Chi l'ha detto?/Parte prima/50

Parte prima - § 50. Ostinazione, ricredersi, pentirsi

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§ 50.

Ostinazione, ricredersi, pentirsi



Non doveva essere facile a smuovere dalle sue convinzioni quella brava signora sposa di Don Ferrante, della quale il Manzoni diceva che

1057.   Con le idee donna Prassede si governava come dicono doversi far con gli amici; ne aveva poche, ma a quelle poche era affezionata assai.

(I Promessi Sposi, cap. XXV).

e della stessa farina è la bella Rosina, che dopo avere più volte ripetuto:

1058.             Lo giurai, la vincerò.

ha la faccia franca di cantare:

1059.   Io sono docile - son rispettosa,
Sono obbediente - dolce amorosa,
Mi lascio reggere - mi fo guidar.

però soggiunge subito:

          Ma se mi toccano - dov’è il mio debole,
Sarò una vipera - e cento trappole
Prima di cedere - farò giocar.

(Il Barbiere di Siviglia, parole di Cesare
Sterbini, musica di Rossini, a. I. sc. 4).

Proverbiale è anche la rigida ostinazione dei militari:

1060.   Nel militare il superiore ha sempre ragione ma specialissimamente poi quando ha torto.

Così finisce la classica commedia di Paulo Fambri, Il caporal di Settimana (a. III, sc. 13); ma vi si aggiunge: «La è una massima però di cui l’inferiore deve ricordarsi sempre, e il superiore mai.» [p. 347 modifica]

Non mancano gli esempi storici di ostinazione, e uno dei più celebri è quello ricordato dalle parole:

1061.   Sint ut sunt aut non sint.1

Si dice che così rispondesse il P. Lorenzo Ricci, ultimo Generale dei Gesuiti, al papa Clemente XIV, che lo sollecitava a una riforma della Compagnia. Ved. la Vita del Sommo Pontefice Clemente XIV Ganganelli trad. dall’origin. franc. del sig. Marchese Caraccioli (Firenze, 1775), a pag. 115. «Vedeva in fine, che avevano eglino stessi acconsentito alla loro annichilazione col dichiarare senz’ambiguità per bocca del loro Generale, che avevan più caro di non più esistere, che di sottoporsi ad una riforma: Sint ut sunt, aut non sint.

«Questa risposta temeraria fece tanto maggior sorpresa, quantochè essi non ignoravano, che la Chiesa stessa si riforma in ciò che riguarda la disciplina, e che dovevano ricordarsi che Benedetto XIV parlando al Padre Centurioni loro Generale, gli aveva detto espressamente: Egli è di fede che io avrò un successore, ma non è di fede che ne averete uno ancor voi.

«Tanto è vero, che gli uomini che hanno più spirito, diventano facilmente ciechi sopra i loro propri affari, e che la reputazione che godevano i Gesuiti da lungo tempo, gli aveva abbagliati: Si credettero necessari, diceva il Cardinale Stoppani. e questo fu il loro male.» Ciò sarebbe seguito nel 1773.

D’altra parte il Crétineau-Joly, storico diligente ma anche sospetto di parzialità per la Compagnia, nella sua storia della soppressione dei Gesuiti (Clément XIV et les Jésuites, Paris, pag. 381), parlando del processo che dopo il breve di soppressione fu istruito contro la Società di Gesù, dice: «Le procès contre les Jésuites embarassait beaucoup plus les Cardinaux instructeurs que les accusés eux-mêmes; on résolut de le faire trainer en longueur. Ce fut alors qu’on exhuma les paroles, presque sacramentelles, mises dans la bouche de Ricci, ce fameux. Sint ut sunt, aut non sint, qui n’a jamais été prononcé, mais que tous les Pères de l’Institut ont pensé, car il était la conséquence de leurs vœux et de leur vie.» Ed in nota aggiunge: «C’est Caraccioli, dans son roman sur Clément XIV. qui attribue au P. Ricci ce mot devenu [p. 348 modifica] célèbre. Le Général des Jésuites ne l’a jamais prononcé devant le pape Clément XIV, puisqu’il lui fut impossible de l’entretenir depuis son élévation au siège de Pierre [ciò che ho trovato confermato anche da altri istorici]. Ces paroles sont tombées de la bouche de Clément XIII, lorsqu’en 1761 le Cardinal de Rochechouart, ambassadeur de France à Rome, lui demandait de modifier essentiellement les Constitutions de l’Ordre. On voulait un supérieur particulier pour les Jésuites français; alors le Pape, résistant à ces innovations proposées, s’écria: Qu’ils soient ce qu’ils sont ou qu’ils ne soient plus!»

In luogo di questa temeraria risposta si suole adoperare anche la frase più laconica:

1062.   Se no, no.

che risale alla vetusta costituzione aragonese. Finchè l’Aragona formò un regno distinto, l’autorità del re era molto ristretta, e le Cortes, che si adunavano ogni anno per deliberare sugli affari del paese, erano convocate pure straordinariamente all’avvenimento di ogni nuovo principe per ricevere da lui il giuramento di conservare intatti i loro fueros, o privilegi, e in ricambio gli prestavano giuramento condizionato di fedeltà. La formula di cui si sarebbe servito il Justiza o gran giustiziere nell’incoronare il novello re, così è riportata (Ant. Perez, Obras y relaciones, 1676, pag. 143): «Nosotros, que, cada uno por si, somos tanto como os, y que juntos podemos mas que os, os hacemos nuestro rey, con tanto que guardareis nuestros fueros; si no, no» (cioè, Noi, che individualmente siamo tanto quanto voi, e che riuniti siamo più potenti di voi, vi facciamo nostro re, a condizione che rispetterete i nostri privilegi; se no, no). I fueros aragonesi furono soppressi in parte da Carlo V, in parte da Filippo V: ma convien dire che questa formula non si trova in nessun corpo legale nè in alcun antico documento, per cui non è ritenuta autentica anche perchè la lingua del testo quale comunemente si riporta, non corrisponde al tempo al quale la si assegna, vale a dire fra il 1193 e il 1213. Un autore spagnuolo, Quinto, ha scritto su questo argomento un trattato Del juramento politico de los antiguos reyes de Aragon, dove sostiene che la suddetta formula fu inventata, forse non precisamente negli stessi termini, dal [p. 349 modifica] giureconsulto francese Francesco Hotman, e alterata poi a mano a mano fino a diventare, quale oggi comunemente si cita. Ma nondimeno, pure non essendo autentica in tale forma, qualche fondamento deve avere, ipotesi non improbabile dato il carattere altiero dei baroni aragonesi: e in tal caso le origini potrebbero trovarsene nella formula di giuramento riportata nel cosiddetto Fuero Juzgo (stampato per la prima volta a Parigi nel 1579 da P. Pithou col titolo: Codicis legum Wisigothorum lib. XII) «Rey seras si feceries derecho, et si non fecieres derecho, non seras Rey. - Rex eris si recte facis, si autem non facis, non eris.» Queste stesse parole, Se no, no, hanno un posto anche nei fasti dell’italiano risorgimento, poichè si trovano già come epigrafe della famosa lettera di Gius. Mazzini a Carlo Alberto firmata Un italiano e pubblicata nel 1831 a Marsiglia con la falsa data di Nizza (cfr. con quello che il Mazzini stesso scrisse dell’avere scelto «per epigrafe il se no, no degli Aragonesi» nell’Appello alla concordia dell’opere ecc. in Scritti editi e inediti, ed. Daelli, vol. IX, pag. 243); quindi furono nobilmente usate da Daniele Manin il quale scriveva a Lorenzo Valerio nel settembre del 1855: «Io repubblicano, pianto il vessillo unificatore. Vi si rannodi, lo circondi e lo difenda chiunque vuole che l’Italia sia, e l’Italia sarà. Il partito repubblicano dice alla Casa di Savoia: Fate l’Italia, e sono con voi: se no, no. E ai costituzionali dice: Pensate a fare l’Italia e non ad ingrandire il Piemonte: siate Italiani e non municipali, e sono con voi: se no, no.» E ripeteva in altra lettera del 6 gennaio 1856: «Il partito nazionale, a mio avviso, dovrebbe dire: accetto la monarchia, purchè sia unitaria: accetto la casa di Savoia purchè concorra lealmente ed efficacemente a fare l’Italia. a renderla indipendente ed una. Se no, no». Accanto alle sfide vere o apocrife che siano dei principi Aragonesi e dei Gesuiti, potremo mettere una parola rimasta celebre nella storia dell’italiano risorgimento:

1063.   Jamais!2

Nella seduta della Camera francese del 5 dicembre 1867. Eugenio Rouher, ministro di stato, rispondendo alle numerose [p. 350 modifica] interpellanze sull’intervento francese a Roma, disse: «Maintenant j’arrive au dilemme: le pape a besoin de Rome et l’Italie ne peut s’en passer. Nous déclarons que l’Italie ne s’emparera pas de Rome (Vif mouvement et applaudissements prolongés). Jamais la France ne supportera une telle violence faite à son honneur, faite à la catholicité! [Nouvelle et vive approbation). Elle demandera à l’Italie la rigoureuse et énergique exécution de la convention de septembre, sinon elle y suppléera elle-même. Est-ce clair? (Nouveaux applaudissements).» (Compte-rendu analytique des Séances du Corps Législatif, session 1868, to. I, pag. 62). - Bisogna però avvertire che queste dichiarazioni gli erano state quasi suggerite da uno degli interpellanti, il Thiers, il quale nella seduta precedente, aveva detto che se egli fosse stato Rouher, avrebbe parlato francamente e chiaramente all’Italia: «Dans aucun cas, je ne vous abandonnerai le pape. Que je sois à Rome, à Civita-vecchia ou même a Toulon, tenez pour certain que dans aucun cas, ni par les moyens moraux ni par les moyens immoraux, vous n’aurez Rome.» L’asprezza sgarbata del ministro garbò poco anche all’imperatore il quale all’indomani della seduta si volle rallegrare con Rouher per il suo «beau discours», ma poi aggiunse con dolce accento di rimprovero: «En politique, il ne faut point dire jamais» (P. De La Gorce, Histoire du Second Empire, to. V, 5me edit. Paris 1903, pag. 314; che cita Pinard, Mon Journal, to. Ier , pag. 236).

Uno stornello di Francesco Dall’Ongaro così rintuzzava la vanitosa burbanza del ministro francese:

          Giammai, signore è una parola snella:
               Un dì la nota e l’altro la cancella.
          E c’è un proverbio nel nostro idioma:
               Tutte le vie ponno condurre a Roma.
          E in onta al Chassepot che fa prodigi,
               Tutte le vie conducono a Parigi.

ciò che doveva vedersi infatti tre anni dopo!

Il penultimo verso ricorda la nota frase del generale De Failly:

1064.   Les Chassepot ont fait merveille.3

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Il generale De Failly la sera medesima della battaglia di Mentana (3 novembre 1867), ne avvisava il suo governo con un primo telegramma da Roma che non fu pubblicato. Invece il Moniteur Universel del 10 novembre pubblicò un telegramma più particolareggiato del generale stesso, comandante in capo del corpo di spedizione a Roma, con la data del 9 novembre, il quale termina con queste frasi:

«Le 6 novembre, la population romaine a fait aux troupes un accueil triomphal. Votre Excellence va recevoir un rapport plus dètaillé. Notre présence à Rome était urgente pour la sauver; je garantis la sûreté des États pontificaux contre les bandes insurgées. Nos fusils Chassepot ont fait merveille!»

Pare che veramente il governo francese tenesse a essere ragguagliato sollecitamente della prova che aveva fatto quel fucile a percussione e a retrocarica che, inventato nel 1857 da Antoine Chassepot, e adottato il 30 agosto 1866 per l’esercito francese, tirava per la prima volta a Mentana su bersagli umani.

In ogni modo la frase, detta forse senza cattive intenzioni, appena fu nota suscitò un vero tumulto d’indignazione in Italia e in Francia; e se n’ebbe l’eco fino alla tribuna francese, poichè nella tornata del Corpo Legislativo del 2 dicembre, mentre si svolgevano le interpellanze sull’intervento francese a Roma, e Jules Favre faceva una violenta diatriba contro la politica illiberale e antiumanitaria del gabinetto Rouher, a un certo punto Eugenio Pelletan interruppe esclamando:

«Il fallait essayer les fusils Chassepot!»

Dopo rumorose esclamazioni della Camera, Jules Favre riprende la parola e continua:

«.... Nos troupes soutiennent le corps pontifical avec leurs perfectionnées qui font tomber les hommes comme les épis sous la faux du moissoneur (Interruptions).

«Une voix. C’est une insulte à l’armée!

«Favre. De là la phrase qui a produit en Europe une si triste impression: le fusil Chassepot a fait merveille (Bruyante interruption).

«Pelletan. C’est une indignité! (Bruif).

«Favre. Je comprends, je subis les nécessités de la guerre, mais j’avone que je suis attristé lorsque je rencontre dans un [p. 352 modifica] rapport cette glorification de la destruction des hommes (Nouveau bruit).

«Et cette parole n’a pas seulement blessé les cœurs français, elle a été accucillie en Italie avec une émotion indescriptible (Interruptions).

«Oui, l’émotion a été telle en Italie qu’il n’y a eu qu’un cri d’indignation contre la France (Bruif).»

E veramente gli animi erano allora concitatissimi contro la Francia: ma tre anni dopo il fucile ad ago prussiano doveva fare le vendette delle meraviglie operate dallo Chassepot!

Si ritiene da molti che nel medesimo telegramma del De Failly, si trovi un’altra frase che fu pure rilevata:

1065.   Toutes les troupes campèrent sur le champ de bataille.4

Ma è un errore: codesta frase si trova invece nel rapporto ufficiale mandato per posta dal De Failly l’8 novembre. Ma si sa bene che quel generale francese che mostrò di rispettare sì poco la verità, come poco rispettava i vinti anche se feriti, disse con quelle parole una vanitosa menzogna. Il campo di battaglia era Mentana stessa, dove i francesi non ardirono entrare, e per quella notte essi ne dormirono fuori.

È perciò inesatta pure la tradizione che vuole che il famoso telegramma fosse spedito da Mentana la sera medesima del 3, e che anc’oggi mostra in una villa presso il paese il tavolino sul quale il De Failly l’avrebbe scritto.

La storia parlamentare francese ci serba memoria anche di un’altra frase famosa, posteriore in tempo alle ultime citate:

1066.   Se soumettre ou se démettre.5

Essa fu detta da Leone Gambetta nel conflitto sorto in Francia nel 1877 tra la maggioranza repubblicana della Camera da una parte, il Presidente Mac-Mahon, il ministro De Broglie-Fourtou e il Senato dall’altra. Il 15 agosto Gambetta pronunziò a Lilla in un [p. 353 modifica] banchetto un famoso discorso, nel quale esponeva la situazione e concludeva con queste parole: «Quand la France aura fait entendre sa voix souveraine — (erano imminenti le elezioni generali) — croyez-le bien, messieurs, il faudra se soumettre ou se démettre.» Il gabinetto De Broglie, dopo qualche giorno, ordinò al Procuratore Generale della Repubblica di procedere contro Gambetta per il suo discorso, e precisamente per la frase rimasta celebre: e Gambetta, citato innanzi alla 10a camera del Tribunale della Senna come imputato di offesa alla persona del presidente della Repubblica, e di oltraggi ai ministri, fu condannato in contumacia l’11 settembre a tre mesi di prigione e 2000 franchi d’ammenda. Ma pare che la frase fosse suggerita al Gambetta da Charles-Louis de Freycinet il quale in casa della signora Adam avrebbe detto una sera presente Gambetta: «Si les élections sont républicaines, il faudra bien que le maréchal se soumette ou se démette» — «Je retiens le mot» — disse ridendo Gambetta, — «je lui ferai un sort». E non si può dire che non gliel’abbia fatta! (L’Opinion, journal de la semaine, 17 janvier 1920. pag. 64). Gli esempi citati sarebbero tutti di ostinazione nelle idee, dalla quale nasce la ostinazione nelle opere, bella e lodevole quando si tratti del bene, biasimevolissima quando si tratti del male. Le parole di Medea:

1067.    ....Video meliora proboque:
Deteriora sequor.6

(Ovidio, Metamorfosi, lib. VII. v. 20-21).

di cui si ha la traduzione italiana in un verso del Petrarca:

1068.   ....Veggio ’l meglio ed al peggior m’appiglio.

(Canzone in vita di M. Laura, num. XVII secondo il Marsand, comincia: I’ vo pensando e nel pensier m’assale, num. XXI nell’ediz. Mestica: ultimo verso).

e in quelli del Foscolo, che dice di sè (Son. Il proprio ritratto):

                                             ....Do lode
          Alla ragion, ma corro ove al cor piace.

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esprimono un sentimento pur troppo assai comune, benché i moralisti tuonino contro la pervicacia nell’errore. Infatti Cicerone scrive:

1069.   Cujusvis hominis est errare; nullius, nisi insipientis, in errore perseverare.7

(Filippica XII, 2).

sentenza imitata in un noto adagio scolastico che i più cercano inutilmente nella Bibbia:

1070.   Errare humanum est, perseverare autem diabolicum.8

La prima parte deve trovarsi nelle Declamazioni di Seneca il retore (Anneo Seneca: non si sa il pronome, ed è il padre di Lucio Anneo Seneca il filosofo); ed è anche un emistichio dell’Antilucretius del Cardinale Melchior de Polignac, lib. V, r. 59. Invece Pope scriveva:

1071.   To err, is human; to forgive, divine.9

(Essay on Criticism, p. II, verse 325).

Non è bene dunque di ostinarsi nell’errore e di rispondere burbanzosamente:

1072.   Quod scripsi, scripsi.10

(Vang. di S. Giovanni, cap. XIX. v. 22).

come Pilato rispose gì Sacerdoti che volevano fargli cambiare il cartello posto sulla croce di Cristo; e le parole medesime si usano assai sovente come perentorio rifiuto di mutare sillaba agli ordini dati, alle cose dette o scritte. A Baldassarre Cossa, che fu papa col nome di Giovanni XXIII, e che il Concilio di Costanza [p. 355 modifica] obbligò a rinunziare nel 1415, dopo la sua morte a Firenze nel 1419, i Medici fecero costruire un mausoleo in S. Giovanni dal Donatello. Papa Martino V chiedeva che le parole scrittevi, Quondam Papa, cancellate e sostituite invece dalle altre, Quondam Cardinalis; ma la Signoria Fiorentina rispose semplicemente: Quod scripsi, scripsi.

Ma inutile è il fare intender ragione a chi non vuol sentirla:

1073.    [Che] Chi ne l’acqua sta fin alla gola,
Ben è ostinato se mercè non grida.

(Ariosto, Orlando furioso, c. I, ott. 50).

non c’è peggior sordo di chi non vuole intendere, egli è come gli dei bugiardi della Bibbia, che

1074.   Os habent, et non loquentur: oculos habent, et non videbunt.11

(Salmo CXIII, v. 13 e Salmo CXXXIV, v. 16).

e quando non si vuole udir ragione, com’è facile di trovare il torto dalla parte di coloro che non pensano come noi! È anche talvolta questione di falso amor proprio, di rispetto umano, poichè

1075.   L’amour propre fait que nous ne trouvons guères de gens de bon sens, que ceux qui sont de notre avis.12

come è detto nelle vecchie edizioni delle Maximes di La Rochefoucauld, mentre nell’ediz. definitiva del 1678 la sentenza è così mutata: «Nous ne trouvons guère de gens de bon sens que ceux qui sont de notre avis» (§ CCCXLVIII). Invece il savio non esita a riconoscere il proprio errore e allora sa mutare opportunamente il proprio giudizio e le proprie decisioni: [p. 356 modifica]

1076.                        ....Variano i saggi
A seconda de’ casi i lor pensieri.

e l’onest’uomo, se ha fallato, deve riconoscere il suo errore e pentirsene, poichè tale è il desiderio non solo degli uomini, ma anche della eterna giustìzia, la quale ha detto:

1077.   Nolo mortem impii, sed ut convertatur impius a via sua et vivat.13

(Ezechiele, cap. XXXIII. v. 11).

Si penta dunque, e chieda perdono a coloro che ha offesi, non però a mo’ di quel tristanzuolo, che diceva:

1078.   S’io ho fallato, perdonanza chieggio:
     Quest’altra volta so ch’io farò peggio.

una delle solite uscite di Margutte nel Morgante Maggiore di Luigi Pulci (c. XIX, ott. 100); piuttosto si serva delle parole del Salmista:

1079.   Delicta juventutis meæ et ignorantias meas ne memineris [Domine].14

(Salmo XXIV. v. 7).

e copra il suo viso di quel rossore che è la migliore confessione del fallo, come si canta anche nella Sonnambula di Felice Romani (musica di V. Bellini, a. III, sc. 8):

1080.   Ve lo dica il suo rossore.

Il rossore e la confusione di chi si riconosce in colpa sono talvolta sufficiente espiazione del suo errore, come già osservava il nostro maggior poeta, cui Virgilio confortava dicendo: [p. 357 modifica]

1081.   Maggior difetto men vergogna lava.

(Dante. Inferno c. XXX, v. 142).

cioè anche una minore vergogna sarebbe sufficiente a lavare un errore più grave.

Il pentimento venga in tempo, se non si vuol pagarlo troppo caro, e così dicendo la memoria suggerisce subito una frase famosa:

1082.   Pœnitere tanti non emo.15

(Aulo Gellio, Noctes Atticae, lib. I, c. 8 § 6).

che fu la risposta di Demostene alla cortigiana Laide la quale gli aveva chiesto 10,000 dramme come prezzo dei suoi favori; anzi, come Aulo Gellio stesso soggiunge, le precise parole di Demostene sarebbero anche più argute: οὒκ ὼνοῦμαι ἆυρίων δραχμῶν μεταμέλειν.

1083.   Ablue peccata, non solum faciem.16

è la traduzione latina di una iscrizione bizantina, che si legge. o si leggeva, intorno al battistero della basilica di S. Sofia in Costantinopoli, e si trova anche ripetuta in quello della chiesa di Notre-Dame-des-Victoires a Parigi. Essa era così scritta in greco:

ΝΙΨΟΝΑΝΟΜΗΜΑΤΑΜΗΜΟΝΑΝΟΨΙΝ

e come si vede restava la medesima, tanto se letta da destra a sinistra, quanto da sinistra a destra.

  1. 1061.   O siano come sono, o non siano affatto.
  2. 1063.   Mai!
  3. 1064.   Gli Chassepot hanno fatto meraviglie.
  4. 1065.   Tutte le truppe accamparono sul campo di battaglia.
  5. 1066.   Sottomettersi o dimettersi.
  6. 1067.   Veggo il meglio e l’approvo; ma seguo il peggio.
  7. 1069.   Chiunque può errare, ma soltanto lo sciocco persevera nell’errore.
  8. 1070.   L’errare è cosa umana, il perseverare nel male invece è diabolico.
  9. 1071.   Errare è umano, dimenticare è divino.
  10. 1072.   Quel che scrissi, scrissi.
  11. 1074.   Hanno bocca, ma non parleranno; hanno occhi, ma non vedranno.
  12. 1075.   L’amor proprio fa che noi non troviamo altre persone di buon senso che quelle che la pensano come noi.
  13. 1077.   Non voglio la morte del peccatore, ma che si ritragga dalla sua via e viva.
  14. 1079.   Non ti ricordare, o Signore, de’ delitti della mia giovinezza, nè delle mie ignoranze.
  15. 1082.   Non pago così caro un pentimento.
  16. 1083.   Lava anche i tuoi peccati, non soltanto la faccia.