Cimbelino/Atto secondo
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ATTO SECONDO
SCENA I.
Piazza innanzi al palazzo di Cimbelino.
Entra Cloten coi due Lordi.
Clot. Fu mai uomo più sventurato di me? il giuoco, fino il giuoco, mi è contrario! mille lire in tal modo perdute!... e, che più è, un imbelle che mi rimprovera i miei giuramenti, come se libero non fossi di proferirne a mio senno!
1° Lord. Ma qual guadagno ne ha tratto? voi gli avete rotto il capo colla vostra palla.
2° Lord. (a parte) E se avesse avuto il cervello che ha il principe, sarebbe tutto evaporato.
Clot. Quando un principe è in sul bestemmiare, credo non sia lecito a nessuno degli spettatori di interromperlo.
2° Lord. (a parte) No, senza dubbio, no; dovesse egli squarciar loro le orecchie.
Clot. Figlio di una malnata!1 gli darò soddisfazione!... Fosse almeno stato uno del mio grado!
2° Lord. (a parte) Allora avrebbe appartenuto al grado dei pazzi.
Clot. Nessuna cosa m’infastidisce di più su questa terra! Maledette siano le grandezze!... vorrei non essere tanto nobile come sono... Alcuno non osa combatter meco, perchè sono figlio della regina; e mentre ad ogni perdigiorno è concesso di liberamente sgozzarsi, io debbo rimanere ozioso come un gallo a cui non si trovi degno competitore.
2° Lord. (a parte) E tu se’ gallo e cappone; ma più di cappone, che di gallo, sanno le tue opere.
Clot. Che dici?
2° Lord. Che Vostra Altezza non dee venire a rissa con ogni accattabrighe che le si faccia dinanzi.
Clot. No, certo; lo so, ma ben mi è lecito d’insultare a’ miei inferiori.
2° Lord. Sì; questo è un privilegio che appartiene a Vostra Signoria soltanto.
Clot. E questo è quello che io dico.
1° Lord. Avete inteso parlare d’uno straniero che arrivò alla Corte?
Clot. Uno straniero! e nessuno me ne ha fatto motto?
2° Lord. (a parte) Tu stesso sei una bestia molto strana; e pure lo ignori!
1° Lord. Sì, è arrivato un Italiano; un amico, dicesi, di Leonato.
Clot. Leonato! quel bandito d’inferno! costui sarà un altro malandrino. — Ma chi vi ha parlato di questo forestiero?
1° Lord. Un paggio di Vostra Altezza.
Clot. Sta bene. Ora posso io andare a vedere chi sia egli? lo posso io senza derogare alla mia condizione?
1° Lord. Voi non potete mai derogare, milord.
Clot. Almeno, credo, non facilmente.
2° Lord. (a parte) Voi siete un dappoco, da tutti riconosciuto per tale; e le vostre azioni essendo conformi al vostro carattere, non vi fanno derogare.
Clot. Venite, vo’ vedere questo Italiano: quel che oggi ho perduto, stasera lo guadagnerò con lui. Venite; andiamo.
2° Lord. Seguirò l’Altezza Vostra. (esce Cloten col 1° Lord) Come mai una sì astuta diavolessa, qual’è sua madre, ha potuto generare un tale insensato? Una donna, che col suo cervello sconvolgerebbe l’universo; e un figlio di lei, a cui non si riescirebbe mai a far comprendere che togliendo due da venti riman diciotto! — Oimè! povera principessa, divina Imogène, che non soffri tu fra un padre governato da una vile madrigna; una madrigna che intesse frodi continuamente; e un amante per te più odioso dell’esilio del tuo tenero sposo, che ti costringe a un tristo divorzio, opera degna d’abisso? — Ah! soccorra il Cielo alla tua virtù, e consolidi su questa terra il fragile tempio in cui dimora la tua bell’anima, onde tu possa vivere abbastanza per vederti un giorno consorte avventurata e regina di questo vastissimo impero. (esce)
SCENA II.
Una stanza da letto; da un lato un baule.
Imogène coricata che legge; una Signora del suo seguito.
Imog. Chi è là? siete voi, Elena?
El. Che cosa chiedete, signora?
Imog. Che ora è?
El. Omai mezzanotte, signora.
Imog. Lessi dunque tre ore... ho gli occhi stanchi: piegate il foglio dove sono rimasta, e andate a coricarvi. Non togliete il fanale; ch’esso arda a sua posta: e se potete svegliarvi a quattr’ore, venite a chiamarmi, ve ne prego. — Il sonno mi vince interamente, (la Signora esce) Numi, alla vostra tutela mi commetto! proteggetemi, ve ne scongiuro, contro i fantasimi e i malefici spiriti notturni! (si addormenta; Jachimo esce dal baule)
Jach. Odo il canto dell’estivo animaletto dei prati che mi avverte che le esauste forze dell’uomo si ricreano col riposo. Così, già è gran tempo, Tarquinio con piè levato avanzavasi, prima di svegliare la casta bellezza che deflorò. — O Venere novella, quanto questo letto accresce le tue grazie! Fresca come un giglio, più bianca dei lini che ti fan velo, oh ch’io toccar ti possa, darti un bacio, un solo bacio! Coralli di amore, quale tenerezza si deliba da voi!... È l’alito suo che così profuma questa stanza... la fiamma di quel fanale va ognora più inclinandosi verso le pupille di lei che, se le cortine se ne sollevassero, folgorerebbero, come due astri, superando la gloria de’ celesti zaffiri! — Ma il mio disegno è d’osservare questa stanza, di notarne tutte le parti: costà quadri... là finestre... tali gli ornamenti del letto... tali le tappezzerie... Un qualche segno di lei però sarebbe testimonio mille volte più efficace di questi equivochi riscontri, e di molto arricchirebbe il mio inventario. — O sonno, immagine della morte, aggravati sui sensi di questa bella, e rendila insensibile come il freddo monumento di un tempio. (togliendole il braccialetto) Vieni... vieni... già cede... eccolo... è mio; e questo pegno colpirà gli occhi del suo sposo con quella forza con cui la coscienza flagella il cuore del colpevole... egli ne perderà la ragione... Ma che veggo? il di lei seno porta a sinistra l’impronta di una stella a cinque raggi, simile alle goccie di porpora che s’incolorano nel calice di un fiore... Ecco una prova al disopra d’ogni altra più forte che acquistar potessero anche le leggi stesse. Questi indizii così segreti lo forzeranno a credere che veramente io sia entrato nella stanza di lei, e che le abbia rapito il tesoro dell’onore. Che mi occorre di più? e a che scriverei quello che mi sta profondamente scolpito nella memoria?... Ella leggeva la storia di Tereo: e il foglio è piegato a quel passo in cui Filomena si arrende... Questo mi basta: rientriamo nel nostro ricetto, e rinchiudiamolo sopra di noi... Su, su, affrettatevi, draghi notturni2; e tu, aurora, spalanca il tuo occhio di corvo3. — Io ho timore... questo è per me l’inferno, sebbene ivi riposi un angelo del cielo... (l’orologio suona le ore) Una, due, tre... è tempo, è tempo.
(rientra nel baule; la scena si chiude)
SCENA III.
Un’anticamera che mette alle stanze d’Imogène.
Entra Cloten co’ due suoi Lordi.
1° Lord. Vossignoria è il più paziente degli uomini allorchè perde: il più freddo giuocatore che mai sfogliasse un asso.
Clot. Il perdere rende freddo ognuno.
1° Lord. Ma non già paziente come Vostra nobile Altezza: voi siete più ardente e impetuoso quando vincete.
Clot. Il vincere dà coraggio; e se vincer potessi quella pazza Imogène, non desidererei nulla di più. È quasi il mattino, non è vero?
1° Lord. È giorno, milord.
Clot. Vorrei che que’ suonatori venissero. Sono stato consigliato a farle udire un po’ di musica alla punta del dì, e vi fu chi mi accertò che ciò gli avrebbe fatto impressione (entrano alcuni suonatori). Venite; accordate i vostri strumenti: e se potete con l’arpeggiar delle dita allettare la principessa, metteremo a prova anche la vostra voce; se poi nulla la commuove, e persiste nella sua inflessibilità, resti allora quella che è: ma io non la cederò ad alcuno. — Esordite prima con qualche preludio patetico; poi cantate una canzone di meravigliosa dolcezza sì di suoni, che di parole; e quindi la lascieremo in preda alle sue contemplazioni.
Sinfonia e canzone.
«Ascolta! ascolta! l’allodola canta alle porte del cielo, e Febo incomincia a levarsi; i suoi cavalli s’abbeverano alle sorgenti, da cui si attigne la rugiada dei fiori; e le pratelline appena dischiuse lasciano travedere i loro occhi d’oro. Oh svegliati, svegliati, mia dolce amica! svegliati insieme con quest’odorosa famiglia!»
Clot. Basta; andatevene: se alla bella dilettarono i vostri suoni terrò in gran conto la vostra musica; se poi rimase insensibile, questa sarà colpa del suo orecchio, cui nè l’armonia degli strumenti, nè la melodiosa voce dell’eunuco potranno correggere mai. (i suonatori escono; entrano Cimbelino e la Regina)
2° Lord. Il re si avvicina.
Clot. Sono lieto di non essermi coricato ieri sera: così mi trovo in pie’ per tempo. — Il re, come padre, non può che approvare l’omaggio da me offerto a sua figlia. — Salute a Vostra Maestà e alla graziosa mia madre!
Cimb. Siete dunque sempre alle porte di questa figlia ribelle? nè mostrerassi ella mai?
Clot. Ho assalito il cuore di lei coll’incanto della musica; ma essa non si è pur degnata di prestarvi attenzione.
Cimb. L’esilio del suo amante è troppo recente; colei non l’ha ancora obbliato: ma aspettate anche un poco; e la memoria dell’uomo indegno si cancellerà dal suo cuore, ed ella si piegherà ad amarvi.
Reg. Molti ringraziamenti voi dovete al re, che nulla lasciò intentato onde muovere Imogène ad esservi propizia. Continuate le vostre istanze presso di lei, cogliete il momento opportuno; e le sue ripulse aumentino il vostro ardore: mostratevi affettuoso, sottomesso ai suoi voleri, e non le disobbedite se non quando v’impone d’allontanarvi; su di ciò soltanto dovete essere insensibile.
Clot. Insensibile io? è impossibile. (entra un Messaggere)
Mess. Con vostra licenza, Maestà: sono arrivati ambasciatori da Roma; e Caio Lucio è con essi.
Cimb. Un valoroso: e benchè venga apportatore di nemiche proposte, vo’ riceverlo con tutte le dimostrazioni di stima. Valga questo a mostrargli la riconoscenza ch’io debbo ai suoi servigi. — Figlio mio, dopo che avrete salutata la vostra principessa, venite a raggiungerci: avremo mestieri di voi per ricevere questa ambasciata. — Regina, andiamo.
(escono tutti, eccetto Cloten)
Clot. Se la trovo alzata, le dirò qualcosa; ma se no, dorma a suo senno, e sogni finchè le piace. — Con vostro permesso... olà! (batte alla stanza d’Imogène) Ella ha una corona di donzelle... forse se mettessi un po’ d’oro nelle loro mani... l’oro apre ogni porta. Oh sì! non di rado esso corrompe anche le guardie di Diana, e fa loro consegnare la preda nelle mani del cacciatore: l’oro è che fa spesso perire l’onesto uomo, salvando il malvagio; l’oro che talvolta guida al patibolo indistintamente il giusto e il reo... e che non può egli fare e disfare? Vo’ dunque col suo soccorso captivarmi una delle donzelle, e indurla a patrocinare la mia causa; poichè io stesso non intendo ancor bene questa materia. — Con vostro permesso... (batte; entra una Donzella)
Donz. Chi è là? chi batte?
Clot. Un gentiluomo.
Donz. E non altro?
Clot. Sì; il figlio d’una gentildonna.
Donz. Questo è qualcosa di più; poichè vi sono molti che indossano abiti non meno ricchi de’ vostri, e che di quello che dite non si potrebbero vantare. — Ma che desidera vossignoria?
Clot. La persona della vostra signora: sarebbe ella pronta?
Donz. Sì, a stare nella sua camera.
Clot. Quest’oro è per voi; rendetemi buon ufficio.
Donz. Come! e il mio nome? e gli ufficii miei presso la principessa?... eccola... (entra Imogène)
Clot. Buon giorno, amabile sorella! datemi la vostra bella mano.
Imog. Buon giorno, signore! troppe cure vi prendete, per non avere che ripulse: i ringraziamenti ch’io vi debbo, stanno nel dirvi che avarissima ne sono, e che non me ne rimangono per voi.
Clot. Nullameno io vi amo; ve lo giuro.
Imog. Potevate dirlo senza giuramenti; e le vostre parole avrebbero fatto su di me il medesimo effetto: ma se persistete a giurar sempre, il prezzo de’ vostri giuramenti sarà di vedere che ad essi io non porgo la più piccola attenzione.
Clot. Questo non è rispondere.
Imog. Non mi degnerei rispondervi, se non temessi che aveste ad interpretare favorevolmente il mio silenzio. Lasciatemi in pace, ve ne supplico; e persuadetevi che accoglierò sempre a questo modo le vostre preghiere. Un giovane di spirito, come voi, dovrebbe finalmente imparare a disertare l’arringo dopo tante battaglie.
Clot. Lasciarvi in preda alla vostra follia sarebbe un peccato, e nol commetterò.
Imog. La follia è un po’ meno della pazzia.
Clot. Vorreste forse dire ch’io sono un pazzo?
Imog. Sì, com’io sono folle; così faccio: ma se vorrete essere paziente, io rinsavirò; e saremo guariti entrambi. — Duolmi, signore, che mi obblighiate a dimenticare i modi proprii del mio sesso e della mia condizione, prodigandovi tante inutili parole. Abbiate per fermo, una volta per sempre, quello che sono per dirvi: ch’io cioè non curo il vostro amore, e che mi sento quasi costretta a mancare ad ogni convenienza, dichiarandovi che vi odio. Mi sarebbe piaciuto meglio che da voi medesimo lo aveste compreso, anzichè forzarmi a farvene solenne dichiarazione.
Clot. Voi mancate all’obbedienza che dovete a vostro padre; e il nodo che credete vi abbia legata ad un vile proscritto, a un miserabile che viveva delle elemosine della Corte e si nudriva cogli avanzi della mensa del re, non è un nodo, no! non è un nodo! Alle persone di vile condizione (e ve n’ha forse alcuna più vile di quella del vostro bandito?) può esser lecito il legarsi come lor piace, stringendo quei vincoli che da se stesse han formati; nè alcuna autorità può loro impedire d’associare scambievolmente la propria miseria, e di dare alla luce esseri sciagurati: ma l’altezza del vostro stato vi toglie questa libertà; nè vi è concesso di oscurare lo splendore della corona, cingendola a un pezzente, a un vilissimo schiavo... e peggio ancora.
Imog. Profano insensato! fossi tu anche figlio di Giove, se l’indole tua non mutassi, non saresti degno di divenire tampoco un famiglio di Postumo. Troppo egli ti onorerebbe accordandoti il più vile ufficio del suo regno4, e il biasimo universale si leverebbe contro di te, veggendoti innalzato al di sopra del tuo merito.
Clot. Le mortifere esalazioni australi lo appestino!
Imog. Egli non può incontrare più dolorosa sventura di quella di essere da te nominato. Il più logoro vestimento che ha coperto il suo corpo è per me di maggior pregio, che non tutti i capelli della tua testa, divenissero essi altrettanti uomini quale tu sei Olà, Pisanio! (entra Pisanio)
Clot. Come! il più infimo de’ suoi vestimenti?... Ebbene, il diavolo...
Imog. O Dorotea, mia donna, vieni, vieni a me...
Clot. L’infimo vestimento?...
Imog. Sono infestata da un demente, la cui presenza mi cruccia e m’addolora. — Ite, ve ne prego (a Pisanio), e dite alle mie donzelle di cercare uno smaniglio che sventuratamente ho smarrito. Esso fu già del vostro signore; e ne attesto il Cielo, che non vorrei perderlo per tutte le ricchezze del più gran re dell’Europa. Parmi d’averlo veduto questa mane: sono certa che la notte scorsa lo avea, poichè lo baciai; nè credo possa essere andato a raccontare al mio sposo, ch’io dia baci ad altri che a lui.
Pis. Oh! non sarà perduto.
Imog. Almeno lo desidero: corri a cercarne. (Pisanio esce)
Clot. Voi mi avete dileggiato... l’infimo suo vestimento?...
Imog. Sì, l’ho detto, signore; e se volete farmene un delitto, chiamate testimonii che m’odano ripetervelo.
Clot. Ne farò avvisato vostro padre.
Imog. E vostra madre ancora, che m’è tanto mite, e che ne diverrà senza dubbio furibonda. Vi lascio, signore, in preda a tutto ciò che la collera può inspirarvi di più tremendo. (esce)
Clot. Mi vendicherò!... l’infimo suo vestimento?... bene sta.
(esce)
SCENA IV.
Roma. — Appartamento in casa di Filario.
Entrano Postumo e Filario.
Post. Non temete, signore: vorrei essere così sicuro di propiziarmi il re, come certo sono che l’onore di lei rimarrà immacolato.
Fil. E di quali mezzi vi varrete per piegare il monarca?
Post. Di nessuno, fuor quello di sottomettermi alle vicissitudini del tempo, e sopportare i rigori del verno, desiderando veder pascere giorni più sereni. Questa speranza, che intorbida il timore, è la sterile riconoscenza, di cui pago la vostra amicizia; e se tale speranza mi tradisce, converrà ch’io muoia vostro debitore.
Fil. La bontà vostra e la vostra compagnia mi compensano ad usura di quanto potessi fare per voi. — Adesso il re vostro conosce le dimande del grande Augusto. Caio Lucio adempierà interamente il suo ufficio: e credo che Cimbelino pagherà il tributo in un cogli arretrati, anzichè vedere un’altra volta la sua isola invasa dai Romani, la memoria de’ quali è ancor viva nel dolore de’ suoi popoli.
Post. Benchè io poco intenda alle cose di Stato, nè speri di averle mai a comprendere, pure giurerei che una tale inchiesta sarà cagione di guerra. Avrete prima a udire che le legioni delle Gallie sono discese nella bellicosa nostra isola, anzichè questa paghi un solo denaro del tributo che le viene domandato. I nostri popoli sono adesso meglio disciplinati, che a’ tempi in cui Cesare, sorridendo della loro inesperienza, s’accorse che il loro valore meritava maggior rispetto: oggi la disciplina è collegata al coraggio; e quelli che ne vorranno far esperienza s’avvedranno che il Brettone è il popolo che sa, meglio d’ogni altro, correggersi de’ proprii difetti. (entra Jachimo)
Fil. Vedete!... Jachimo...
Post. È forza dire che tutti i venti abbiano gonfiate le vostre vele, e che per terra i cervi abbiano tirato il vostro carro.
Fil. Bene arrivato, signore.
Post. Dalla corta vostra assenza argomento i vostri successi.
Jach. La vostra donna è una delle più belle ch’io abbia veduto.
Post. Aggiungete, una delle più virtuose; senza di che la porrei nel novero di quelle beltà, i cui sguardi non intendono che a suscitare nei fallaci amatori inonesti desiderii, onde poi meglio ingannarli.
Jach. Ecco lettera per voi.
Post. Voglio sperare che il suo contenuto mi sia propizio.
Jach. Potrebbe essere.
Post. Mentre eravate in Brettagna, Lucio vi è forse capitato?
Jach. Vi era atteso; ma la sua venuta non si credeva vicina.
Post. (dopo aver percorsa la lettera) Fin qui tutto va bene... Ditemi: brilla ancora quel diamante nel vostro dito? nol trovate troppo comunale per portarlo nei giorni di festa?
Jach. Se avessi perduto la scommessa, dovrei pagarne il prezzo in tanto oro: ma farei di tutto cuore un altro viaggio, e il doppio lungo di questo, onde passare una notte divina come quella che ho goduto in Brettagna; poichè l’anello è guadagnato.
Post. La gemma ne è troppo dura, perchè siasi liquefatta così prontamente.
Jach. Non tanto dura, avvegnachè la sposa vostra è di tal cortesia...
Post. Non celiate, signore, sulla vostra mala fortuna, e vi sovvenga piuttosto che noi non siamo più amici.
Jach. Lo dobbiamo essere, egregio signore, se tener volete i patti che abbiamo stretto. Se io non vi apportassi veritiere notizie intorno alla vostra sposa, consento che la nostra contesa potrebbe andare più lungi: ma apertamente dichiaro di aver vinto ad un tempo e l’onore di lei e il vostro anello; e ciò senza fare oltraggio nè a lei nè a voi, poichè non ho seguito che la vostra volontà.
Post. Se mi provate d’aver diviso il mio talamo, l’anello è vostro; e ve ne do in pegno la mia mano; se nol potete fare, dopo l’indegno concetto che avevate formato delle sue virtù, converrà che o voi mi togliate la mia spada, o che io vi tolga la vostra; o che entrambe, prive del proprio signore, divengano proprietà del primo uomo che avrà a trovarle sull’arena.
Jach. Le mie prove essendo tanto evidenti, come vedrete, dovrebbero pur farvi persuaso; ma se abbastanza non valessero, le confermerò col giuramento.
Post. Proseguite.
Jach. Anzi tutto, la stanza in cui ella riposa, e dove confesso di non aver dormito trovandomi possessore d’un bene che era degno si vegliasse eternamente, è parata a ricami in seta ed oro, rappresentanti la storia della superba Cleopatra, quand’essa andava incontro al fiero Romano: vi si vede il Cidno che sormonta le rive, gonfio d’orgoglio pel carico de’ mille vascelli che sul dorso sostiene; e questa dipintura è ad un tempo sì eccellentemente condotta e sì ricca, che il lavoro e il prezzo suo se ne contendono il primato: molto ammirai la bellezza di quel disegno, e le figure che vi sembrano respirare.
Post. Questo è vero, ma potrebbe esservi stato riferito.
Jach. Altri particolari vi proveranno che ho veduto co’ miei occhi proprii.
Post. E dovete farlo, se vi è caro il vostro onore.
Jach. Il caminetto è al mezzodì della stanza, e il gruppo che vi è sopra, rappresenta Diana nel bagno: non ho mai veduto statua così piena di vita; lo scultore era al certo un’altra natura; e, se si eccettui la voce, egli nella sua muta creazione l’ha sorpassata.
Post. Anche questo vi potrebbe esser stato detto, attesa la celebrità di quella statua.
Jach. Il palco della stanza è fregiato di cherubini d’oro; agli alari, che dimenticava, sono due amorini d’argento, con occhi maliziosetti; inclinati entrambi sulle loro faci.
Post. Che ha a fare tutto ciò coll’onore della mia sposa? Consento che abbiate veduto quanto mi dite, e ammiro la vostra memoria; ma la descrizione degli oggetti che sono nella camera d’Imogène non vi fa vincere la scommessa.
Jach. (traendo lo smaniglio) Ebbene! impallidite, se potete: non vi mostrerò che un gioiello... guardate! Ammettete una volta che ho vinto; cedetemi il vostro anello; che conserverò insieme con questo smaniglio.
Post. Cielo! concedete che io lo vegga: è forse quello che le ho lasciato alla mia partenza?
Jach. Quello stesso; e ne ringrazio la vostra sposa: essa lo tolse dal suo braccio: parmi di vederla ancora... La grazia che pose nello slacciarlo accrebbe il valore del dono, e me lo rese più caro. Porgendomelo esclamò: Oh quanto un tempo l’ho amato!
Post. Ve lo avrà dato perchè me lo recaste.
Jach. Lo dice forse nella lettera?
Post. Oh, no, no! pur troppo è vero! Prendete, ecco il vostro anello: esso ha pe’ miei occhi il veleno dell’aspide; la sua vista mi cagiona la morte. Oh destino crudele! perchè l’onore non alberga mai colla bellezza, la verità colle sembianze del vero? perchè l’amore, al presentarsi d’un rivale, non si serba intemerato? Oh possano i giuramenti delle donne legarle a coloro che li hanno ricevuti, com’esse s’attengono alla loro virtù, che è tutta menzogna! Femmina ingannatrice oltre ogni umana credenza!
Fil. Calmatevi, signore; e riprendete il vostro diamante, chè non è ancora vinto. Potrebbe essere ch’essa avesse perduta quell’armilla, o che qualcuna delle sue ancelle, corrotta dall’oro, glie ne avesse involata.
Post. Ben detto; e lo spero (a Jachimo): rendetemi il mio anello, o datemi qualche prova più convincente: lo smaniglio le fu rapito.
Jach. Viva il Cielo, ch’io l’ho avuto da lei.
Post. L’udite? egli giura; pel Cielo giura: dunque ciò che dice è vero... Tenetevi l’anello... pur troppo è vero! — Sono certo ch’ella non lo ha perduto; le sue donzelle sono tutte fanciulle d’onore. — Esse averlo involato? e per chi? per uno straniero?.... no!... egli l’ha posseduta... qui sta la prova del suo disonore; e a questo prezzo ella ha acquistato il nome di prostituta!... Prendete, prendete la vostra ricompensa; e tutti i demoni dell’inferno si dividano fra essa e voi!
Fil. Signore, calmatevi: non evvi finora una prova abbastanza forte, per convincere un uomo della...
Post. Non me ne dite di più! ella gli si è prostituita.
Jach. Se di maggiori prove abbisognate, vi dirò che al di sotto del suo seno, che merita, come sapete, ben mille carezze, vi ha un segno che sembra superbo d’occupare quel luogo di tutte delizie. Sulla vita mia, le mie labbra l’hanno baciato; e quantunque sazio di piaceri, ho sentito risorgere il mio ardore. Vi rammentate di quella rosea macchia che ha nel petto?
Post. Sì, adesso in lei ne discopro un’altra più nera degli abissi d’inferno.
Jach. Volete saperne di più?
Post. Risparmiate i vostri particolari; non narrate i vostri trionfi: un solo o mille è lo stesso per me.
Jach. Debbo io giurare?
Post. Non giuramenti! se giurate, non avete fatto quello che dite, e siete un mentitore! Ma io ti ucciderei, se tu adesso osassi dire di non avermi disonorato.
Jach. Non negherò nulla.
Post. Oh! perchè non l’ho in mia mano per farla in brani? Ma andrò; e lo farò alla presenza della corte, e sotto gli occhi di suo padre. Sì, sì; otterrò vendetta!... (esce)
Fil. Egli ha valicato i confini della pazienza e della ragione! — Voi avete vinto... seguitiamolo, impediamogli di rivolgere contro di sè il furore ond’è invasato.
Jach. Con tutto il cuore. (escono)
SCENA V.
Altra stanza.
Entra Postumo.
Post. Perchè l’uomo non potrebbe trovar mezzo di riprodursi senza il concorso della femmina? Nessuno è sicuro d’esser nato legittimo; e il degno mortale che imparai a chiamar padre, chi sa dove era quando io fui concetto!... Così veniamo alla luce, usurpando un nome che non è nostro. E nullameno mia madre era creduta la Diana del suo tempo, come adesso la mia donna è riputata una meraviglia. — Oh! vendetta, vendetta!.... Inaudita perfidia!... E spesso ella poneva freno a’ miei legittimi desiderii; e domandava astinenza con così aggraziato pudore, che in quel momento la sola vista di lei avrebbe fatto ardere il vecchio Saturno. Pura e casta io la credeva, come neve ancora non tocca!... Oh demonii dell’inferno!... Jachimo... un turpe uomo... nel lasso d’un’ora!... non è vero forse?... forse anche in meno... forse al primo colloquio!... A che anzi avrebbe egli dovuto favellarle?... a che non l’avrebbe anzi con brutale silenzio posseduta al primo vederla?... Nessun ostacolo, nessuna resistenza si sarà frapposta a’ suoi desideri, alla sua audacia... Oh avesse la natura accoppiate in me le facoltà d’ambo i sessi! poichè nell’uomo, lo giuro, non è la tendenza al vizio... essa gli è inspirata dalla femmina. Menzogne, lusingherìe, perfidie, tutto procede da lei! impurità, vendetta, ambizione, orgoglio, sdegno, capriccio, maldicenza, incostanza, tutti i vizi infine che hanno un nome, e che l’inferno conosce, tutti hanno radice nella donna soltanto. Nè esse sono pure costanti nelle colpe; ma continuamente le avvicendano, lasciandone una vecchia per una nuova. Ah! vo’ bandire al mondo i loro difetti, che detesto e maledico! vo’ scrivere e gridare contro di loro!... e sento che è un odiarle veramente il pregare il Cielo che loro conceda tutto quello che possono desiderare; avvegnachè a farne strazio più siano efficaci i loro sfrenati appetiti, che tutti i demoni insieme.
(esce)