Cimbelino/Atto terzo
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ATTO TERZO
SCENA I.
Brettagna.
Entrano Cimbelino, la Regina, Cloten, e Lordi da un lato; dall’altro Caio Lucio con seguito.
Cimb. Dinne adesso: che domanda Cesare Augusto?
Luc. Quando Giulio Cesare, di cui vive e vivrà eterna la memoria nel mondo, era in quest’isola da lui conquistata, Cassibelano tuo zio, egualmente illustre e per le lodi prodigategli dal grande imperatore, e per le proprie sue geste, sottomise sè e la propria Corona a pagare a Roma un annuo tributo di tremila monete d’oro: ora, da poco in qua, tu hai dimenticato di adempiere al debito.
Reg. Ben dici; e per isciogliere con una sola parola il fascino, che ti fa tanto maravigliare, sappi che quel tributo andrà dimenticato per sempre.
Clot. Molti Cesari ancora dovranno comparire, primachè un Giulio ritorni! La Brettagna è per sè sola un mondo1; e nulla daremo delle nostre sostanze, perchè accordato ne venga il diritto di respirare il nostro aere nativo.
Reg. Quella medesima opportunità che tanto valse ai Romani, e concorse a farli rapitori de’ nostri beni, ora si offre a noi, perchè abbiamo coraggio di riacquistarli. — Ricordate, o signore, i re vostri proavi; ricordatevi del valore degli abitanti di questa isola, che, come il dominio di Nettuno, è fiancheggiata d’inaccessibili scogli, cinta di roccie e di mari in tempesta, che mai non sopporteranno nemici vascelli, ma gli ingoieranno fino alla cima degli alberi. È ben vero che Cesare fe’ quivi una specie di conquista; ma non potè già dire colla sua iattanza: Venni, vidi, vinsi. Qui all’opposto, conobbe per la prima volta il rossore della vergogna: di qui respinto due volte, si vide due volte disfatto2; e le inesperte sue navi, ludibrio dei nostri terribili mari, tempestate come fragili gusci dalle onde, si frangevano contro gli scogli. L’illustre Cassibelano fu in procinto, oh invida e ingannatrice fortuna! d’impadronirsi della spada di Cesare. Trionfante e giulivo, egli fece splendere la città di Lud3 di fuochi d’allegrezza; e quella vittoria riempì di coraggio il cuore dei Britanni.
Clot. Su, su! non v’è più tributo da pagare: il nostro regno è più potente che mai non sia stato; e, come già dissi, non vi sono più Giulii Cesari: altri potranno avere i lineamenti del suo riso, ma la forza del suo braccio non è più di nessuno.
Cimb. Lasciate, figliuol mio, che vostra madre conchiuda.
Clot. Presso di noi sono molti Brettoni non meno forti e vigorosi di Cassibelano; io non mi porrò già nel numero; ma a me pure fu dato un braccio. — Un tributo? e perchè dovremmo pagarlo? Se Cesare può, mediante una densa cortina, asconderne il sole, o strappar la luna dai cieli, e porlasi entro i panni che lo coprono; allora gli pagheremo un tributo per rivedere la luce: se no, mettiamo in silenzio queste contribuzioni.
Cimb. Tu dovresti saperlo, Lucio: prima che gl’ingiusti Romani ne avessero estorto quell’ingiurioso balzello, noi eravamo liberi: la sola ambizione di Cesare, quell’ambizione che ad ogni istante cresceva, e che avrebbe abbracciato l’universo, quella fu che ingiustamente ne impose questo giogo, che un popolo generoso, quale siamo, è in dovere di scuotere. Dirai dunque a Cesare, che il nostro avo fu quel Mulmuzio che ci diè leggi, cui la spada di Cesare ha già troppo mutilate: richiamar quelle leggi nel pristino loro vigore sarà opera nostra, per quanto Roma se ne potesse sdegnare. Sì; Mulmuzio ne diede le leggi; ei fu che primo fra i Brettoni si cinse d’aurea corona la fronte; primo che si fece chiamare col nome di re.
Luc. Dolgomi, Cimbelino, di dovere dichiarar tuo nemico Cesare Augusto, che ha comandato sopra maggior numero di re, che non tu sopra gregari. In nome di lui dunque ti annunzio guerra e rovina: apparecchiati a una bufera a cui nulla potrà oppor resistenza. Dopo questa dichiarazione, ti son grato dell’accoglienza che ho ricevuto nella tua corte.
Cimb. In questo luogo sei sempre il benaccolto, Lucio; il tuo sovrano mi nominò cavaliere; nel suo campo ho passato una gran parte della mia giovinezza; da lui m’ebbi onori: e se adesso ei cerca rapirmeli, la sua violenza mi obbliga a difenderli fino all’ultimo di mia possa. — Ben so che i Pannoni e i Dalmati, per tutelare le loro franchigie, stanno ora sull’armi; e se i Britanni in questo esempio non leggessero il loro dovere, insensibili e codardi si mostrerebbero: ma no! Cesare non ci troverà tali.
Luc. I fatti lo daranno a vedere.
Clot. Il re vi fa onore; passate allegramente alcuni giorni con noi: se poi tornerete con altri intendimenti, ne troverete cinti dai nostri mari rimugghianti. Ove di qui ne aveste a cacciare, quest’isola sarà vostra; ma se l’impresa vi fallisce, i nostri corvi faranno di voi banchetto lautissimo per gran tempo.
Luc. Sia pure, signore.
Cimb. Conosco i voleri del tuo signore, e a lui son noti i miei. Una sola parola mi resta a dire: sii il benvenuto alla mia corte.
(escono)
SCENA II.
Altra stanza.
Entra Pisanio.
Pis. Oh! d’adulterio? d’adulterio scrivesti? Ma perchè non riveli i traditori che l’hanno accusata? Postumo! mio signore! quale insolito veleno è mai penetrato nel tuo cuore? qual perfido italiano dalla lingua e dalla mano avvelenata ha potuto sedurre il tuo orecchio? Ella infedele? oh troppo credulo e ingiusto! No! vittima è invece della sua fedeltà; e più come dea, che come donna, sostiene assalti, che trionferebbero della stessa virtù. Mio signore! la tua anima, dinnanzi alla sua, è adesso caduta più in fondo, che non la tua stessa fortuna..... Io dovrei ucciderla..... per l’amore, per la fede, pei giuramenti che ho fatto di ben servirti? Io?..... lei? uccider lei?.... Se questo è un renderti servigio, ch’io non te ne renda più alcuno! Quale aspetto presenta dunque il mio volto, perchè io venga riputato tanto inumano da commettere opera sì atroce? (leggendo una lettera) Fàllo: la lettera che ti spedisco per lei, te ne appresterà il modo; e sembrerà che tu eseguisca solo i suoi ordini..... Oh dannato foglio, nero come l’inchiostro con cui fosti vergato! Carta insensibile, puoi tu esser complice di sì nefanda opera, e presentare nello stesso tempo agli occhi il puro candore dell’innocenza?..... Ah! essa viene (entra Imogène): ho già tutti dimenticati gli ordini espressi in questa lettera.
Imog. Ebbene, Pisanio?
Pis. Ecco, madonna, una lettera del mio signore.
Imog. Chi? il tuo signore? è pure il mio: non è Postumo? Oh ben dotto sarebbe l’astronomo che conoscesse le stelle, come io conosco il carattere di lui! il libro dell’avvenire gli sarebbe aperto! — Fate, o propizi Dei, che questa lettera non respiri che amore; non parli che della salvezza del mio sposo, che dei suoi contenti! Ma pure v’hanno utili dolori; e quello della nostra lontananza è tale, poichè rinnova e fortifica l’amore... Ma, tranne questa pena, tutto il resto sia letizia per lui. Cera adorata, concedi..... (dissuggellando la lettera) Siate voi felici, o api, che avete parte a formare questi suggelli dell’amore! Ah quanto diversi voti fanno gli amanti e gli uomini avvinti da patti rei! Tu, tu guidi il colpevole nelle prigioni; ma raffermi pure gli scritti della passione! — Fate, o Dei pietosi, che queste novelle mi siano favorevoli! (legge)
La giustizia e il cruccio di vostro padre, s’ei mi sapesse nei suoi Stati, non saranno mai tanto terribili per me, che voi non possiate, o la più tenera delle spose, rianimarmi con un solo vostro sguardo. Sappiate quindi ch’io sono a Cambria, alle spiaggie di Milford4. Seguite ora quel consiglio che l’amore vi detta: la vostra perfetta felicità è l’unico voto di chi si conserva fedele a’ suoi giuramenti, e il di cui amore va ogni giorno crescendo. Leonato Postumo.
Oh perchè non posseggo io cavalli alati! Intendesti, Pisanio? ei giunse a Milford: leggi; e dimmi quanta è la distanza. Se un uomo, chiamatovi da una lieve cagione, può lentamente far questo viaggio in una settimana, non potre’io compierlo nello spazio d’un giorno? orsù, fido Pisanio; tu, che aneli com’io di rivedere il tuo signore..... ah! non com’io..... ma tu pure lo desideri..... Rispondimi dunque; e rapide siano le tue parole; chè un confidente d’amore deve affoltarle in disordine all’orecchio di un amante. — Quanto spazio si frappone da qui al fortunato Milford? Per strada, vo’ che mi narri per qual felice evento il paese di Galles possiede quel porto. — Ma anzi tutto, come partire di qui? come velare la nostra assenza? Ah! prima pensiamo a fuggire, poi alla scusa. — Di grazia, quante ventine di miglia potremo noi percorrere in un’ora?
Pis. Una ventina dal tramontare al sorgere del sole: questo, o signora, è abbastanza per voi, e forse troppo.
Imog. Oh! un infelice che s’incamminasse al patibolo, non potrebbe andare più lento. Ho sentito parlare di coppie di cavalli più lievi e rapide al corso, che i granelli di sabbia de’ nostri oriuoli; ma erano certo racconti favolosi. — Va; di’ alla mia ancella che simuli una infermità, che mostri desiderio di recarsi a veder suo padre; e apprestami intanto un abito da viaggio, semplice come quello della moglie di un onesto colono.
Pis. Signora, pensate...
Imog. Veggo la strada che mi sta innanzi, Pisanio: nè posso o voglio veder nulla di più; i miei occhi sono chiusi ad ogni altro oggetto. Affrettiamoci, te ne prego; fa quello che ti ho imposto; null’altro a dir mi rimane; non conosco, non ho davanti a me che il cammino che conduce a Milford. (escono).
SCENA III.
Il paese di Galles.
Luoghi alpestri; dinanzi una caverna, da cui escono Belario, Guiderio e Arvirago.
Bel. Oh qual bel giorno! esso non deve lasciarsi trascorrere sotto un tetto basso com’è il nostro. Fermatevi, giovani; e inginocchiatevi per compiere il vostro uffizio mattutino: questa porta v’insegna come si adori il Cielo: le soglie dei monarchi hanno volte sì elevate, che possono passarvi sotto empissimi giganti tenendo il turbante sulle loro teste insolenti, senza far omaggio al sole. Salute a te, bellissimo Cielo! noi non abitiamo che fra le roccie; ma non siamo verso di te ingrati, come i potenti della terra.
Guid. Salute, o Cielo!
Arv. Bel Cielo, salute!
Bel. Andiamo a’ nostri diporti: correte, e superate quell’alta montagna. Le vostre gambe sono giovani: io procederò per il piano; e quando da quell’altura mi scorgerete piccolo come un uccello, riandate allora colla memoria tutto ciò che vi ho narrato delle corti, dei principi, e degli intrighi delle grandi città, dove la buon’opera sovente è sconosciuta, e la iniqua frutta. Così meditando, vi troverete lieti del vostro stato, e conoscerete che la cicala vive non di rado in luogo più sicuro, che l’aquila rapace. Oh! la vita che noi qui conduciamo è più nobile assai di quella che si vive fra adulazioni e ripulse; più ricca di quella che si consuma in vane opere, per ricompense ancora più vane; più virtuosa della vita del cortigiano che fa pompa di dovizie accattate colla sua bassezza; no, non è vita paragonabile a questa nostra.
Guid. Voi parlate per esperienza; ma noi fanciulli, ignari a guisa d’augelletti che non per anco si sono staccati dal loro nido, noi non sappiamo qual aere si respiri lungi dal nostro asilo. Forse questa vita è la più felice per voi, se felicità e riposo sono a’ vostri occhi una medesima cosa: essa vi sembra forse la più dolce, perchè una più dura ne avete sperimentata; essa si addice fors’anco meglio alla gravità de’ vostri anni: ma per noi questo genere di esistenza è doloroso; questa è per noi una prigione d’ignoranza; e qui viviamo come colpevoli costretti dalla legge entro angusti confini.
Arv. Di che potrem noi parlare quando saremo invecchiati come voi siete? in che modo, allorchè raccolti nel fosco dicembre udremo la pioggia e i venti imperversare, in che modo, dico, standoci in quella squallida caverna, potremo alleviare, insieme favellando, le tarde ore del verno? Noi non abbiam veduto nulla; siamo simili agli animali privi di ragione; astuti come le volpi, avventati come i lupi, valorosi soltanto in perseguitare chi fugge; e, a similitudine d’un augello prigioniero nella sua gabbia, cantiamo cogli accenti degli uomini liberi la nostra schiavitù.
Bel. E potete così parlare? Ah! se note vi fossero soltanto le non mai sazie usure delle capitali, e ne aveste fatta voi stessi la trista prova; se conosceste gli artifizi delle corti, cui sì difficile è l’abbandonare, come difficile è il mantenervisi; e nelle quali l’istante medesimo, che in alto vi solleva, è pur quello che vi precipita; e dove la china è sì lubrica, che il timor del cadere è funesto quanto la stessa caduta: se ignari non foste delle fatiche della guerra, doloroso mestiere in cui si cerca sempre il pericolo in nome dell’onore; in cui questo istesso onore nel ricercarlo svanisce, e ottiene egualmente spesso in morte, come a monumento di gloria, un epitaffio denigratore (imperocchè quante volte non fu punito l’onore? quante nol furono le buone opere, quante volte non dovette l’ingiustamente oltraggiato sorridere al proprio biasimo?); oh! se ciò conosceste, giovani, allora... e di ciò io vi sono verace testimonio: il mio corpo è coperto di margini stampatevi dai brandi romani; e fu un dì, che la mia fama suonò illustre al pari di quella d’ogni altro capitano. Cimbelino mi amava; e ove occorresse discorso di valorosi guerrieri, il mio nome veniva tosto pronunziato. Era quello il tempo in cui l’albero vedeva i suoi rami incurvati sotto il peso de’ frutti: ma una notte tuonò la buféra; le saporose poma andarono peste e cincischiate; e nudato di fiori e di foglie rimase lo squallido tronco: — quell’albero son io.
Guid. Oh instabilità della fortuna!
Bel. E il fallo mio, come sovente vi ho detto, non fu che il delitto di due scellerati, i cui falsi giuramenti prevalsero sul mio onore mondo d’ogni rimprovero. Coloro affermarono con sacramento a Cimbelino, ch’io aderiva ai Romani: per questo venni bandito; e già da venti anni queste sole roccie e queste foreste sono per me l’universo: qui vissi onoratamente libero, e pôrsi al Cielo più grazie, che non in tutto il precedente corso della mia esistenza. — Ma questi non sono discorsi che si addicano ad un cacciatore: varchiamo correndo quelle montagne; e quegli che primo atterrerà la preda, sarà il re della festa; e gli altri due lo serviranno, esente dal timore di que’ veleni che ognora si apprestano ai potenti. Su, andate: io vi raggiungerò nella vallea. (Guiderio e Arvirago escono) Come difficile è il soffocare gl’istinti della natura! que’ due giovani non sanno d’esser figli di un re; e Cimbelino non crede ch’essi vivano ancora: allevati nell’oscurità di quella caverna, essi si credono figli miei; e nondimeno i loro pensieri si compiaciono fra le grandezze della terra: nelle più comuni e volgari operazioni la natura imprime nei loro lineamenti un non so che di regio, di gran lunga superiore ad ogni altrui artifizio. Quel Polidoro, erede di Cimbelino e della Brettagna, che suo padre chiamava Guiderio, oh Giove! quando seduto sul mio scanno io gli narro le guerresche imprese della mia gioventù, l’anima di lui mi si slancia incontro. Quando io dico: così cadde il mio nemico; così vincitore gli fui sopra coi piedi; il nobile suo sangue sale a incolorirgli le gote, il sudore gli bagna la fronte; e diversamente atteggiandosi, a seconda della mia narrazione, assume l’aspetto d’un magnanimo eroe. Nè il suo minor germano, Cawdal, altra volta Arvirago, dissente dal bellico ardore onde avvampa il fratello. — Ma odo che la loro caccia è già incominciata. — Oh Cimbelino! il Cielo e la mia coscienza sanno che m’hai ingiustamente bandito; e, in ricambio di ciò, io ti rubai i fanciulletti tuoi figli, privandoti d’eredi, come tu avevi spogliato me di patrimonio. Eurifila, tu fosti loro nudrice! essi t’ebbero in conto di madre; e ogni dì si recano devoti a venerar la tua tomba. Io pure, io Belario, chiamato ora Morgan, sono da loro riputato padre. — Ma la caccia è finita.
(esce)
SCENA IV.
Le vicinanze di Milford.
Entrano Pisanio e Imogène.
Imog. Tu mi dicevi, scendendo dal cavallo, che eravamo presso al porto. Pisanio, dov’è Postumo? Sua madre non desiderò tanto di vederlo appena nato, come io ora desidero. — Ma quali pensieri ti si aggirano pel capo, perchè abbi a trasalire così? perchè quel represso sospiro che ti sfugge dal profondo del cuore? un ritratto che presentasse le tue sembianze, indicherebbe un uomo assai agitato e perplesso: imprimi alla tua fisonomia un’espressione meno spaventosa; altrimenti il terrore agghiaderà tutti i miei sensi. — Ma che è questo? perchè mi porgi quel foglio con occhio sì torvo? s’ei mi arreca liete novelle, dimmelo con un sorriso; ma se funeste, ah! serba soltanto quel volto; ei mi parla abbastanza. — Vergato dal mio sposo? quella dannata Italia gli avrebbe forse co’ suoi veleni teso qualche insidia? certo ei si dibatte in qualche grande pericolo. — Uomo, favella: tu colle tue parole puoi addolcirmi questa sciagura, che, ove dovessi leggerla, mi tornerebbe mortale.
Pis. Vi prego, leggete; e vedrete in me un infelice bersaglio dell’avversa fortuna.
Imog. (legge) La tua signora, Pisanio, ha contaminato il mio letto; ed io ne porto scolpite le prove nel cuore, che geme e dà sangue. Nè m’induco a dir questo dietro vani sospetti; ma con convinzione forte come la speranza della mia vendetta. Questa vendetta, Pisanio, devi assumerti per me. Se l’esempio della fede da lei tradita non ha corrotto la tua, la devi tôrre di vita. Io stesso te ne fornirò il modo al porto di Milford. Le scrivo perchè vi accorra: là giunta, se non la uccidi, nè sicure prove mi somministri d’avermi vendicato, ti avrò in conto di suo vile mezzano, e ti terrò per più infedele di lei.
Pis. Non avrò d’uopo di armi: quello scritto l’ha già abbattuta. Oh calunnia! il tuo taglio è più aguzzo di quello delle spade; la tua lingua più velenosa, che non tutti insieme i serpenti del Nilo; l’impura tua voce vola sull’ali dei venti, e semina l’impostura in quanti angoli ha la terra! Re, imperadori e regine, vergini e spose, tutto avvelena questa vipera; s’insinua fin nei segreti delle tombe... Signora, rincoratevi...
Imog. Io infedele al suo letto? che è l’esservi infedele? è forse il vegliarvi le intere notti non pensando che a lui? forse il piangervi al suono di tutte le ore? o il dibattervisi cento volte agitata con dinanzi la sua immagine, ansiosamente gridando, ove infausti sogni avessero per brev’ora assopita la stanca natura? è egli così che si contamina il letto coniugale?
Pis. Oimè, buona signora!
Imog. Io ingannatrice? la tua coscienza, Jachimo, m’è testimone... tu fosti che primo lo accusasti a me d’infedeltà; e allora mi sembrasti uno scellerato; ma oggi non mi sembri più tale. — Qualche sirena5 d’Italia, debitrice di tutta la sua bellezza a’ suoi artificii, avrà ammaliato il suo cuore; ed io, infelice! non sono omai che un oggetto venuto fuor di moda, e di cui è mestieri disfarsi. — Oh i voti degli uomini non sono che lacci tesi alle misere donne! Dopo la tua perfidia, o mio sposo, nessuno darà più fede alla sincerità degli amanti; il volto, in cui si pinge la tenerezza, si crederà una maschera straniera a chi la porta, e non ad altro posta, che per deludere e tradire le credule donne.
Pis. Mia cara signora, ascoltatemi.
Imog. Tempo fu, che il tradimento d’Enea fe’ riputar perfidi tutti i fedeli amatori; tempo, in cui i pianti del subdolo Sinone tolsero credenza a lagrime veraci, e defraudarono di pietà chi era veramente sfortunato: e allo stesso modo, Postumo, il tuo esempio farà che tutti gli uomini probi sieno calunniati; che molti generosi e fidi amatori vengano, dopo il tuo delitto, creduti spergiuri e ribelli. — Ora, Pisanio, sii fedele al tuo signore; eseguisci i suoi ordini: e quando lo rivedrai, attestagli la mia obbedienza. — Vedi? io stessa denudo il tuo ferro; ricevilo dalle mie mani; e immergilo in questo cuore, innocente asilo dell’amor mio. Non temere: già altro sentimento ei più non nutre, che quello della disperazione; il tuo signore più non vi regna, egli che ne era l’unico tesoro! Fa quanto ti ha imposto: ferisci!... Vacilli...? più sicuro saresti forse in causa più giusta; ma in quest’istante tu apparisci codardo.
Pis. O vile arma, lungi da me! non brutterai già tu la mia mano.
Imog. Conviene ch’io muoia; e se non soccombo per tua mano, tu non obbedisci al tuo signore. — Contro il suicidio sta la maledizione del Cielo, che intimidisce il debole mio braccio. — Ardisci! ecco il mio cuore... ecco il mio seno... immergivi la tua spada, nascondivela fino all’elsa..... Ma che veggo io su questo seno? le lettere di Leonato..... promesse di amore, vólte tutte in spergiuri. — Lungi, lungi da me, corruttrici della mia fede! più non sentirete i palpiti di questo cuore! — Così dunque i poveri insensati, si lasciano adescare dai discorsi di perfidi seduttori? Ma se l’infelice tradita soffre crudelmente del tradimento, il traditore ne è punito con mali più grandi ancora: e tu, Postumo, che m’incitasti a disobbedire il re, tu, per il quale ho sdegnato disposarmi a principi miei eguali, tempo verrà in cui conoscerai che questo non era per me un sagrificio di poco momento, ma un grande e rarissimo sforzo; e già mi affligge il pensare quanto un giorno, allorchè il tuo furore contro colei che ora odii sarà cessato, quanto allora la memoria di me tormenterà la tua anima. Pisanio, te ne scongiuro, poni fine a ogni indugio: la vittima implora il tuo colpo6. Dov’è il tuo pugnale? brandiscilo! tu sei troppo lento nell’obbedire al tuo signore, il cui volere concorda col mio desiderio.
Pis. O gentile Imogène, dacchè ho ricevuto questo comando, il sonno non ha più potuto chiudere un solo istante le mie palpebre.
Imog. Adempilo; poi cerca riposo.
Pis. Vorrei prima vegliare fino a diventar cieco.
Imog. E allora perchè assumerti l’ufficio? perchè farmi valicare inutilmente tante miglia con un mendace pretesto? — Il luogo, l’istante, la mia fuga, il tuo viaggio, la fatica di questa corsa, tutto, tutto ti invita; nè vorrai aver per inosservata la confusione in cui la mia assenza avrà gettata la corte. Là io non tornerò più; l’ho fermamente risoluto. Perchè imprendesti tanto, per poi iscoraggirti a metà del cammino, quando la tua vittima ti sta sottomessa dinanzi?
Pis. Per guadagnar tempo, onde evitare così empio ministerio; e a ciò erano vólti i miei pensieri durante il viaggio. Mia cara signora, abbiate la bontà di ascoltarmi.
Imog. Parla fino a stancarne la tua lingua; parla! ho inteso chiamarmi impudica; il mio orecchio fu lacerato dall’infame parola; nè posso ricevere omai ferita più crudele, o balsamo risanatore: ti ascolto.
Pis. Ebbene, signora, parmi che non dobbiate più tornare sull’orme vostre.
Imog. Grande apparenza ve n’ha, dovendo tu uccidermi in questo luogo.
Pis. No, mai, mai! e se l‛ingegno non la cede al cuore, il mio trovato riescirà a buon fine. È impossibile che il mio signore non sia stato deluso: qualche tenebroso traditore lo ha certo ingannato.
Imog. Qualche cortigiana di Roma...
Pis. No, sulla mia vita! — Farò sapere a Postumo che voi non siete più; e gliela manderò qualche sanguinoso indizio chè tale fu il suo comando: la vostra assenza dalla Corte darà fede al racconto.
Imog. Ed io, buon amico, che farò intanto? dove abiterò? come trarrò la vita? quale esistenza mi aspetterebbe dopo che fossi morta pel signor mio?
Pis. Se tornate alla Corte.
Imog. Non più Corte, non più padre! non vo’ più veder quel vilissimo principe, quell’essere nullo, quel Cloten, le cui assiduità mi tornavano più infeste, che non un assedio a una città senza difese.
Pis. Ma se rinunciate alla Corte, non potrete più rimanere in Brettagna: e dove anderete?
Imog. Che dici? dove anderò. Il sole non isplende egli forse che su questo paese? forse in Brettagna soltanto vi sono i giorni e le notti? Quando si dice mondo, la Brettagna, è vero, vi è compresa; ma essa ne è separata; ed altro non è che il nido di un cigno in mezzo ad un immenso stagno: credi, te ne prego, che v’hanno uomini anche fuori di Brettagna.
Pis. Son ben lieto che pensiate a scegliere altro soggiorno: l’ambasciatore romano giunge stanotte a Milford: se conformar poteste il vostro esteriore allo stato della vostra fortuna, e celare sotto mentite spoglie quella grandezza che non può mostrarsi senza pericolo, voi fareste un piacevole viaggio, e sareste a tale di vedere... chi sa? forse potreste stanziare vicino a Postumo; ed ivi, se non vi fosse dato di osservare tutte le sue azioni, potreste almeno udirne ad ogni istante il racconto.
Imog. Oh! per venire a tanto, tutto arrischierei, tranne il mio onore.
Pis. Ebbene, ecco il mio disegno. Voi dovete dimenticare di esser donna; mestieri v’è il far prova di rassegnazione: e, obbliando il timido pudore proprio del vostro sesso, o, per meglio dire, essenza delle vostre grazie, armarvi dell’audacia d’un giullare lepido nelle risposte, acre e insolente come un troppo accarezzato cagnuolo. Sì, negliger dovete la tinta delicata del vostro volto, non curar quelle guancie di rose, ed esporle... (oh crudo consorte!)... agli avidi baci dell’impudico sole: rinunziar vi è forza a tutti i vostri eleganti adornamenti, e a quella mondizia della persona, che rende gelosa di voi la stessa Giuno.
Imog. Ebbene, poche parole: veggo il tuo intento, e mi sento già quasi uomo.
Pis. Cercate almeno di sembrar tale: l’abito io l’ho apparecchiato. Volete, così travestita, simulare i portamenti d’un giovinetto, e presentarvi al nobile Lucio chiedendogli pane? Egli conoscerà tosto i vostri talenti; e se il suo orecchio è sensibile all’incanto della musica, non dubito che con sommo diletto non v’impieghi presso di sè, perocchè egli è grande, e pieno di virtù. Quanto al vostro benessere, sapete ch’io sono ricco, e non mancherò di provvedere ai vostri bisogni.
Imog. Tu se’ l’unica consolazione che gli Dei mi lasciano in tanto affanno. Di grazia, allontanati: molte considerazioni rimarrebbero a farsi; ma seguiremo il nostro filo a misura che il tempo lo svolgerà. Mi sento in petto l’anima d’un guerriero per accingermi a quest’impresa; e sosterrò la mia parte coll’ardire di un principe: ma separiamoci, te ne scongiuro.
Pis. Brevi debbono essere i nostri addii, signora: se la mia assenza venisse notata, potrebbe indurre sospetto alla corte, che avessi favorita la vostra fuga. — Accettate, ve ne prego, questa fiala: io l’ebbi dalla regina, e contiene un prezioso liquore: se il mare vi dà disagio, o se le forze vi abbandonano per terra, una stilla di questo dissiperà i vostri mali: addio! Cercate qualche benigna ombra, e vestite gli abiti del sesso che volete simulare... Possano gli Dei esservi guida alla vostra felicita!
Imog. Essi ti esaudiscano! io ti ringrazio. (escono)
SCENA V.
Una stanza nel palazzo di Cimbelino.
Entrano Cimbelino, la Regina, Cloten, Lucio e Lordi.
Cimb. Io ti lascio: addio.
Luc. Ve ne so grado, Maestà: ho ricevuto l’ordine di partire di qui, e duolmi di doverlo fare riguardandovi come nemico dell’imperatore.
Cimb. I miei sudditi, Lucio, sono stanchi del giogo; e indegno sarebbe di un re il mostrarsi meno bramoso della propria indipendenza, degli uomini a cui comanda.
Luc. Tutto ho già detto, Sire: ora non chieggo che una scorta fino a Milford. — Signora, accogliete i voti ch’io faccio per la vostra felicità, ed accoglieteli voi pure.
Cimb. Lôrdi, voi dovete accompagnarlo: non obbliate alcun onore che gli sia dovuto: addio, nobile Lucio!
Luc. La vostra mano, principe.
Clot. Che è mano d’amico, ma che in breve sarà di nemico acerbo.
Luc. L’evento chiarirà il vincitore: addio.
Cimb. Non vi scostate, miei buoni lôrdi, dal generoso Lucio, finch’egli non abbia passato il Severno. — Siate felice. (Lucio esce col seguito)
Reg. Egli ne lascia con occhio minaccioso; ma il suo cruccio fa appunto la nostra gloria.
Clot. Fortunato è l’evento: la guerra è il voto concorde dei vostri prodi Brettoni.
Cimb. Lucio ha già fatto instrutto delle nostre determinazioni l’imperatore: necessario è quindi che i nostri carri e la nostra cavalleria siano prontamente allestiti: le legioni galliche saranno tra poco raccolte e verranno a portarci guerra.
Reg. I momenti sono preziosi; conviene apprestarsi a questa lotta con diligenza e valore.
Cimb. Sapendo che ciò doveva avvenire, io ho già adottate molte disposizioni. — Ma, gentil mia regina, nostra figlia dov’è? essa non è comparsa innanzi all’ambasciatore; nè oggi ha sciolto verso di noi i suoi filiali doveri. Io la credo di tempra più acre che doverosa: me ne sono avveduto. Fatela venire alla nostra presenza: noi siamo troppo indulgenti a’ suoi difetti. (esce un ufficiale del seguito)
Reg. Signore, dopo l’esilio di Postumo, essa conduce una vita assai solitaria; e il tempo solo può risanarla. Ve ne scongiuro, Maestà, non adoperate con lei troppo severe parole: un’anima ha così sensibile ai rimproveri, che parole troppo aspre potrebbero cagionare la sua morte. (rientra l’uffiziale)
Cimb. Ebbene, verrà? come può ella aonestare i suoi dispregi?
Uff. Debbo dirvelo, signore? le sue stanze sono tutte chiuse, nè alcuno ha risposto alle nostre ripetute chiamate.
Reg. Sire, l’ultima volta che l’ho veduta, ella mi ha pregato di scusare presso di voi la sua profonda solitudine, alla quale dice di esser forzata dall’indebolimento di sua salute, supplicandomi acciò v’inducessi a riguardare con occhio compassionevole il suo stato: le gravi bisogne di corte mi avevano fatto dimenticare la sua preghiera; non gliene vogliate dunque dar carico.
Cimb. Chiuse le sue stanze! e invisibile già da alcuni giorni! Cielo, non fare che i miei sospetti si avverino! (esce)
Reg. Figlio, seguite il re.
Clot. Quell’uomo che le è affezionato, quel vecchio Pisanio, anch’egli è invisibile già da due giorni!
Reg. Accompagnate il re. (Cloten esce) Pisanio ebbe da me un liquore... e prego il Cielo che la sua assenza derivi dall’averne assaggiato... Ma ella dove può essere andata? forse, presa da disperazione o da amore, è fuggita in traccia del suo diletto Postumo? Certo s’incammina alla morte o al disonore; e sì l’uno che l’altra torna egualmente propizio al mio intento: se è fuggita, a mio senno dispongo di questa corona; se morta... (Cloten rientra) Ebbene, figliuol mio?
Clot. La sua fuga è sicura: presto! andate dal re: egli è in preda a tutta la collera, e nessuno osa appressargli.
Reg. Bene sta: possa questa notte d’angoscia privarlo del dimani! (esce)
Clot. Io l’amo e l’odio ad un tempo, perchè è bella e degna del trono, e possiede più vezzi ella sola, che tutte le altre donne insieme. Sì; accoppiando a lei quante altre bellezze sono sparse quaggiù, ella tutte le vince; ed è per questo ch’io l’amo: ma d’altra parte i suoi dispregi per me, i suoi favori per quel vile Postumo oscurano a’ miei occhi le doti del suo ingegno, offuscano ogni sua perfezione, indi mi sento incitato all’odio e alla vendetta, avvegnachè l’ingiuria... (entra Pisanio) Chi è là? chi sei tu? vieni oltre... Ah vile mezzano! dov’è la tua signora? rispondi, o ti mando fra gli estinti.
Pis. Oh mio buon signore!
Clot. Dov’è la tua signora? Per Giove, non tel chiederò tre volte, astuto scellerato! o ti strapperò dal cuore questo segreto, o ti strapperò il cuore per ricercarvelo. Parla! sarebbe ella con Postumo? con quel vile, con quel codardo, con quell’uomo di fango?
Pis. Oimè, mio signore, come può ella essere con lui? da quanto tempo partì di qui? egli è a Roma.
Clot. Ella, ella dov’è, sciagurato? vieni; appressati di più; non inutili indugi; appagami tosto: che è avvenuto di lei?
Pis. Oh mio nobile principe!
Clot. Nobile scellerato! dimmi, dov’è la tua signora? Parla..., non adulazioni... parla; o il tuo silenzio segnerà sull’istante la tua condanna.
Pis. Ebbene, signore, in questo scritto troverete tutto quello che mi è noto intorno alla sua fuga. (presentandogli una lettera)
Clot. Vediamo: la perseguiterò fino al trono d’Augusto.
Pis. (a parte) O cedere, o morire: ma essa è abbastanza lontana, perch’ei possa correre sulle sue orme senza cagionarle verun pericolo.
Clot. (leggendo) Ah!
Pis. (a parte) Scriverò al mio signore che è morta. Oh Imogène! possa tu esulare senza sventure, e un dì tornar felice nella tua patria!
Clot. Iniquo! dice questa lettera il vero?
Pis. Almeno lo credo, principe.
Clot. Essa è di mano di Postumo; lo conosco. — Sciagurato! se tu non volessi essere traditore, ma fedelmente servirmi, porre tutto il tuo ingegno in quello che io ti commettessi, compiere ogni più infame opera che al tuo senno affidassi, allora ti crederei uomo dabbene; e tu non mancheresti nè di danaro per vivere, nè di suffragi per divenire potente.
Pis. Ebbene, mio buon signore?
Clot. Vuoi tu servirmi? Giacchè sei suscettibile di riconoscenza, e con tanta costanza e pazienza ti attieni alla misera fortuna di quel vile Postumo, a più gran ragione appigliar ti dovresti da fido servitore alla mia. Parla, vuoi servirmi?
Pis. Lo voglio.
Clot. Dammi la mano: eccoti la mia borsa. — Conservi tu ancora alcuno degli abiti del tuo antico signore?
Pis. Sì, Principe: a casa mia serbo quell’abito medesimo ch’egli vestiva il giorno del suo congedo dalla principessa.
Clot. Dàllo a me: sia questo il tuo primo servigio; incomincia da ciò.
Pis. Sarà fatto, mio signore. (esce)
Clot. Per incontrarti al porto di Milford... Ma ho dimenticato di domandargli una cosa: me ne ricorderò fra poco. — In quel luogo, sì, in quello io vuo’ ucciderti, vilissimo Postumo! Perchè non ho già in mia mano quell’abito? Un giorno ella diceva (amara me ne ritorna la ricordanza e mi dilania il cuore), ella diceva d’avere in maggior pregio il più logoro de’ vestimenti di Postumo, che non tutta la mia nobile persona. Ora, vestito di quell’abito medesimo, vo’ abusare di lei, e poscia uccidere Postumo sotto gli occhi della sua bella. Allora ella conoscerà qual fosse il mio valore, e darà in disperazione per l’opinione fallace che nudriva di me. Ucciso il drudo, e copertolo d’insulti, e sfogata su di lei la mia passione, la ricondurrò in corte, e l’avrò sommessa ad ogni mio volere. I dispregi ch’ella mi ha compartiti, saranno con eguali dispregi vendicati. (rientra Pisanio coll’abito) Queste sono le vestimenta?
Pis. Queste, mio nobile signore.
Clot. Da quanto tempo è ella partita per Milford?
Pis. Da esservi appena giunta ora.
Clot. Porta nella mia stanza questi abiti: è la seconda cosa che ti comando. La terza è, che tu sia muto sopra tutti i miei disegni: obbediscimi, e la tua fortuna è sicura. — È a Milford che dee scoppiare la mia vendetta! Perchè non ho io le ali per recarmivi di volo? — Vieni; e siimi fedele. (esce)
Pis. Tu mi comandi la mia vergogna; perocchè esser fedele a te, è un divenire, quel che non sarò mai, traditore del più sincero degli uomini. — Va; corri a Milford per non trovarvi colei che insegui. — Cielo! fa scendere sopra Imogène tutte le tue benedizioni! possano moltiplici ostacoli intiepidire l’ardore di questo insensato; ed una vana fatica sia la sua ricompensa! (esce)
SCENA VI.
Dinanzi alla caverna di Belario.
Entra Imogène in abito da giovinetto.
Imog. Veggo che la vita dell’uomo è cosa dolorosa... già quasi più non mi reggo... e la nuda terra da due notti mi è letto. Soccomberei ad ogni passo, se il pensiero che mi anima non mi sostenesse. Milford! quando dalla cima di un monte Pisanio, ti mostrava a me, tu eri a misura della mia vista, ma, oh Dei! credo che le mura a cui gli sventurati inviano i loro sospiri, fuggano dinanzi a loro; quelle almeno, entro cui troverebbero asilo e conforto. — Due mendichi mi hanno detto che non poteva fallire la via... Due sciagurati oppressi dalla miseria, potranno essi mentire? niente v’è che lo renda impossibile, perchè anche i ricchi tradiscono la verità; e ingannare nuotando nell’opulenza, è maggiore delitto che mentire quando vi siamo spinti dai dolori e dalla indigenza; la menzogna è più riprovevole nei re, che nei poveri. — Mio diletto sposo, tu pure se’ adesso nel numero dei perfidi! Ma ora che penso a te, ogni mio bisogno si dilegua: e pure, non ha guari, fui per cadere in deliquio. — Ma che veggo? un sentiero conduce a quella caverna!... forse è l’asilo di qualche selvaggio... nè sarebbe bene chiamarlo... non oso chiamarlo... nullameno la fame, finchè la natura non soccombe, rende intrepidi... la pace e l’opulenza affievoliscono l’anima; ma il bisogno è padre del coraggio. Oh! chi è costà? se alcuno vi è, favelli; se un selvaggio vi si nasconde, mi tolga o mi dia la vita. Olà!... nessuno risponde? ebbene, entrerò. — Snudiamo, per maggior sicurezza, la spada; e se il mio nemico teme il ferro com’io, appena oserà di guardarlo un istante. Cielo benigno, concedimi un tale nemico! (entra nella caverna; compariscono da altra parte Belario, Guiderio e Arvirago)
Bel. Tu, Polidoro, che fosti il miglior cacciatore, sarai re della festa; e Cawdal ed io imbandiremo e serviremo il tuo banchetto, come fu il nostro patto: l’industria cesserebbe in breve di prodigare i suoi sudori; l’industria perirebbe, ove incoraggiata non venisse da ricompense e guiderdoni. Entriamo: la fame condirà soavemente i poveri nostri cibi: la stanchezza si addorme a meraviglia anche su’ nudi macigni, mentre la mollezza si sente pugnere sul suo guanciale di piume. — La pace sia con te, povero e sereno ostello!
Guid. Io sono sfinito dalla fatica.
Arv. Ed io pure, ma la fame mi tormenta.
Guid. Nella caverna abbiamo qualche avanzo che ci potrà satollare fino a che la cacciagione sia allestita.
Bel. (guardando nella caverna) Fermatevi, fermatevi: se mangiar nol vedessi le nostre provigioni, giurerei che fosse un Silfo...
Guid. Chi è dunque, signore.
Bel. Per Giove! un angelo; o se non un angelo, certamente un tipo inarrivabile di terrena bellezza! Mirate, mirate quella divinità sotto forme di giovinetto!... (entra Imogène)
Imog. Buona gente, non mi vogliate far male; prima d’entrare in questa caverna, ho chiamato, e la mia intenzione era di avere o in dono, o per prezzo, quello che ho preso. In verità, niente vi ho rapito: e nulla avrei tolto, se il suolo fosse anche stato coperto d’oro. Eccovi denaro per quello che ho mangiato: e lo avrei lasciato sul desco tosto che, finito il mio banchetto, mi fossi dipartito da questi luoghi, pregando il Cielo per l’ospite che mi aveva alimentato.
Guid. Denaro, giovinetto?
Arv. Possa tutto l’argento e l’oro diventar putredine! niente è più prezioso di esso, per quelli che adorano vilissimi numi.
Imog. Voi siete sdegnati, lo veggo; ma vi sia noto almeno, se volete uccidermi per questo fallo, che anche senza compierlo sarei morto.
Bel. Dove siete rivolto?
Imog. A Milford.
Bel. Il vostro nome?
Imog. Fedele, signore. — Ho un parente che, partendo per l’Italia, s’imbarca a Milford; ed io andava a raggiungerlo: quando, estenuato di forze, ho commesso l’errore...
Bel. Ti prego, bel giovinetto, non crederne tanto selvaggi, nè giudicare della bontà delle anime nostre dall’aspetto dell’antro che ne accoglie: il tuo incontro è una fortuna per noi. La notte sta per cadere: meglio sarai festeggiato prima della tua partenza, e meglio ringraziato per avere diviso con noi la mensa ed il tetto. — Giovani, rendetegli onore.
Guid. Fanciullo, se tu fossi una donna, io t’amerei con grande ardore, e ti sarei fedele e rispettoso servo: tutto farei, tutto darei per possederti.
Arv. Ed io godo che sia un uomo; e l’amerò come fratello. Sì, io ti farò accoglienza come la farei a mio fratello dopo lunghi anni di lontananza. Sii il benvenuto, e gioisci che qui non trovi che amici.
Imog. (a parte) Amici, oh! se fossero miei fratelli, se il Cielo avesse conceduto che fossero stati i figli di mio padre, gli eredi della sua corona; il pregio della mia persona sarebbe stato tanta minore, e per ciò più dicevole alle fortune del mio diletto Postumo!
Bel. Un qualche pensiero lo opprime...
Guid. Potessi sollevarnelo!
Arv. Lo potessi io pure, qual ch’egli si fosse, e per quanti pericoli e pene dovesse recarmi. Oh Dei!
Bel. Giovani, uditemi. (parla loro sommessamente)
Imog. Grandi di corte che non avessero per palagio che questa angusta caverna, che ridotti fossero a servirsi da sè medesimi, e che, rinunziando a’ frivoli omaggi dell’incostante moltitudine, possedessero la virtù che dà una coscienza pura, non sarebbero superiori a quell’amabile coppia. O sommi Dei, perdonatemi; ma vorrei mutar sesso, onde poter vivere con questi giovani, giacchè Postumo mi ha tradita.
Bel. Così faremo: apprestiamo la selvaggina. — Bel giovine, entriamo: il parlare affatica quando siamo digiuni; ma dopo cena ti chiederemo la tua istoria, se ti piace narrarcela, lasciandoti libertà d’interromperla dove ti aggrada.
Guid. Vieni, ti prego.
Arv. La notte al cuculo, e il mattino all’allodola è men caro, che a noi il tuo incontro.
Imog. Vi ringrazio, signore.
Arv. Vieni con noi, te ne supplico. (escono)
SCENA VII.
Roma.
Entrano due Senatori e alcuni Tribuni.
1° Sen. Ecco il tenore dell’editto imperiale: «Dappoichè la milizia ordinaria si trova adesso alle prese coi Pannoni e coi Dalmati; e poichè gli eserciti di presidio nelle Gallie sono troppo affraliti per poter imprendere una guerra contro i Brettoni ribelli; arruoliamo i cittadini e i volontari per questa spedizione». — Crea quindi proconsole Lucio; e a voi, tribuni, affida l’esecuzione del comando. — Lunga vita a Cesare!
Trib. È Lucio il capitano?
2° Sen. Lucio.
Trib. Sta ancora nelle Gallie?
1° Sen. Sta; e con quegli eserciti che io diceva, e che voi dovete rinforzare: le parole dell’editto vi chiariranno qual sia il numero dei soldati richiesti, e quale il giorno della marcia.
Trib. Faremo il dover nostro. (escono)
Note
- ↑ La prima volta che i Romani penetrarono in Inghilterra, credettero di aver scoperto un nuovo mondo: l’arcivescovo di Cantorbery veniva anticamente chiamato Alterius Orbis Papa. (Grey)
- ↑ Cesare fu battuto due volte da Cassibelano; e volendo navigare a ritroso del Tamigi fino a Trinovantum, ruppe contro i pali piantati sott’acqua per ordine del Re Britanno, correndo i più gravi pericoli, e perdendo parecchi vascelli e alcune migliaia d’uomini.
- ↑ Lud, l’antica Trinovantum. Londra ebbe da principio il nome di Caerlud, e per corrosione Caerlondon, e in fine semplicemente London. Essa fu rifabbricata da Lud, fratello maggiore di Cassibelano. (Storia di Monmouth).
- ↑ Milford, uno de’ più grandi porti del mondo, illustre per l’entrata di Enrico VII, il cui arrivo presagì più felici tempi all’Inghilterra, già tanto lacerata dalle guerre civili. (Camden).
- ↑ Jay, ghiandaia.
- ↑ The lamb entreats the butcher: l’agnella implora il beccajo.