riso di Beatrice, che per nessuno modo lo potrebbe dire, eziandio aiutato da tutti li Poeti 15; e scusasi che li conviene passare questo punto, perchè avanza le forze sue, dicendo: Se mo; cioè avale; questo è vocabulo lombardo, sonasser tutte quelle lingue; cioè dei Poeti, Che; cioè le quali lingue, Polinnia; questa è una de le nove Muse, che s’interpreta Facente molta memoria16, co le suore; cioè coll’altre sue suore che sono otto Muse, de le quali è stato detto nella seconda cantica nel principio, fero; cioè feceno, Del latte lor dolcissimo; cioè de la dottrina loro, che è la poesi che è scienzia dolcissima, più pingue; cioè più grasse e più abbondanti, Per aiutarmi; cioè per aiutare me Dante, a dire lo santo riso quanto era lieto e puro, al millesmo; cioè a l’ultima parte del mille, del vero; cioè della verità di quello che era, Non si verrea; da loro e da me, cantando; cioè descrivendo: imperò che cantare si pone per descrivere appresso li Poeti, e rendesi questo gerundio cantando al verbo sonasser— , il santo riso; cioè quanto era lieto il santo riso di Beatrice, che significa qui la beatitudine dei beati di vita eterna, che l’autore àe figurato esser rappresentati nell’ottava spera. E quanto il santo aspetto; cioè lo santo ragguardamento di Cristo, lo quale infundea la sua luce in tutti, il facea mero; cioè puro quello riso, cioè quella beatitudine che quivi viddi. E così, figurando ’l Paradiso; cioè sotto figura dimostrando la beatitudine dei santi, che non è altro che paradiso, lo quale l’autore àe dimostrato infine a qui sotto varie figurazioni verisimili, intendendo sempre quello che si tiene per la santa Chiesa, Convien saltare; cioè passare, senza toccare e dire, il sacrato poema; cioè lo poema dell’autore, cioè la sua fizione poetica, che è sacrata, in quanto tratta [p. 647 modifica]delle cose sante, Come chi; cioè come colui, lo quale, truova suo cammin reciso; cioè talliato et interrutto da qualche fossa, o da qualche fiume. E così fa qui similitudine che, come salta chi trova la fossa a traverso a la via; così convien saltare a lui, ora che truova cosa che non si può esprimere per lingua umana. Et adiunge escusazione a questo, dicendo: Ma chi; cioè ma colui, lo quale, pensasse ’l ponderoso tema; cioè la grave materia: tema e materia una cosa significano: grave, anco gravissima materia è questa, che l’autore nostro àe preso a trattare, cioè descrivere lo paradiso, E l’umero; cioè la spalla mia di me Dante, mortal; che sono mortale, che se ne carca; cioè che se ne carica de la detta materia gravissima, Nol biasmerebbe; cioè colui che ’l pensasse, se sott’esso; cioè ponderoso tema, trema; cioè la mia mortale spalla per la gravità del peso. Non è paleggio; cioè non è pelago, nè mare, da picciola barca; ma bene di grande nave, Quel, che fendendo va l’ardita prora; cioè quello pelago, o vero mare, lo quale va navigando la mia ardita navicella 17; e de l’acqua lo legno, quando va per essa, fende; e però fendendo si pone per navicando, rt usa qui l’autore lo colore permutazione, ponendo lo peleggio per la materia, la barca per lo ingegno suo, e navigare per trattare; quasi dica: La materia, che io òne preso a trattare, non è da piccolo ingegno, Nè da nocchieri: nocchieri è quello che guida la nave, e qui si pone per l’uomo che esercita lo suo ingegno; quasi dica: Non è la materia, che io tratto, d’omo che non si voglia esercitare; e però dice: ch’a sè medesmo parca 18; cioè 19 perdoni, che non si voglia esercitare. Seguita la lezione seconda del canto xxiii.

Perchè la faccia mia ec. Questa è la seconda lezione del canto xxiii della terza cantica, ne la quale lo nostro autore finge che nel detto luogo vedesse la Vergine Maria, e la festa grande e l’onore che li faceano li Angeli; e come in quello luogo anco si rappresentavano li Apostoli co li beati del vecchio e del nuovo Testamento. E dividesi tutta in cinque parti: imperò che prima finge come Beatrice l’ammonitte che dovesse non pur ragguardare lei; ma ancora sotto Cristo v’era la Vergine Maria con tutti li beati; nella seconda parte finge come, ammonito da Beatrice, ragguardò la Vergine Maria e vidde uno Angelo descendere di cielo, e venire intorno a lei, et incominciasi quine: Il nome del bel ec.; nella terza parte finge come lo detto Angelo girava cantando intorno a la Vergine Maria, e tutta la corte di paradiso faceva risonare col suo canto, et [p. 648 modifica]incominciasi quine: Io sono amor ec.; nella quarta parte finge come poi vidde montare dopo Cristo la Vergine Maria e li beati suso a la nona spera, et incominciasi quine: Lo real manto ec.; nella quinta parte finge come li Angeli, che scesono giuso ad onorare e laudare la Vergine Maria, ritornorno in giuso poi ch’ella fu ita in suso e come molti spiriti rimaseno quine, et incominciasi quine: Indi rimaser ec. Divisa la lezione, ora è da vedere lo testo coll’allegorica e morale esposizione.

C. XXIII — v. 70-87. In questi sei ternari lo nostro autore finge com’elli, ammonito da Beatrice, ragguardò la Vergine Maria e la compagnia dei santi che erano rimasi con lei, dicendo così: Perchè la faccia mia; dice a Dante Beatrice, dimandando per che cagione la faccia di me Beatrice, sì t’innamora; cioè sì innamora te Dante, Che tu; cioè Dante, non ti rivolgi; cioè non rivolgi te a guardare, al bel giardino; cioè la congregazione dei beati, che erano come fiori in uno giardino, Che; cioè lo quale giardino, sotto i raggi di Cristo s’infiora; cioè diventa, come fiori, bello sotto li raggi che Cristo sparge et infunde sopra loro? Finge l’autore Cristo, stante più alto come uno Sole, spargesse et infundesse li suoi raggi sopra li beati: e come lo Sole fa aprire et ulimire li fiori; così li raggi di Cristo, che sono le grazie e li ardori della carità che sparge sopra li beati, fa gloriosi li beati. Quivi; cioè in quello luogo, è la rosa; cioè la Vergine Maria bella, pura et ulimosa più che la rosa, in che; cioè nella quale, il Verbo Divino; cioè lo Figliuolo d’Iddio, Carne si fece; cioè prese carne umana, quivi; cioè in quel luogo, son li gilli; cioè li santi Apostoli e Dottori e tutti li beati, Al cui odor; cioè all’ulimento dei quali, cioè a le virtuose opere dei quali, s’aperse ’l buon cammino; cioè lo cammino di vita eterna. Così; cioè come io 20 òne scritto, Beatrice; disse, s’intende, et io; cioè Dante, ch’a’ suoi consilli; cioè lo quale ai consilli di Beatrice, Tutto era pronto; cioè sollicito et apparecchiato, ancora mi rendei; cioè ancora rendei me, A la battallia dei debili cilli; cioè a fare combattere li miei debili occhi, e non potenti sostenere lo splendore di Cristo col detto splendore, quasi dica: Io di capo mi volsi a ragguardare in verso la parte, dove Cristo s’era rappresentato a la mia fantasia, benché con tanto splendore che la mia mente vinta diede luogo et uscitte di sè. Et ora induce una similitudine, per dimostrare come elli vidde la congregazione dei beati co la Vergine Maria, dicendo: Come li occhi miei; cioè di me Dante, coperti d’ombra: imperò che quine, dove io sono stato, è stato ombra e non splendore, Vidder già; cioè viddeno già [p. 649 modifica]essi miei occhi, prato di fiori; cioè alcuno prato di fiori, sopra ’l quale è venuto lo raggio del Sole per la nube che altro 21 cuopre e quine è aperta, sicchè ’l raggio del Sole passa quinde e viene in sul detto prato, a raggio di Sol; cioè ad alcuno raggio di Sole, che sopra esso caggia scoperto, lo detto prato, s’intende, che; cioè lo quale raggio del Sole, puro; cioè non offuscato, mei; cioè scorra e descenda, Per fratta nube; cioè per alcuna nube, rotta in alcuna parte, unde vegna giuso 22 lo raggio predetto, Viddi così; ecco che adatta la similitudine, dicendo: Così, com’io òne detto, che òne veduto già lo prato de’ fiori fulgido e splendiente, benchè altro sia stato ombra, più turbe di splendori; cioè di beati spiriti splendenti, Fulgurate di su; cioè fatti splendidi da’ raggi, che venivano di su da alto, sopra di loro: imperò che l’autore finge che, benchè lo luogo dove elli era fusse fulgido e chiarissimo; niente di meno era tanto eccessivamente più splendido lo luogo dove erano quelli beati spiriti, che altro’ pareria che fusse ombra. E finge che quello splendore eccessivo venisse da Cristo sopra loro, come alcuna volta si vedeno nell’aire nubiloso penetrare li raggi del Sole, et illuminare alcuna parte della terra, da raggi ardenti che veniano da Cristo, Senza veder principio dei fulgori; cioè senza che io vedesse unde procedesseno quelli raggi, bench’io intendesse e cognoscesse unde venisseno, siccome non veggo quando li raggi passano per la nube, unde vegnano, bench’io imagini et intenda che vegnano dal Sole; e così compie sua similitudine l’autore molto propria da farla imaginare ad ogni uno che la intenda. E perchè àe detto che li raggi veniano sì da alto, che non poteva vedere lo loro principio; e di sopra disse che vidde Cristo, e che la mente sua non potendo sostenere si perdette, ora dimostra che Cristo se n’andò in alto, acciò ch’elli potesse vedere li altri spiriti beati; e però quasi congratulando e ringraziando, dice: O benigna virtù; cioè di Cristo, che; cioè la quale, sì l’imprenti; cioè sì informi et empi della tua grazia, luce e beatitudine li beati spiriti, come io òne detto, Sì t’esaltasti; cioè per sì fatto modo innalzasti te sopra li altri, come io òne detto, ch’io non poteva vedere lo principio de’ raggi che discendevano sopra li beati, per largirmi loco; cioè per donare loco a me Dante, Alli occhi; cioè miei, cioè al mio intelletto e ragione, lì; cioè in quel luogo, che; cioè li quali occhi, non eran possenti; cioè non erano abili a potere 23 comprendere sì grande eccellenzia, come era quella di Cristo. Seguita. [p. 650 modifica]

C. XXIII — v. 88-102. In questi cinque ternari lo nostro autore finge come spezialmente si dispose a vedere la Vergine Maria dicendo cosi: Il nome del bel fior; cioè della Vergine Maria, la quale li fu dimostrata da Beatrice di sopra, quando disse: Quivi è la rosa ec., ch’io; cioè lo quale nome io Dante, sempre invoco; cioè chiamo, E mane e sera: imperò che da sera e da mattina a lei mi raccomando, tutto mi ristrinse; cioè tutto strinse me Dante, cioè L’animo; cioè mio, ad avvisar lo maggior foco: imperò che io pensai: Lo maggior splendore ch’è tra questi serà la Vergine Maria, perch’ella ebbe maggior grazia e più fu piena di carità che alcuna altra creatura. E come ambe le luci; cioè e come amenduni li miei occhi, ponendo le luci per l’occhio, perchè quine è la virtù visiva, mi dipinse; cioè implimè 24 a me Dante, secondo quelli che tegnano che la cosa veduta sia attiva, e l’occhio passivo; la quale opinione l’autore studiosamente seguita qui, per mostrare che questa fu grazia infusa a lui da la Vergine Maria ne la mente sua, cioè che elli potesse sì parlare di lei 25, Il qual e ’l quanto; cioè la qualità e la quantità, de la viva stella; cioè della Vergine Maria, la quale la santa Chiesa chiama per diversi nomi, come appare a chi la studia, cioè quando rosa, quando stella, e così delli altri nomi; e però l’autore nostro li usa, Che; cioè la quale viva stella, lassù; cioè in cielo, vince; in splendore tutti li beati, come quaggiù; cioè nel mondo, vinse; cioè avanzò ogni creatura in virtù. Per entro ’l Cielo; cioè per lo mezzo del cielo, scese una facella; cioè una fiaccola di splendore, Formata in cerchio; cioè tonda a modo d’uno cerchio, a guisa di corona; cioè a modo d’una corona, E cinsela; cioè la luce, in che era la Vergine Maria, e girossi intorno ad ella; cioè fece moto circulare intorno a la Vergine Maria. Qualunche melodia; cioè qualunche dolce canto e soave, più dolce sona; cioè qui nel mondo; e però dice: Quaggiù, e più a sè l’anima tira; col suo dolce suono, Parrebbe nube che squarciata tona; cioè parrebbe uno tuono: imperò che tuono, secondo Filosofo ne la sua Metaura, è sforzato aprimento di nube, Comparata al sonar; cioè assimilliata al sonare, di quella lira; cioè di quel dolce suono, che sonava quella luce che si girava e cantava intorno a la Vergine Maria. E questa luce finge l’autore che fusse l’angelo Gabriel, che gli annunziò il Verbo Divino che 26 incarnò 27 di lei. Onde; cioè de la quale lira, si coronava; cioè si girava a modo di corona intorno, e s’adoriava. il bel zafiro; cioè la Vergine Maria, che era più lucida che ogni zafiro: questo zafiro è una pietra [p. 651 modifica]di colore celeste, molto preziosa, Del qual, cioè zafiro, il Ciel più chiaro; cioè che gli altri, e questo è lo cielo empireo, s’inzafira; cioè s’adorna come d’uno bello zafiro; e questo zafiro, secondo l’autore, figura la Vergine Maria. E qui è da notare che l’autore figura che l’angelo Gabriel stia e girasi intorno a la Vergine Maria sempre, a denotare che sempre elli stette con lei, e guardolla mentre ch’ella stette in questa vita, infine ch’ella salitte in cielo, siccome apparrà ancora di sotto. E perchè lo zafiro àe certe virtù, che abundantissimamente fumo nella Vergine Maria, però la nomina col nome della detta pietra.

C. XXIII — v. 103-111. In questi tre ternari lo nostro autore finge come quello Angelo si manifestò, e quello che cantava lo detto Angelo, dicendo così: Io sono amore angelico; questi fu l’angelo Gabriel che fu dell’ordine dei Serafini, che sono tutti ardenti nella carità d’Iddio; e però ben finge l’autore ch’elli dicesse: Io sono amore angelico; cioè Angelo pieno d’amore e di carità d’Iddio, che giro L’alta letizia; cioè la beatitudine grande circundo co lo intelletto, da essa tornando ad essa, e rallegrandomi in essa, che; cioè la quale letizia, spira; cioè esce, del ventre; cioè della Vergine Maria, dove si generò e lo quale portò lo nostro siguore Iesu Cristo nove mesi; de la quale cosa tutti li santi e beati ànno grandissima letizia, e così ancora li Angeli che sono lieti della salute umana; e perchè dice del ventre, appare che la Vergine Maria, secondo la verità, sia figurata dall’autore essere col corpo in paradiso, Che; cioè lo qual ventre, fu albergo del nostro disiro; cioè fu ricettaculo di Cristo, che fu desiderato tanto tempo dall’angelica et umana natura: imperò che li Angeli desideravano la salute umana, come detto è; e però ben dice: del nostro disiro; cioè del desiderio di noi Angeli. E girerommi 28; ecco che l’autore finge che quello Angelo dirizzi lo suo parlare a la Vergine Maria, dicendo che sempre serà la sua contemplazione a quello alto dono, che Iddio fece a l’umana natura, donandoli lo suo Figliuolo per suo salvatore e ricompratore; la quale cosa sempre sarà cagione di letizia a tutti li Angeli, che pieni di perfetta carità desideravano la nostra salute; ma più a quello angelo Gabriel, che fu messo di sì grande ambasciata, siccome costituto 29 in maggiore grado di carità, Donna del Ciel; cioè o Vergine Maria, che se’ donna del cielo, mentre Che seguirai; cioè tu, Vergine Maria, tuo Figlio; cioè Iesu Cristo; la quale cosa sarà sempre, e così lo mio girare sarà sempre, e farai dia; cioè divina e chiara e splendida, Più la spera suprema; cioè farai più, che non era prima, lucida e chiara [p. 652 modifica]la spera di sopra a tutte, cioè lo cielo empireo, perchè li entre; cioè perchè tu enterrai in esso. E questo sarà sempre che tu, Vergine Maria, rendrai lo cielo più ornato che non era prima, co la tua presenzia, e così io sempre mi girerò intorno a te, dice lo detto Angelo secondo la fizione de l’autore. Cosi la circulata melodia; cioè la dolcezza del canto di quello Angelo che significava, e giravasi in circulo cioè stava a modo di cerchio intorno a la Vergine Maria, Sì si girava; cioè girava sè, come detto è, e tutti li altri lumi; cioè tutti li altri spiriti beati che erano accesi d’amore, e però splendevano come lumi, Facea sonar; cioè sonando cantare, lo nome di Maria; cioè tutti dire: Ave Maria. Et allegoricamente s’intende che lo detto Angelo per l’ambasciata, che arrecò a la Vergine Maria, per la quale seguitò tanto bene a l’umana spezie, fa cantare in terra tutti li fideli cristiani: Ave Maria 30, ec. Seguita.

C. XXIII — v. 112-126. In questi tre ternari lo nostro autore finge com’elli vidde montare suso la Vergine Maria al cielo nono, che è lo primo mobile, e però dice: Lo real manto di tutti i volumi Del mondo; cioè l’ultimo cielo che contiene tutti dentro da sè, che mobile primo muove tutti li altri, che; cioè lo quale, più ferve; cioè più si scalda, e più s’avviva; cioè più è operativo et effettivo, Nell’abito d’Iddio; cioè secondo che Iddio eternalmente l’à disposto: imperò che abito è disposizione naturale, secondo che Tomo pillia quella per molti atti; ma in Dio è eterna la sua disposizione, e però dicendo abito d’Iddio, s’intende l’essere d’Iddio, secondo la bontà d’Iddio, e nei costumi; cioè nei costumi d’Iddio, che sono sempre di spirare sua grazia e sua virtù in chi la dimanda e volla. Lo nono cielo è principio di moto e di vita, et in esso è universale virtù informativa de le mondane singularità. E tutte spere e corpi celesti riceveno da esso, secondo l’ordine naturale, conservativa virtute et informativa, siccome da Dio l’essere naturale; e però dice l’autore che s’avviva Nell’abito d’Iddio; riceve di quinde virtù vivificativa, Avea sovra di noi; cioè di sopra a Beatrice et a me, l’interna riva; cioè la sua circunferenzia interiore, che veniva verso l’ottava spera, ne la quale, secondo che finge l’autore, era allora Dante e Beatrice, Tanto distante; cioè tanto dilungi da loro, che la sua parvenza; cioè che la sua apparenzia, Laddove io era; cioè io Dante, ancor non m’appariva; cioè ancora non mi si manifestava. Però non ebber li occhi miei; cioè di me Dante, potenza; cioè possibilità, Di seguitar la coronata fiamma; cioè la fiamma, in che si rappresentava la Vergine Maria, secondo la fizione dell’autore, la quale àe detto di sopra che era coronata de la luce e splendore dell’angelo Gabriel, [p. 653 modifica]che li annunziò lo Verbo Divino che di lei dovea prendere carne; sicchè dice l’autore che li occhi suoi non potettono tanto vedere, che vedesseno lo fine del suo montamento. E questo finge l’autore, per mostrare che lo intelletto e la ragione umana non si può tanto levare, che possa adiungere a comprendere lo fine dell’ascendimento della Vergine Maria. Che; cioè la qual fiamma coronata, cioè la Vergine Maria, si levò appresso sua semenza; cioè dopo Cristo, che fu semenza: imperò che l’umanità ebbe da lei; sicchè prima àe detto l’autore come Cristo si levò et andò suso in cielo nono, e poi dice che si levò in alto la Vergine Maria e seguitò lui. Et induce una similitudine: E come ’l fantolin; cioè lo piccolo fanciullo, che ’n ver la mamma; cioè lo quale in verso la madre, Tende le braccia; cioè sue, perch’ella lo pigli e menilo seco, poichè ’l latte prese; cioè poi che àe beuto la puppa, come addiviene spesse volte che la madre dà la puppa al fanciullo che sta nella culla, e quando gliel’à data si parte da lui et egli tende le braccia, perch’ella lo pigli e menilo seco; et assegna la cagione: Per l’animo che ’nsin di fuor s’infiamma; cioè s’infiamma tanto d’affetto d’entro, che l’affetto mostra di fuora 31. Ciascun di quei candori; cioè di quelli beati spiriti, che tutti splendevano: imperò che àe finto di sopra che quine si rappresentasseno tutti li beati, c di quelli intende ora che tutti si stessono insù, come ’l fanciullo che tende le braccia a la madre; e però dice: insù si stese; in verso la parte superiore dirieto alla Vergine Maria, Co la sua fiamma; cioè ne la fiamma, ne la quale era fasciato; et allegoricamente si debbe intendere che li beati si stendono insù a Dio co la fiamma de la carità, che arde in loro, sì; cioè per sì fatto modo, che l’alto affetto; cioè l’alto amore e ’carità, Ch’elli aveano; cioè lo quale amore essi beati aveano, a Maria; cioè inverso la Vergine Maria, mi fu palese; cioè mi fu manifesto a me Dante per quello scendere, che’elli feceno.

C. XXIII — v. 127-139. In questi quattro ternari et uno versetto lo nostro autore finge che quelli beati spiriti rimanessono quine nel suo aspetto, per introducere sè a parlare con alquanti di loro, dicendo così: Indi; cioè di quinde, cioè poi che ebbono steso le sue fiamme in suso dirieto a la Vergine Maria, rimaser; cioè rimaseno li detti spiriti, lì; cioè in quello luogo, dove l’autore àe finto prima che fusseno, nel mio aspetto; cioè la mia presenzia. Et e qui da notare che lo montare di Cristo prima, e della Vergine Maria poi, e lo rimanere dei beati quine nell’ottava spera, segue non secondo lo suo pensieri: imperò che prima finge che pensò che in quello cielo si rappresentasse tutta la beatitudine de l’umana spezie, [p. 654 modifica]siccome luogo, dal quale per influenzia è proceduta dopo la grazia d’Iddio, la quale prima procede in tutti li atti virtuosi e buoni; poi pensò di fingere d’avere colloquio con loro, e però ebbe prima meditazione sopra l’ascensione di Cristo, poi sopra l’ascensione della Vergine Maria, e poi che parlasse con alquanti de’ beati; e così fingendo verisimilmente, mostra li suoi pensieri e meditazioni, che ebbe componendo questo poema, e però non si debbe intendere così simplicemente. Dice poi: Regina Coeli cantando sì dolce; cioè che li beati rimaseno nel suo pensieri, cantando sì dolcemente quella antifona che canta la Chiesa per la Resurrezione, cioè: Regina cœli laetare alleluja, Quia quem meruisti portare, alleluja, Resurrexit, sicut dixit, alleluja, Ora prò nobis Deum, alleluja. — Che mai da me; cioè Dante, non si parte ’l diletto; cioè 32 lo diletto, lo quale io ebbi pensando e fingendo che tale canto facessono 33 li beati: secondo le sante meditazioni, che l’uomo fa, l’anima sente la dolcezza. O quanto è l’ubertà; cioè o quanta è l’abbondanzia della beatitudine e della gloria; e questo O è interiezione, che significa meraviglia, che si sofolce; cioè che si ripone, In quelle arche ricchissime; cioè in quelli beati spiriti capaci d’essa più arca grandissima, che fuoro; cioè le quali furno, A seminar quaggiù; cioè nel mondo loro virtuose operazioni, de le quali, siccome di seme, ora ricoglieno lo frutto, cioè la beatitudine e la gloria, buone bubolce; cioè buone lavoratrice: lo buono bifolco semina assai e ricoglie assai, e lo tristo semina poco e ricoglie poco; e però dice l’Apostolo 34: Qui parce seminat, parce et metet; et qui seminat in benedictionibus, de 35 benedictionibus et metet. — Quivi; cioè in cielo, si vive e gode del tesoro; cioè in vita eterna si vive dai beati della visione beatifica di Cristo, e di quello godeno li beati, Che s’acquistò; cioè 36 lo quale tesoro s’acquistò, piangendo ne l’esilio Di Babilon; cioè quando lo populo iudaico fu preso da Nabuccodonosor re di Babillonia, e fu menato la e tenuto in servitù; unde lasciorno li canti, li organi e stetteno in lacrime et in pianti, unde mosseno la misericordia d’Iddio a mandare lo suo Figliuolo a prendere carne umana, quando fu tempo, per liberare lo suo popolo da la libertà 37 del dimonio, benchè innanti lo liberasse da la servitù di Babillonia; ma l’autore intese de la prima liberazione e non della seconda, ove si lasciò l’oro; cioè [p. 655 modifica]nella quale Babillonia si lasciò l’oro, che aveva lo detto popolo: imperò che tutta la ricchezza loro fu tolta da quelli di Babillonia. Quivi; cioè nel cielo, triunfa, sotto l’alto Filio 38 D’Iddio e dì Maria; cioè sotto lo nostro signore Iesu Cristo che fu figliuolo d’Iddio, quanto a la deità, e di Maria quanto a l’umanità, di sua vittoria: imperò che li santi triunfano in vita eterna de la vittoria, che ànno avuto nel mondo, dove ànno vinto lo mondo, lo dimonio e la carne. E con l’antico e col nuovo concilio; cioè co li beati del Vecchio Testamento, e co li beati del Nuovo: concilio è congregazione di gente concordevile, Colui, che tien le chiavi di tal gloria; cioè santo Piero, che tiene le chiavi del paradiso, al quale Cristo disse: Et tibi dabo claves regni coelorum. Et quodcumque ligaveris super terram, erit ligatum et in coelis; et quodcumque solveris super terram, erit solutum et in coelis. E così àe introdutto l’autore santo Piero nel suo poema poeticamente, col quale fingerà nel sequente canto che venisse a parlamento. E qui finisce il canto xxiii, et incominciasi lo xxiv de la terza cantica.

Note

  1. C. M. quelli della sinagoga venuti per Cristo alla nuova chiesa che Cristo edificò. E
  2. C. M. Maria e nomina alquanti ch’erano congregati, et
  3. C. M. fronde; cioè come l’uccello sta tra le fronde dell’arbore in sul quale à lo suo nido e però l’ama sollicito et attento, Posato
  4. C. M. cibo; cioè per trovare lo cibo conveniente e necessario ai suoi
  5. C. M. naturali non ne prende fatica; ma diletto: e
  6. C. M. violento, nel quale è girato sotto sopra, secondo lo moto naturale, in 24 ore,
  7. C. M. acquistato dal girare de’ cieli,
  8. C. M. nutricati e conservati in essere invano.
  9. C. M. esprimere la sua letizia. Non
  10. C. M. cioè non rappresentano varie figure, come chi dipinge tutte
  11. C. M. cioè come accende lo nostro Sole mondano, le viste
  12. C. M. vedeva penetrare alli occhi nostri, La lucente,
  13. C. M. strade dal Cielo a la Terra; cioè siccome
  14. Spegna, da spegnare modellato sui verbi della prima coniugazione. E.
  15. C. M. Poeti e delli autori; e scusasi
  16. Polinnia, secondo alcuni vale molto inneggiante, e giusta altri facente molta memoria. La duplice derivazione sarebbe da πολυς molto ed ὕμνεω, inneggiare o cantare inni, o μναω, rammentare, ricordare. E.
  17. C. M. navicella: la prora, che è la prima parte del legno, va fendendo )’ acqua quando lo legno navica; e però
  18. Parca; perdoni, dal parcere latino. E.
  19. C. M. cioè che perdoni a sè medesimo, e non voglia durare fatica.
  20. C. M. io Dante abbo scritto,
  21. Altro’; altrove. E.
  22. C. M. unde passi lo
  23. C. M. potere sostenere, secondo la lettera, lo tuo splendore; ma, secondo l’allegoria, non erano sufficienti a potere perfettamente considerare et intendere la tua beatitudine. Seguita.
  24. Implimè; imprimè, secondo taluni dialetti toscani. E. - C. M. imprimè
  25. C. M. di lei, come la lingua ne parla e la mano ne à scritto, Il qual
  26. C. M. annunziò la incarnazione del Verbo Divino. Onde
  27. Incarnò, s’incarnò, con molto bel garbo adoperato assolutamente. E.
  28. C. M. girerommi sempre, Donna del Ciel; ecco
  29. Costituto, seguendo il latino constitutus. E.
  30. C. M. Maria, e magnificare e lodare sempre lo suo nome. Seguita.
  31. C. M di fuora; e questa similitudine l’adatta a quel che seguita
  32. C. M. cioè che mai da me Dante si partirà lo diletto
  33. C. M. facessono le anime secondo
  34. Nel Codice nostro stava — dice lo Salmista — , che noi abbiamo cambiato in Apostolo: perocchè è san Paolo, che parla così nella Epistola II ai Corinti c. ix v. 6. E.
  35. benedictionibus metet
  36. C. M. cioè di quello tesoro godeno l’anime beate, lo quale s’acquistò, quando
  37. C. M. lo suo popolo dalla servitù del
  38. Filio, giusta il filius latino. E.
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